Readme.it in English  home page
Readme.it in Italiano  pagina iniziale
readme.it by logo SoftwareHouse.it


Walt Whitman

Giorni rappresentativi

 

a cura di

Patrizio Sanasi

 

ISPIRAZIONE DI UN' ORA FELICE

Tra i boschi, 2 luglio 1882. Se devo farlo, non posso più indugiare. Note di diario, appunti di guerra

(18621865), impressioni di paesaggio (1877-81) e successive note sul West e sul Canadà affastellate alla rinfusa e

legate in un sol fascio con un grosso spago - tutto così incongruo, pieno di salti e lacune - ed ecco che quest'oggi,

quest'ora (e che giornata! che ora quella che sta passando! il lusso dell'erba ridente e della brezza, lo sfarzo del sole e

del cielo, e una temperatura perfetta, che m'empiono anima e corpo come mai prima) viene a me la risoluzione, il

mandato anzi, di tornare a casa svolgere quel fascio e sdipanare appunti e frammenti di diario così come sono, grandi e

piccoli, uno dopo l'altro, in pagine stampate e lasciare che le lacune e le assenze di nessi del mélange si sistemino da sé.

Servirà comunque a illustrare una fase dell'umanità, e quei pochi giorni e ore della vita di cui prendiamo nota (e questi

non per adeguata valutazione o convenienza, ma per mero caso). Probabilmente c'è anche un altro punto, e cioè che

dedichiamo lunghi preparativi a qualche nostro progetto, facendo piani, scavando e costruendo, per poi, giunto il

momento della messa in opera vera e propria, trovarci affatto impreparati e gettar tutto in pentola, lasciando che la fretta

e la nudità raccontino la loro storia meglio di una sapiente elaborazione. Ad ogni modo io obbedisco all'ispirazione

della mia ora felice, che appare curiosamente imperativa. E forse finirò per pubblicare *, se non altro, il più immediato,

spontaneo e frammentario libro che sia mai stato stampato.

* Le pagine 1-35 corrispondono quasi parola per parola a una lettera da me casualmente scritta in risposta alle

insistenze di un amico. Riporto di seguito alcune tristi esperienze. La guerra di tentata secessione è stata ovviamente

l'evento distintivo del mio tempo. Alla fine del 1862, per poi continuare senza interruzione fino a tutto il '65, cominciai

a visitare i malati e i feriti dell'esercito sia sui campi di battaglia che negli ospedali di Washington e dintorni. Sin dal

primo momento tenni dei taccuini su cui annotare li per li nomi, circostanze, cose di cui vi fosse particolare bisogno,

ecc., si da rinfrescarle alla memoria. Qui registrai casi, persone, cose viste o accadute sul campo, presso il letto dei feriti

e non di rado accanto ai cadaveri dei caduti. Alcune furono scarabocchiate in fretta dietro storie da me udite e annotate

mentre osservavo quelle scene, o aspettavo, o mi prendevo cura di qualcuno. I taccuini rimasti sono ora dozzine, e

formano una storia di quegli anni tutta particolare, per me solo, ricca di associazioni che non potrebbero mai esprimersi

né con la parola né col canto. Sarebbe bello trasmettere al lettore quanto è legato a questi appunti macchiati e sgualciti,

ognuno di un foglio o due piegati e ripiegati per portarli in tasca, e tenuti insieme con uno spillo. Li lascio così, come li

gettai da parte dopo la guerra, segnati qua e là da più di una macchia di sangue, scritti in fretta, talvolta in ospedale, non

di rado nell'eccitazione dell'incertezza, della disfatta, di una marcia, dell'azione o della preparazione ad essa. La più

parte delle pagine da 44 a 145 è una copia fedele di quei drammatici taccuini macchiati di sangue.

Molto diversi sono per lo più i ricordi che seguono. Poco dopo la fine della guerra fui colpito da un attacco di

paralisi che ebbe a prostrarmi per diversi anni. Nel 1876 cominciai a superare la fase peggiore. Passai da allora diverse

stagioni, anzi parti di stagione, massime l'estate, in un appartato rifugio nella contea di Camden, New Jersey -Timber

Creek, piccolo fiume (si stacca dal grande Delaware, dodici miglia più in là)- con solitudini primitive, serpeggiar

d'acque, sponde isolate e boscose, sorgenti d'acqua dolce e tutti gli incanti che uccelli, erba, fiori selvatici, conigli e

scoiattoli, vecchie querce, noci, ecc. possono offrire. In questi scorci di tempo e in questi luoghi fu scritto il diario da

pag. 147 in poi.

La MISCELLANEA che segue raccoglie tutte le scartoffie su cui sto riuscendo a metter ora le mani, brani

scritti in passato in momenti diversi, imbrigliandoli tutti assieme come pesci nella rete.

Penso che il mio desiderio di pubblicare l'intera raccolta così come si trova sia dovuto in primo luogo a quella

eterna tendenza a perpetuare e preservare che è ovunque latente in Natura, inclusi gli scrittori; e in secondo luogo, per

dar veste di simbolo a due o tre interni tipici, personali e non, scelti tra le miriadi del mio tempo, la metà del secolo

diciannovesimo nel Nuovo Mondo, uno strano, sconnesso, meraviglioso tempo. Ma con ogni probabilità il libro è scritto

senza alcun proposito di cui possa darsi una enunciazione definita (N.d.A.).

RISPOSTA A UN AMICO INSISTENTE

Mi chiedi notizie, dettagli dei miei primi anni-della mia genealogia e parentela, in particolare delle donne della

mia ascendenza e la lontana origine olandese del ramo materno - della regione dove nacqui e crebbi, e mio padre e mia

madre prima di me, e i loro prima di loro - con l'aggiunta magari di una parola su Brooklyn e New York, e sui periodi

che ebbi a passarvi da ragazzo e da giovane. Dici di volere questi particolari soprattutto in quanto antecedenti e

embrioni di Foglie d'Erba. Benissimo; ne avrai se non altro qualche campione. Ho pensato spesso al significato di

simili cose - che sia possibile abbracciare e conchiudere argomenti del genere spingendo l'esplorazione direttamente

dietro le cose, molto indietro forse, fin entro la loro genesi, gli antecedenti e i vari stadi di accumulazione. Poi, tempo

fa, come fortuna volle, presi a ingannare il tedio di una settimana di infermità e isolamento collazionando queste

medesime note, ma per un altro scopo, non ancora realizzato e probabilmente ormai abbandonato; e se vorrai

accontentarti di esse così come sono, semplicemente autentiche nelle date e nei fatti, e raccontate alla mia garrula.3

maniera, eccotele. Non esiterò a fare degli estratti, poiché mi attacco a tutto ciò che può risparmiarmi fatica; ma

costituiranno sempre la miglior versione di quanto è mia intenzione dire.

GENEALOGIA - VAN VELSOR E WHITMAN

Gli ultimi anni del secolo scorso trovarono la famiglia di mia madre, i Van Velsor, nella loro fattoria a Cold

Spring, Long Island, nello stato di New York, presso il confine orientale della contea di Queens, a circa un miglio dal

porto.* La mia famiglia paterna, probabilmente la quinta generazione dai primi stanziamenti nel New England,

coltivava in quello stesso periodo un suo appezzamento di terra a un due o tre miglia di distanza, a West Hills nella

contea di Suffolk - (e che bel podere era, 500 acri, tutta terra buona, leggermente in pendio a est e a sud, circa un

decimo piantato a bosco, con una quantità di vecchi alberi maestosi). Il nome dei Whitman deve indubbiamente la sua

apparizione negli stati dell'Est, da cui diramò poi ad Ovest e a Sud, a un certo John Whitman, nato nel 1602 nella

Vecchia Inghilterra dove crebbe, si sposò ed ebbe il primo figlio nel 1629. Venne in America con la True Love, nel

1640, e visse a Weymouth, Massachusetts, luogo che doveva divenire il focolaio di tutti gli americani del New England

di quel nome: morì nel 1692. Suo fratello, il Rev. Zechariah Whitman, arrivò anche lui con la True Love, in quello

stesso periodo o immediatamente dopo, e visse a Milford, Connecticut. Un figlio di questo Zechariah, a nome Joseph,

emigrò a Huntington, Long Island, dove si stabilì definitivamente. Il Dizionario genealogico del Savage (vol. IV, p.

524) dà la famiglia Whitman stabilita a Huntington, tramite codesto Joseph, prima del 1664. Èormai certo che da quel

momento e da quel Joseph cominciarono a irradiarsi i Whitman di West Hill e tutti gli altri della contea di Suffolk, me

incluso. Sia John che Zecheriah andarono e tornarono dall'Inghilterra varie volte; avevano famiglie numerose, e

parecchi dei loro figli nacquero nell'antica patria. Abbiamo anche notizia del padre di John e Zechariah, Abijah

Whitman, con il quale si risale al 1500, ma poco sappiamo sul suo conto, tranne che lui fu per qualche tempo in

America.

Queste annose reminiscenze genealogiche mi occorrono in modo così vivo grazie a una visita da me compiuta

non molto tempo fa (a 63 anni) a West Hills e ai cimiteri dei miei antenati di ambo i rami. Traggo quanto segue da note

prese allora, nel luogo stesso della mia visita:

* Long Island fu colonizzata dapprima dagli Olandesi sul lato occidentale e poi dagli Inglesi su quello orientale

-la linea divisoria tra i due gruppi nazionali restava un poco ad ovest di Huntington, dove viveva la famiglia di mio

padre e dove nacqui io (N.d.A.).

I CIMITERI DEI VECCHI WHITMAN E VAN VELSOR

29 luglio 1881. Tornato a Long Island per una visita di una settimana ai luoghi dove sono nato, a trenta miglia

da New York, dopo un'assenza di più di quarant' anni (tranne una breve visita per accompagnarvi un'ultima volta mio

padre, due anni prima che morisse). Girato per i vecchi luoghi familiari, osservando minuziosamente, meditando,

indugiando nei miei pensieri. Tutto tornava alla memoria. Mi recai all'antica residenza dei Whitman sulla collina, e di lì

volsi lo sguardo ad est, piegando quindi a sud sulla bella distesa di terre ché erano state di mio nonno (1780) e poi di

mio padre. Là era la casa nuova (1810), con la gran quercia di centocinquanta, forse duecento anni; là il pozzo, e

l'orticello un po' in discesa, e a breve distanza, ancora in piedi, persino i resti ben conservati della casa del mio bisnonno

(1750-60) con le sue travature possenti e i soffitti bassi. Lì presso, un boschetto solenne di noci neri alti e vigorosi,

bellissimi, apollinei, per certo figli e nipoti di noci già esistenti nel 1776 se non prima. Dall'altro lato della strada si

stendeva il famoso pometo di più di venti acri, alberi piantati da mani ormai da tempo sfatte nella tomba (quelle di mio

zio Jesse), ma molti ancora evidentemente capaci di metter fuori ogni anno fiori e frutti.

Scrivo ora queste righe seduto su una vecchia tomba (senza dubbio di almeno un secolo fa) sulla collina dove

sono sepolti i Whitman di molte generazioni. Cinquanta tombe, forse più, sono chiaramente individuabili; altrettante

hanno perso ogni forma nello sfacelo del tempo- tumuli appiattiti, pietre spezzate e sbriciolate, coperte di muschio - la

collina sterile e grigia e fuori le macchie compatte di castagni, e il silenzio, variato appena dall'uggiolìo del vento.

Ciascuno di codesti vecchi cimiteri, di cui Long Island è ricca, ha in sé la più profonda eloquenza di cui sermone o

poema sia capace; che cosa dunque non sarà stato questo per me? L'intera storia della mia famiglia con la sua

successione di legami dal primo stanziamento sino ad oggi narrata qui: tre secoli concentrati in questo sterile acro di

terra.

Dedicai l'indomani, 30 luglio, ai luoghi di mia madre, e ne rimasi se è possibile ancor più penetrato e colpito.

Scrivo questa paginetta nel cimitero dei Van Velsor presso Cold Spring, il piú significativo luogo d'inumazione che si

possa immaginare, privo del minimo ausilio dell'arte e tuttavia quanto superiore all'arte stessa, terra sterile, un pianoro

di mezz'acro in gran parte brullo a sommo di un colle, e tutt'intorno siepi di sterpaglia e alberi rigogliosi e fitti boschi,

un luogo assai primitivo, niente visitatori, niente strade (non si arriva in carrozza quassù, i morti bisogna portarveli a

piedi, e a piedi seguirli)- quaranta, forse sessanta tombe ancora ben visibili, e altrettante pressoché cancellate. Qui sono.4

sepolti mio nonno Cornelius e mia nonna Amy (Naomi), e un gran numero di parenti stretti o remoti, del ramo di mia

madre. Il quadro nell'insieme, che l'osservassi in piedi o seduto, l'odore delicato e selvaggio dei boschi, un rado

piovigginare, l'atmosfera emotiva del luogo e le reminiscenze racchiuse in esso, erano perfetto accompagnamento.

LA CASA MATERNA

Da questo antico luogo di tombe scesi per un quattro o cinquecento iarde sino alla dimora dei Van Velsor, dove

nacque mia madre (1795) e dove da bambino e poi da ragazzo non c'era stato angolo che non mi fosse familiare. Era

stata, a quel tempo, una costruzione lunga e disorganica con muri a listelli di legno grigio scuro, con capannoni, recinti

pel bestiame, un bel granaio e grandi spiazzi carrabili Di tutto ciò ora non una traccia; tutto era stato abbattuto,

cancellato, l'aratro e l'erpice passati sulle fondamenta, gli spiazzi e ogni altra cosa, per molte estati - chiuso adesso nel

giro di una staccionata, con biada e trifoglio che vi crescono come in qualsiasi altro buon campo. Solo una gran buca,

residuo della cantina, con qualche mucchietto di pietre sbriciolate tutte verdi d'erbe e di gramigna, restava a indicare il

luogo. Persino il vecchio ruscello e la fonte un tempo così ricchi d'acqua sembravano essersi esauriti, dileguati. L'intera

scena, con tutto ciò che ridestava in me, ricordi dei miei giovani giorni trascorsi in quello stesso luogo mezzo secolo

prima, l'ampia cucina e il gran camino e, accanto, il salotto, il mobilio semplice, i pasti, la casa piena di gente allegra, il

dolce viso di vecchia di mia nonna Amy nella sua cuffia quacquera, mio nonno «il maggiore», gioviale, rubizzo, ben

piantato, con quella voce sonora e la fisionomia caratteristica, tali cose insieme a quanto mi si offriva allo sguardo,

fecero di quella mezza giornata l'esperienza più viva di tutta la mia gita.

Lì infatti, in quel salubre ambiente di colline e boschi, crebbe la mia carissima madre, Louisa Van Velsor - (sua

madre, Amy Williams, della congrega dei Quacqueri o Amici - la famiglia Williams, sette sorelle e un fratello - marinai

il padre e il fratello, e morti ambedue in mare) I Van Velsor erano noti per i loro bei cavalli, bestie di razza che gli

uomini allevavano e addestravano. Mia madre da giovane era un'ardita amazzone, e non passava giorno che non

montasse a cavallo. Quanto al capofamiglia in persona, ritengo che l'antica razza olandese, così ben innestata nell'isola

di Manhattan e nelle contee di Kings e Queens, non abbia mai esibito campione più caratteristico e più completamente

americanizzato del Maggiore Cornelius Van Velsor.

DUE VECCHI INTERNI DI FAMIGLIA

Ecco due esempi di vita domestica e privata al centro di Long Island, a quel tempo o poco prima:

«All'inizio di questo secolo i Whitman vivevano in una lunga casa di campagna di un piano e mezzo, costruita

con travi poderose che reggono ancora. Una estremità della casa era costituita da una grande cucina sempre sotto una

cappa di fumo, con un vasto focolare e un gran camino. L'esistenza della schiavitù nello stato di New York a quel

tempo, e il fatto che la famiglia possedesse una dozzina o quindicina di schiavi addetti ai servizi della casa e dei campi,

conferiva all'insieme un aspetto patriarcale. Verso il tramonto si vedevano in quella cucina sciami di negretti accoccolati

in circolo sul pavimento cenare con dolce di granturco e latte. Tutto nella casa, dal cibo alla mobilia, era rozzo ma

essenziale. Non si sapeva cosa fossero tappeti, stufe o caffè; tè e zucchero erano per le donne soltanto. Vivaci fuochi di

legna davano calore e luce alle notti d'inverno. C'era grande abbondanza di carne di porco, di manzo e di pollo, e di tutte

le verdure e i cereali comuni. Il sidro era la bevanda abituale degli uomini, e veniva presa ai pasti. Gli abiti erano per lo

più tessuti in casa. Uomini e donne viaggiavano a cavallo. Ambo i sessi svolgevano lavori manuali - gli uomini nei

campi, le donne a casa o nei pressi. I libri erano scarsi. La copia annuale dell'almanacco era un avvenimento, e veniva

letta e riletta nelle lunghe sere d'inverno. Vorrei anche ricordare che ambedue queste famiglie vivevano abbastanza

vicino al mare da poterlo osservare dalle alture, e ascoltare nelle ore di calma il muggito dei marosi: di notte, dopo una

tempesta, questi avevano un suono tutto particolare. Tutti poi, maschi e femmine, usavano scendere sovente in gruppi

alla spiaggia, per sostarvi o bagnarsi; gli uomini talvolta per spedizioni pratiche, come tagliar fieno salato, raccoglier

telline e pescare».

(dalle NOTE di John Burroughs)

«Gli antenati di Walt Whitman, sia dal lato materno che paterno, tenevano buona tavola, curavano l'ospitalità,

le forme e la propria reputazione sociale nella contea, che era eccellente, ed avevano spesso personalità spiccate. Mi

piacerebbe, spazio permettendo, soffermarmi su alcuni di essi che mi paion degni di una menzione speciale, soprattutto

tra le donne. La bisnonna di parte paterna, ad esempio, era un donnone dal colorito bruno che visse fino a tardissima età.

Fumava, cavalcava come un uomo, sapeva domare la bestia più ombrosa; più tardi, rimasta vedova, usava recarsi ogni

giorno nelle sue terre, sovente in sella, a dirigere il lavoro degli schiavi con un linguaggio in cui, all'occasione, non

erano risparmiate le bestemmie. Le due nonne di primo grado di Whitman furono donne superiori, nel senso migliore

della parola. La nonna materna, Amy Williams, da ragazza era una quacquera, o "amica", di carattere dolce e sensibile,.5

donna di casa per indole, e di natura profondamente intuitiva e spirituale. L'altra (Hannah Brush) era un carattere

egualmente nobile e forse più forte, ebbe vita lunghissima e figliolanza numerosa, era una signora per natura, in

gioventù aveva fatto la maestra di scuola, aveva una grande solidità di mente. Lo stesso W. W. tiene in grande

considerazione le donne della sua famiglia».

(lo stesso)

Da questi antecedenti di ambienti e persone nacqui io, il 31 maggio 1819. Mi soffermerò ora un poco sulla

località in sé, dal momento che le successive fasi della mia infanzia, adolescenza, giovinezza e maturità, trascorsero

tutte in questa isola di Long Island che sento a volte quasi entrata a far parte di me stesso. Vi ho vagabondato da

ragazzo e poi da uomo; ho vissuto, si può dire, quasi in ogni parte di essa, da Brooklyn alla punta di Montauk.

PAUMANOK. LA MIA INFANZIA E LA MIA GIOVINEZZA

Degna invero di completa e minuziosa attenzione questa Paumanok (per dare al luogo il suo nome indigeno * )

che si slunga ad est attraverso le contee di Kings, Queens e Sufflok, per un totale di centoventi miglia- a nord, lo stretto

di Long Island, una splendida, varia e pittoresca serie di insenature, bracci ed espansioni marine per un centinaio di

miglia fino a punta Oriente. Dalla parte dell'Oceano la grande baia meridionale punteggiata di innumerevoli secche,

piccole per lo più, alcune piuttosto ampie, qua e là lunghe creste di sabbia distanti da riva da un mille iarde a un miglio

e mezzo. Altrove invece, come accade a Rockaway e nell'estrema parte orientale lungo gli Hamptons, la spiaggia cinge

direttamente l'isola, col mare che vi si precipita sopra senza impedimenti di sorta. Diversi fari sulle coste orientali: una

lunga storia di tragici naufragi, alcuni anche di questi ultimi anni. Da ragazzo io vivevo nell'atmosfera e nelle tradizioni

di molti di codesti naufragi - di uno o due fui anzi quasi spettatore. Fu al largo della spiaggia di Hempstead, per

esempio, che avvenne nel 1040 il disastro della nave Mexico (cui si allude ne "I dormienti", in F. d'e.); e a Hampton,

qualche anno dopo, la distruzione del brigantino Elizabeth, una cosa terribile, durante una delle peggiori burrasche

invernali; vi perse la vita Margaret Fuller, col marito e il figlio.

All'interno dei banchi e delle secche questa baia meridionale è ovunque relativamente poco profonda; la

superficie negli inverni più freddi tutta una spessa coltre di ghiaccio. Da ragazzo mi recavo sovente con uno o due

compagni su quei campi gelati, con una slitta a mano, ascia e fiocina, a caccia di nidi di anguille. Scavavamo buche nel

ghiaccio, capitando a volte su vere miniere di anguille, e riuscendo a riempire i nostri cestini di capitoni grassi, grossi,

dalla carne bianca e dolce. Il paesaggio, il ghiaccio, tirar la slitta, scavar buche e fiocinare anguille, ecc. costituivano

naturalmente, per dei ragazzi, il più gran divertimento del mondo. Le rive di questa baia, d'estate e d'inverno, e le

imprese della mia fanciullezza sul loro sfondo sono una trama che corre per tutte le mie F. d'e. Un altro dei miei

divertimenti preferiti a quel tempo erano le battute sulla baia, d'estate, alla ricerca di uova di gabbiano (i gabbiani

depongono due o tre uova alla volta, un po' più grandi di un mezzo uovo di gallina, direttamente sulla sabbia, e li le

lasciano a schiudersi col calore del sole).

Anche l'estremità orientale di Long Island, la regione della baia Peconic, mi era parecchio familiare - ho fatto

più di una volta il giro per mare dell'isola Shelter, scendendo fino a Montauk - e quante ore non ho trascorso sulla

collina della Tartatuga all'estremo capo dell'isola, presso il vecchio faro, spaziando con lo sguardo sull'incessante rollio

dell'Atlantico. Mi piaceva spingermi fin laggiù a fraternizzare con i pescatori di spigole o con le squadre annuali di

pescatori di branzini. M' accadeva di incontrare a volte sulla penisola di Montauk (lunga una quindicina di miglia, e

tutta buon pascolo) quegli strani, incolti e semibarbari pastori che vivevano allora incuranti di ogni forma di vita sociale

e civile, sorvegliando su quei ricchi pascoli vaste mandrie di cavalli, pecore e bovini di proprietà degli agricoltori delle

città dell'Est; e talora anche qualcuno degli ultimi indiani o mezzosangue rimasti ancora nella penisola di Montauk, ma

che ora credo completamente estinti.

Più al centro dell'isola si trovavano le ampie pianure di Hempstead, a quel tempo (1830-40) molto simili a

praterie, aperte, disabitate, piuttosto sterili, coperte di erbacce e cespugli di sorbo, eppur ricche di ottimo foraggio per il

bestiame, specie vacche da latte, che vi pascolavano a centinaia, migliaia a volte, e si vedevano a sera (anche le pianure

erano proprietà cittadina, e questo era l'uso che ne faceva la comunità) prendere la via di casa diramandosi regolarmente

al punto dovuto. Più di una volta mi sono trovato fuori, verso il tramonto, ai bordi di queste praterie; e rivedo ancora

con gli occhi della fantasia le interminabili processioni di mucche, e riodo la musica dei campani di latta o di rame,

vicini o distanti, e respiro ancora la fragranza di quell'aria serotina dolce e lievemente aromatica, e seguo attento il

tramonto.

Nella medesima regione dell'isola, ma più verso est, si stendevano vaste zone centrali di pini e querce nane (era

qui che in genere si faceva il carbone) monotone e sterili. Ma quante belle giornate e mezze giornate non ho passato a

vagabondare per quei viottoli solitari, respirando profondamente il particolare aroma selvatico. Qui, come in ogni

angolo dell'isola e delle sue coste, ho vissuto ad intervalli per molti anni, in tutte le stagioni, girando ora a cavallo, ora

in barca, ma per lo più a piedi (ero un buon camminatore a quei tempi), assorbendo campi, rive, incidenti di mare, tipi

umani, la gente della baia, contadini, piloti - ebbi sempre molte amicizie tra questi ultimi e tra i pescatori - ogni estate.6

facevo escursioni in barca - e sempre mi piacque la nuda spiaggia a sud, che ha visto alcune delle ore più felici della

mia vita sino ad oggi.

Mentre scrivo, a distanza di quarant'anni e più, l'intera esperienza rifluisce in me - il cullante sciabordìo delle

onde, l'odore della salsedine - le gioie della fanciullezza, la pesca dei molluschi a piedi nudi, coi calzoni rimboccati -

spinger la barca giù per il ruscello - il profumo dei prati di carice - la chiatta del fieno, le spedizioni per pesci e

molluschi da mangiare a zuppa; o, in anni più recenti, brevi viaggi per la baia di New York e anche fuori, nelle barche

dei piloti. In quegli stessi anni inoltre, quando cioè vivevo a Brooklyn (1836-50), me ne andavo regolarmente ogni

settimana durante la buona stagione a Coney Island, allora una lunga spiaggia nuda e deserta, tutta per me, dove mi

piaceva, dopo il bagno, fare gran corse su e giù sulla sabbia dura declamando per ore Omero o Shakespeare alla risacca

e ai gabbiani. Ma sto procedendo troppo rapidamente, e debbo mantenermi nei limiti del tracciato.

* «Paumanok (o Paumanake, o Paumanack, nome indiano di Long Island): oltre cento miglia di lunghezza, a

forma di pesce - gran copia di coste, sabbiose, battute dalle tempeste, poco invitanti, l'orizzonte sterminato, l'aria troppo

forte per i malati, e le sue baie splendide riserve per gli uccelli acquatici, i campi a sud ricoperti di fieno salato, il suolo

in genere duro, ma buono pei carrubi, i meli e il morasco, e ricco di innumerevoli sorgenti della più dolce acqua del

mondo. Anni fa, tra la gente della baia - una razza forte e selvaggia ora estinta, o piuttosto radicalmente mutata-un

nativo di Long Island veniva definito un Paumanackese, o Creolo-Paumanackes(John Burronghs) (N.d.A.).

PRIME LETTURE. LAFAYETTE

Dal 1824 al '28 la nostra famiglia visse a Brooklyn, in Front Street, Cranberry Street e Johnson Street

nell'ordine. In quest'ultima mio padre si costruì una bella casetta, e un'altra ne costruì in seguito in Tillary Street. Le

abitammo una dopo l'altra, ma erano ipotecate, e così le perdemmo. Ricordo ancora la visita di Lafayette. * Durante la

maggior parte di quegli anni frequentai le scuole pubbliche. Dev'essere stato intorno al 1829 o '30 che mi recai in

compagnia di mio padre e mia madre a sentir predicare Elias Hicks, in una sala da ballo sulle alture di Brooklyn. A un

dipresso nello stesso periodo mi impiegai come ragazzo d'ufficio presso due legali, padre e figlio, i Clarke, a Fulton

Street, vicino Orange Street. Avevo un bel tavolo e il cantuccio della finestra tutto per me; Edward C. mi aiutò

gentilmente a migliorare nella calligrafia e nella composizione e mi iscrisse (l'evento più memorabile della mia vita sino

a quel momento) a una grossa biblioteca circolante. Allora, per un buon periodo di tempo, diguazzai in letture

romanzesche d'ogni sorta; per prima cosa Le mille e una notte, tutti i volumi, un vero festino; poi, con qualche sortita in

altre direzioni, divorai uno dopo l'altro tutti i romanzi e tutte le poesie di Walter Scott (e ancor oggi leggo con piacere

sia le une che gli altri).

* «Durante la sua visita nel nostro paese, nel 1824, il Generale Lafayette venne a Brooklyn in gran pompa e

attraversò la città a cavallo. I ragazzi uscirono dalle scuole per unirsi al saluto della cittadinanza. Si stava proprio allora

cominciando a costruire una biblioteca pubblica e gratuita per i giovani, e Lafayette acconsentì a fermarsi per porre la

prima pietra. Poiché i bambini si riversavano a frotte sul luogo dove era già stata scavata una enorme buca per le

fondamenta, chiusa da mucchi di rozzi pietroni, molti signori si prestarono a sollevare i bambini affinché potessero

seguire la cerimonia da posizioni più sicure e più comode. Lo stesso Lafayette che anche aiutava i bambini, sollevò tra

gli altri il piccolo Walt Whitman, che aveva allora cinque anni e, strettolo per un attimo al petto e baciatolo, lo posò

nuovamente a terra, in un angolo sicuro dello sterro».

(John Burroughs)

IN TIPOGRAFIA. VECCHIA BROOKLYN

Circa due anni dopo mi impiegai come apprendista nella tipografia di un giornale settimanale. Il giornale era il

Long Island Patriot di S. E. Clements, che era anche direttore dell'ufficio postale. Nell'ufficio c'era un vecchio tipografo,

William Hartsborne, un tipo di rivoluzionario che aveva conosciuto Washington e che divenne mio grande amico; con

lui si facevano lunghe chiacchierate sui bei tempi andati. Gli apprendisti, me incluso, stavano a pensione presso una sua

nipote. Ogni tanto facevo una passeggiata a cavallo con il capufficio, il quale era per la verità assai gentile con noi; alla

domenica ci portava tutti con sé a una gran chiesa di pietra, vecchia e in rovina, alquanto simile a una fortezza, in

Joralemon Str., vicino a dov'è ora il municipio di Brooklyn (a quel tempo c'erano, tutt'intorno, campi aperti e strade di

campagna). * Lavorai in seguito per il Long Island Star, il giornale di Alden Spooner. Per tutti questi anni mio padre

continuò con alterna fortuna il suo lavoro di falegname e costruttore. La nostra era una famiglia che cresceva-otto figli,

di cui mio fratello Jesse era il più anziano e io il secondo, seguiti dalle mie care sorelle Mary, Hannah e Lonisa, e poi

dai miei fratelli Andrew, George, Thomas Jefferson, fino al più piccolo, Edward, nato nel 1835 e sempre tormentato nel

fisico, non diversamente da me negli ultimi anni..7

* Della Brooklyn di quel tempo (1830-40) non rimane quasi nulla, eccetto il tracciato delle vecchie strade. La

popolazione oscillava tra le dieci e le dodicimila anime. Fulton Str. era fiancheggiata per un buon miglio da magnifici

olmi. Il luogo nel complesso aveva caratteristiche affatto rurali. Come esempio del divario di valori tra allora e adesso si

potrebbe ricordare che venticinque acri di quella che è ora la parte più costosa della città, tra Flatbush e Fulton Avenue,

vennero acquistati da certo signor Parmentier, emigrato francese, per 4.000 dollari. Chi ricorda più com'erano i vecchi

luoghi? Chi i vecchi cittadini di quei tempi? Tra i primi, il caffè di Smith & Wood, quello di Coe Downing e gli altri nei

pressi del ferry, il vecchio ferry stesso, e Love Lane, le Heights com'erano allora, il Vallabout col suo ponte di legno, e

il tratto di strada che da Fulton Str. conduce fino al vecchio ponte a pedaggio. Tra i secondi, il geniale e maestoso

generale Jeremiah Johnson, e gli altri, Gabriel Furman, il rev. E. M. Johnson, Alden Spooner, il signor Pierrepont, il

signor Joralemon, Samuel Willoughby, Jonathan Trotter, George Hall, Cyrus P. Smith, N. B. Morse, John Dikeman,

Adrian Hegeman e William Udall, oltre al vecchio signor Duflon, col suo ritrovo per militari (N.d.A.).

ADOLESCENZA, SALUTE, LAVORO

Tra il '33 e il '35 mi trasformai in un ragazzone sano e robusto (crebbi tuttavia troppo in fretta, a 15-16 anni

avevo già quasi le proporzioni di un uomo). In questo periodo la mia famiglia tornò a vivere in campagna, la mia cara

madre fu malata gravemente, e a lungo, ma si riprese. Più o meno ogni estate per tutti questi anni io ritornai a Long

Island, restandovi a volte per mesi, ora nella parte orientale ora in quella occidentale. A 16-17 anni e per qualche tempo

dopo, ebbi la passione dei circoli di dibattito, cui partecipavo attivamente, pur senza molta continuità, a Brooklyn e in

una o due cittadine dell'isola. Lettore direi onnivoro di romanzi, divorai in questi anni e in quelli che seguirono qualsiasi

cosa mi capitasse sotto mano. Amante del teatro, inoltre, a New York, mi ci recavo ogni volta che potevo, assistendo

talora a ottime rappresentazioni.

1836-37, lavoro come compositore in varie tipografie di New York City. Poi, appena passati i diciotto anni, e

per qualche tempo in seguito, andai a insegnare nelle scuole di campagna delle contee di Queens e Suffolk, andando a

pensione ora da questa ora da quella famiglia (considero quest'ultima tra le migliori esperienze della mia vita, e tra le

più profonde lezioni sulla natura umana nascosta dietro le quinte e tra le masse). Nel 1839-40 fondai e pubblicai un

settimanale nella mia cittadina natale, Huntington. Ritornato a New York City e a Brooklyn, continuai il mio lavoro di

tipografo e scrittore, prosa per lo più, ma con qualche sporadico assalto alla poesia»

LA MIA PASSIONE PER I FERRY

Stabilitomi dunque a Brooklin e a New York City, la mia vita in quel periodo e ancor più negli anni che

seguirono, cominciò curiosamente a identificarsi con il ferry di Fulton, che già allora si avviava a divenire il più grande

del mondo nel suo genere, per importanza, volume, rapidità, e per il suo aspetto pittoresco. Più tardi (specialmente tra il

'50 e il '60) presi l'abitudine di compiere quasi ogni giorno la mia traversata in battello, il più delle volte su nella cabina

del pilota, da dove potevo spaziare con lo sguardo e assorbire le scene, gli sfondi, i paesaggi. Che correnti oceaniche,

che maree sotto di me-e quei grandi flussi e riflussi di umanità, in un perenne turbinio di movimenti. Per la verità ho

sempre avuto una passione per i ferry: a me essi offrono poesie vive, impareggiabili, fluide, in inesausta corrente. Il

Dume e lo scenario della baia tutt'intorno all'isola di New York in qualsiasi momento di una bella giornata-le maree

tumultuose, spumeggianti-il mutevole panorama di battelli a vapore di ogni grandezza, sovente al largo una lunga Ela di

grossi bastimenti diretti a porti lontani-miriadi di golette dalle bianche vele, corvette e palischermi, i fantastici yacht-i

massicci battelli che spuntavano maestosi verso le cinque di pomeriggio dopo aver doppiato la Batteria, puntando a est-la

vista che s'apriva al largo in direzione di Staten Island o lungo lo Stretto o dall'altra parte risalendo lo Hudson-quale

ristoro spirituale non mi han dato codeste esperienze e visioni in quegli anni lontani, e quante volte dopo d'allora. E

come ricordo bene tutti i miei vecchi amici piloti - i Balsir, Johnny Cole, Ira Smith, William White, e il mio giovane

compagno del ferry, Tom Gere.

SCENE DI BROADWAY

Oltre al ferry di Fulton ho conosciuto e frequentato per anni, più o meno saltuariamente, Broadway, la celebre

strada dove si affolla tutta la mista umanità newyorkese e tanta gente famosa. Fu qui che vidi in quegli anni Andrew

Jackson, Webster, Clay, Seward, Martin Van Buren, Walker il Filibustiere, Kossuth, Fitz-Greene Halleck, Bryant, il

principe di Galles, Charles Dickens, i primi ambasciatori giapponesi e tante altre celebrità del tempo. Sempre qualcosa

di nuovo e stimolante: ma più d'ogni altra cosa per me l'incalzante, la sterminata ampiezza di quelle incessanti correnti

umane. Ricordo di aver visto James Fenimore Cooper in una aula di tribunale in Chambers Street, dietro il Municipio

(stava seguendo una causa, credo si trattasse di una querela per diffamazione da lui sporta contro qualcuno). Ricordo.8

anche di aver visto Edgar A. Poe e di aver avuto con lui una breve conversazione (dev'essere stato nel 1845 o 46) nel

suo ufficio al secondo piano di un caseggiato d'angolo (in Duane o Pearl Street). Egli era allora direttore e proprietario,

o comproprietario, del Broadway Journal. La visita fu occasionata da un mio scritto che egli aveva pubblicato. Poe fu

molto cordiale, di una cordialità sommessa, aveva un bell'aspetto, era vestito bene, ecc. Mi è rimasto un ricordo nitido e

piacevole della sua espressione e del suo parlare, sia nella forma che nella sostanza; molto gentile e umano, ma come

spento, un po' sfinito forse. Ed ecco un'altra delle mie reminiscenze. Qui nella parte ovest di New York, proprio sotto

Houston Street, vidi una volta (dev'essere stato circa il 1832, una giornata di gennaio luminosa e pungente) un uomo

vecchissimo, barbuto, dal gran corpo, ma curvo e debole, tutto ravvolto in ricche pellicce e con un gran berretto

d'ermellino in capo, assistito e fatto scendere quasi a braccia per l'alta scalinata frontale della sua casa (una dozzina di

amici e servitori facevano a gara nel sostenerlo e guidarlo amorevolmente), sollevato quindi e sistemato in una

splendida slitta, ravvolto in altre pellicce, pronto infine per la passeggiata. La slitta era trainata dalla più bella pariglia di

cavalli che io abbia mai visto (non dovete pensare che le bestie migliori vengan su oggigiorno; non si sono mai visti

cavalli come quelli che c'erano cinquant'anni fa a Long Island, o nel Sud, o a New York City; la gente a quel tempo

cercava in un puledro temperamento e brio, e non soltanto una andatura senza sorprese). Bene, io (allora un ragazzetto

di forse tredici o quattordici anni) mi fermai e rimasi a lungo a rimirare lo spettacolo di quel vecchio fasciato di pellicce,

circondato da amici e servitori, che tra mille cure veniva adagiato nella slitta. Ricordo i cavalli tutto fuoco che

mordevano il freno, il cocchiere con la frusta e il secondo cocchiere al suo fianco, per maggior prudenza. Il vecchio,

oggetto di tanta attenzione, mi sta ora quasi dinanzi agli occhi. Era John Jacob Astor.

Gli anni 1846-47 e quelli che seguono mi vedono ancora a New York, scrittore e tipografo, lavorare in buona

salute come sempre e passarmela nel complesso bene.

CORSE IN OMNIBUS E VETTURINI

V'è un aspetto di quei giorni che assolutamente non può andare taciuto-voglio dire gli omnibus di Broadway

coi loro vetturini. Ancor oggi quei veicoli (scrivo nel 1881) danno a Broadway buona parte del suo carattere - le linee

della Quinta, di Madison Avenue e della Ventitreesima sono tuttora in funzione. Ma i tempi d'oro dei tramvetti della

vecchia Broadway, così numerosi e caratteristici, sono ormai finiti; spariti i «Canarini», i «Pettirossi», i primi di

Broadway, quelli della Quarta Avenue, i Knickerbocker e una dozzina d'altri di venti o trent'anni fa. E gli uomini che in

particolar modo si identificavano con questi, dando ad essi vitalità e significato, i vetturini-meravigliosa razza di gente

strana e spontanea, dallo sguardo pronto (non solo Rabelals o Cervantes, ma anche Omero, o Shakspere se li sarebbero

divorati con gli occhi) - li ricordo tutti così bene, e devo proprio dedicar loro qualche parola. Quante ore, mattine e

pomeriggi - che notti esilaranti ho passato - a giugno o a luglio, quando l'aria è più fresca - a scarrozzare da un capo

all'altro di Broadway ascoltando qualcuna delle loro storie (e che storie erano, le più colorite del mondo, e con la

mimica più straordinaria) - o magari declamando brani tempestosi dal Giulio Cesare o dal Riccardo (uno poteva sgolarsi

a piacimento in mezzo a quel pesante, denso, ininterrotto ronzio di basso della strada). Davvero li conoscevo tutti i

vetturini a quel tempo, Jack di Broadway, il Sarto, Bill Lagna, George Bufere, Vecchio Elefante e suo fratello Giovane

Elefante (che venne più tardi), Tippy, Riso Soffiato, Frank il Grosso, Joe il Giallo, Pete Callahan, Patsy Dee, e dozzine

di altri, perché erano centinaia. Avevano qualità immense, animali per lo più- mangiare, bere, andare a donne-e, a modo

loro, un grande orgoglio personale - qualche sbucciafatiche. si incontrava ogni tanto, ma io in genere mi sarei fidato

della maggior parte di essi, per quella buona volontà e quel loro semplice senso dell'onore, in qualsiasi circostanza. Non

solo per cameratismo e talora per affetto -li trovavo anche splendidi oggetti di studio. (Immagino che a questo punto i

critici rideranno di cuore, ma l'influenza di quelle scarrozzate in omnibus per Broadway, i vetturini e le declamazioni e

le scappatelle, è senza dubbio entrata nella gestazione di Foglie d'erba).

ANCHE IL TEATRO E L'OPERA

Ma anche certi attori e cantanti ebbero la loro brava parte nella cosa. Durante tutti quegli anni frequentai più o

meno regolarmente il vecchio teatro Park, il Bowery, il Broadway e quello di Chatham Square, oltre all'Opera italiana

in Chambers Street, all'Astor o alla Batteria, gratis per molte stagioni, come corrispondente di giornali, pur essendo

ancora in tutto un ragazzo. Il vecchio Park - che nomi e che ricordi ritornano a quete parole! Placide, Clarke, la Vernon,

Fisher, Clara F., la Wood, la Seguin, Ellen Tree, Hackett, Kean il giovane, Macready, la Richardson, Rice - attori

tragici, comici, cantanti. Quanta recitazione perfetta! Henry Placide ne «La vecchia guardia di Napoleone», o in

«Nonno Whitehead» - e «Il marito provocato» di Cibber con Fanny Kemble nella parte di Lady Townley - Sheridan

Knowles nel sua lavoro «Virginius» - o l'inimitabile Power in «Nato per la fortuna». Questi, e molti altri, negli anni

della mia giovinezza e oltre. Fanny Kemble - nome che da solo evoca istantaneamente grandi scene drammatiche - le

più grandi forse. Ricordo perfettamente come rese il personaggio di Bianca in «Fazio» e quello di Marianna ne «La

moglie». Il teatro non aveva mai offerto nulla di più bello - così dicevano veterani d'ogni paese, e il mio cuore, la mia

mente di ragazzo approvavano con ogni minima cellula. La signora Kemble era una donna appena giunta a maturità,.9

forte, qualcosa di più che una mera bellezza; nata tra le luci della ribalta e venuta a offrire all'America, dopo tre anni di

tirocinio a Londra e in varie città inglesi, quella sua giovane maturità e quel suo roseo potere in tutto il loro meridiano o

piuttosto mattutino fulgore. È stata davvero una fortuna per me poterla vedere quasi ogni sera per tutto il periodo in cui

recitò al Park-senza dubbio in tutte le parti fondamentali del suo repertorio.

In quegli anni ascoltai, in buona edizione, tutte le opere italiane e le altre allora in voga, la «Sonnambula», «I

Puritani», «Der Freischutz», «Gli Ugonotti», «La figlia del reggimento», «Faust», «La stella del Nord», «Polluto», ecc.

Tra quelle che gustavo maggiormente erano l' «Ernani», il «Rigoletto» e «Il trovatore» di Verdi, insieme alla «Lucia»,

la «Lucrezia» e «La favorita» di Donizetti, il «Masaniello» di Auber o il «Guglielmo Tell» e «La gazza ladra» di

Rossini. Andai a sentire l'Alboni ogni volta che cantò a New York o nelle vicinanze - ed anche Grisi, il tenore Mario e il

barirono Badiali, il più bravo del mondo.

Questa passione musicale seguì da presso la mia passione per il teatro. Nella mia fanciullezza e giovinezza

avevo visto (sempre dopo una attenta lettura) tutti i drammi di Shakspere allora sulle scene, in interpretazioni

meravigliose. Ancor oggi non riesco a immaginare niente di meglio del vecchio Booth in «Riccardo Terzo» o «Lear» (

né so dire in quale dei due fosse più bravo) o nelle vesti di Jago (e in quelle del Pescara e di Sir Giles Overreach, per

allontanarci da Shakspere) - e ancora Tom Hamblin in «Macbeth», o il vecchio Clarke sia come spettro nell' «Amleto»

che come Prospero ne «La tempesta», con la Austin nella parte di Ariel e Peter Richings in quella di Calibano. Poi altri

drammi, sempre con buoni attori, Forrest ad esempio, nella parte di Metamora o Damone o Bruto - John R. Scott in

quella di Tom Cringle o Rolla - o Lady Gay Spanker della «Assicurazione Londinese» nella interpretazione di Charlotte

Cushman. Ricordo ancora le splendide stagioni della troupe musicale dell'Avana al Castle Garden (Batteria), qualche

anno più tardi, sotto la direzione di Maretzek - la bella orchestra, le fresche brezze marine, l'inimitabile virtuosismo

delle voci - Steffanone, Brosio, Truffi, Marini in «Marino Faliero», «Don Pasquale» o «La favorita». New York non ha

mai visto recitazione o canto migliore. Fu ancora qui che udii in seguito Jenny Lind. ( La Batteria - i ricordi ad essa

legati - quante e quali cose saprebbero raccontare quei vecchi alberi, quel lungomare, quei bastioni!).

ALTRI OTTO ANNI

Nel 1848 e 49 lavorai come direttore del Daily Eagle di Brooklyn. Nel '49 intrapresi un piacevole viaggio per

motivi di lavoro (mio fratello Jeff con me) attraverso gli Stati centrali e lungo i fiumi Ohio e Mississippi. Vissi per

qualche tempo a New Orleans dove lavorai alla redazione del giornale Daily Crescent. Dopo un poco ripresi la via del

ritorno verso il Nord, ma con calma lungo la linea del Mississippi e le regioni circostanti, quindi per la via dei grandi

laghi, il Michigan, lo Huron, l'Erie, fino alle cascate del Niagara e il confine meridionale del Canadà, per rientrare

Enalmente nello stato di New York, percorrendone la parte centrale e seguendo infine lo Hudson - un viaggio nel

complesso di forse ottomila miglia tra andata e ritorno.

'51-53: lavoro come costruttore edile a Brooklyn (nella prima parte di questo periodo stampo un giornale

quotidiano e settimanale, il Freeman). '55 perduto mio padre. Iniziato una volta per tutte a dare alle stampe Foglie

d'erba, presso la tipografia dei fratelli Rome, miei amici, a Brooklyn, dopo un gran lavoro sui manoscritti, un continuo

fare e disfare - (penai molto a espungere tutti i "tocchi poetici" d'uso, ma alla fine vi riuscii). Oggi (1856-57) sono nel

mio 37mo anno d'età.

FONTI DEL MIO CARATTERE. RISULTATI. 1860

A voler tirare le somme di quanto è stato qui detto sin dall'inizio (il non detto restando naturalmente la più gran

parte) tre ritengo siano state le fonti principali e le impronte formative del mio carattere, ormai consolidate in meglio o

in peggio, e del suo successivo sviluppo, letterario e non: una (e senza dubbio la migliore) è il ceppo materno, portato

qui dai lontani Paesi Bassi - la sotterranea tenacia e la solida struttura di base (ostinazione, testardaggine) derivate

dall'elemento inglese paterno, costituiscono la seconda - e la combinazione di scene d'infanzia, spiagge, cose variamente

assorbite a Long Island, mio luogo natale, con la vita brulicante di Brooklyn e New York, insieme, suppongo, alle mie

successive esperienze durante la guerra di secessione, la terza.

Nel 1862 infatti, colpito dalla notizia che mio fratello George, ufficiale del 51° volontari di New York, era

stato seriamente ferito (prima battaglia di Fredericksburg, 13 dic.), mi precipitai al fronte in Virginia. Ma devo

retrocedere un poco.

INIZIO DELLA GUERRA DI SECESSIONE

La notizia dell'attacco a Forte Sumter e alla bandiera del porto di Charleston, nella Carolina del Sud, giunse a

New York a tarda notte il 13 aprile 1861, e fu immediatamente diffusa dai giornali in edizione straordinaria. Quella sera.10

ero stato all'opera, nella Quattordicesima, e verso mezzanotte dopo lo spettacolo scendevo per Broadway diretto a

Brooklyn quando udii in distanza le grida degli strilloni, che in men che non si dica dilagarono per la strada urlando e

correndo da una parte all'altra anche più furiosamente del solito. Comprai un giornale e me ne andai di fronte al

Metropolitan Hotel (da Niblo) dall'altro lato della strada, e alla luce delle grandi lampade ancora tutte accese lessi le

notizie, evidentemente autentiche, in mezzo a un capannello di gente che si era radunata d'improvviso. Uno di noi lesse

il telegramma al alta voce per quelli che non avevano giornale, mentre tutti ascoltavano attentamente, in silenzio. Non

un commento si levò dalla piccola folla, che raggiungeva ora le trenta o quaranta persone, ma rimasero tutti in silenzio,

ricordo, per un minuto o due prima di disperdersi. Mi sembra di vederli ancora, sotto le lampade, a mezzanotte.

SOLLEVAZIONE NAZIONALE E VOLONTARIATO

Ho già detto in qualche parte che le tre Presidenze precedenti al 1861 mostrarono come la debolezza e la

perversità dei governanti siano possibili qui in America, in regime repubblicano, né più né meno che in Europa in

regime dinastico. Ma che cosa dire di quella immediata e splendida reazione allo schiavismo secessionista, il nemico

incarnato, nello stesso istante in cui esso esibì senza possibilità di errore il suo vero volto? Il vulcanico sollevarsi della

nazione dopo la sparatoria sulla bandiera di Charleston confermò qualcosa che sino ad allora era rimasto in grave

dubbio, e in un attimo sostanzialmente decise la questione della secessione. Esso rimarrà a mio avviso il più grande e

incoraggiante spettacolo che mai epoca antica o moderna abbia offerto al progresso politico e alla democrazia. E non

tanto per ciò che affiorò alla superficie, benché importante, ma per ciò che rivelò negli strati profondi, la cui importanza

è eterna. Giù negli abissi dell'umanità del Nuovo Mondo si era formato e consolidato un nucleo primigenio di volontà di

Unione nazionale, risoluto e di gran maggioranza, che rifiutava alterazioni e discussioni, pronto ad ogni emergenza e

capace di scoppiare in qualsiasi momento, spazzar via gli ostacoli di superficie e dilagare come un terremoto. Questa è

indubbiamente la più bella lezione del secolo, o dell'America, ed è stato un enorme privilegio parteciparvi. (Due grandi

spettacoli, due prove immortali di democrazia senza paragone nella storia del passato, sono stati offerti dalla guerra di

secessione - uno all'inizio e l'altro alla fine. Da una parte la sollevazione armata, generale e volontaria, dall'altra il

pacifico e armonioso scioglimento degli eserciti nell'estate del 1865).

SENTIMENTI DI DISPREZZO

Anche dopo il bombardamento di Forte Sumter, tuttavia, nessuno al Nord tranne pochi si rese conto della

gravità della rivolta e della capacità e decisione degli Stati schiavisti di opporre una resistenza militare forte e continua

all'autorità nazionale. I nove decimi della popolazione degli Stati abolizionisti guardarono alla ribellione iniziata nella

Carolina del Sud con un sentimento per metà di disprezzo e per metà di incredula rabbia. Non si riusciva a credere che

si sarebbero aggiunte anche la Virginia, la Carolina del Nord e la Georgia. Un alto e prudente funzionario governativo

predisse che tutto sarebbe sbollito «in sessanta giorni», e la gente in generale prestò fede alla predizione. Ricordo di

averne parlato sul ferry di Fulton con il sindaco di Brooklyn il quale sperava solo «che quegli sputafuoco del Sud

commettessero qualche smaccato atto di resistenza, al che sarebbero stati schiacciati subito e in modo così definitivo

che di secessione non si sarebbe sentito parlare mai più - ma (aveva paura) quelli di fatto non avrebbero mai avuto il

fegato di far nulla». Ricordo anche che gli uomini di un paio di compagnie del 13° Brooklyn radunati all'armeria della

città per partire come «soldati di trenta giorni», Si erano tutti muniti di pezzi di corda vistosamente legati alle canne dei

moschetti, con cui ognuno si sarebbe portato a casa, cappio al collo, un prigioniero del temerario Sud, il giorno non

lontano del trionfale ritorno!

BATTAGLIA DI BULL RUN, LUGLIO 1861

Tutta questa corrente di sentimenti doveva essere arrestata e quindi capovolta da un colpo terribile - la prima

battaglia di Bull Run - da quel che ci risulta oggi senza dubbio uno degli scontri più strani che si ricordino. (Tutte le

battaglie, e i loro esiti, dipendono dal caso assai più di quanto generalmente non si creda; ma questa fu un caso dal

principio alla fine, un giuoco della sorte. Ambedue le parti ritennero fino all'ultimo minuto di aver vinto. Effettivamente

gli uni avevano le stesse buone probabilità degli altri di essere messi in fuga. Per una supposizione, o una serie di

supposizioni infondate, le forze nazionali all'ultimo istante furono colte dal panico e abbandonarono il campo). Le

truppe sconfitte cominciarono a riversarsi in Washington per il Ponte Lungo all'alba di lunedì 22 - un lungo giorno

piovigginoso. Il sabato e la domenica della battaglia (il 20 e il 21) il caldo era stato rovente, eccezionale - strati di

polvere, sudiciume e fumo aspirati col sudore nella pelle, poi altri strati, di nuovo riasciugati col sudore, assorbiti da

quelle anime eccitate - i loro abiti tutti impregnati della polvere calcinosa che riempiva l'aria? sollevata ovunque dai

reggimenti, dalle salmerie, dall'artiglieria ecc. che sciamavano per le strade riarse e i campi calpestando ogni cosa- gli.11

uomini che adesso ritirandosi si riversavano sul Ponte Lungo, con quella coltre di nerume, di sudore e di pioggia

addosso - una orribile marcia di venti miglia per rientrare a Washington frustrati, umiliati, in preda al panico. Dove sono

le vanterie, le orgogliose bravate con cui siete partiti? Dove le vostre bandiere, le fanfare, le corde per tirarvi dietro i

prigionieri? Ebbene, non c'è una fanfara che suoni - e non una bandiera che non penda vergognosa e floscia dall'asta.

Si leva il sole, ma non splende. Gli uomini cominciano ad apparire per le strade di Washington, sparsi

dapprima e alquanto vergognosi, poi sempre più fitti - li si vede in Pennsylvania Avenue, sui gradini e agli usci dei

seminterrati. Arrivano in masse disordinate, alcuni in squadre, drappelli distaccati, compagnie.

Di tanto in tanto un raro reggimento in perfetto ordine, con i suoi ufficiali (ecco dei vuoti, i morti, i veri

valorosi) che marciano in silenzio, i volti abbassati, severi, lì lì per crollare dalla stanchezza, tutti neri e sporchi, eppure

ogni uomo col suo moschetto, e il passo spedito; ma queste sono eccezioni. In Pennsylvania Avenue nella

Quattordicesima ecc., marciapiedi affollati, stinati di cittadini, negri, impiegati, gente qualunque, curiosi; donne alle

finestre, e un succedersi di espressioni strane sui volti mentre quegli sciami di reduci incrostati di sporco (ma non

finiranno mai?) continuano a passare; e tuttavia non una parola, non un commento; (metà degli spettatori sono

secessionisti del tipo più velenoso - non dicono nulla. ma il demonio sogghigna nei loro volti). Alla fine della mattinata

Washington brulica tutta di questi soldati sconfitti - esseri strani a vedersi, occhi e visi alterati, tutti fradici (il piovischio

continua insistente per tutto il giorno) e stanchi da far paura, affamati, inselvatichiti, i piedi piagati. Persone di buon

cuore (ma nemmeno troppe! arrangiano in fretta qualcosa da metter sotto i denti. Mettono sul fuoco marmitte da bucato

per la minestra e il caffè. Sistemano tavoli sui marciapiedi - si compra pane a vagoni, si tagliano velocemente le

pagnotte in grossi tocchi. Ecco due anziane signore, belle, le prime della città per cultura e grazia; stanno in piedi dietro

un tavolo improvvisato con rozze assi, colmo di bevande e di roba da mangiare, e distribuiscono il cibo, e provvedono a

che ogni mezz'ora, per tutto il giorno, la scorta sia rimpinguata con provviste fatte venire da casa: e lì rimangono, sotto

la pioggia, attive e silenziose, coi loro capelli bianchi, a distribuir cibo, con le lacrime che per tutto il tempo, quasi

ininterrottamente, rigano loro le guance. Tra la profonda eccitazione, la folla e il movimento, l'ansia disperata, sembra

strano vedere molti, moltissimi soldati addormentati - dormono profondamente, in mezzo alla gran confusione. Crollano

dove capita, sogli scalini delle case, ai piedi di un caseggiato o di una staccionata, sui marciapiedi o in qualche spiazzo

da costruzione, e dormono di sasso. Sulla scalinata di una casa signorile sta disteso un povero ragazzo di forse

diciassette o diciotto anni; dorme così quieto, così profondo. Alcuni stringono ancora forte il fucile nel sonno. Altri

dormono a gruppi - amici, fratelli stretti insieme - e su di loro così stesi goccia tetra la pioggia.

Come passa il pomeriggio e si fa sera, ovunque nelle strade, nei caffè, assembramenti di gente, chi ascolta, chi

fa domande, storie terribili, stregonerie, batterie mascherate, il nostro reggimento tutto a pezzi ecc.- storie e narratori di

storie, ventosi, spacconi, vacui centri d'attenzione di folle che si raccolgono per le strade. Decisione e fermezza

sembrano aver disertato Washington. L'albergo principale, il Willard, è pieno di spalline - zeppo, stipato, formicolante

di spalline. (Li vedo, e devo proprio dir loro due parole. Eccovi qui, signori decorati! - ma dove sono le vostre

compagnie? Dove sono i vostri uomini? Incompetenti! Non venite a parlarmi dei casi imponderabili di una battaglia, di

come ci si può smarrire e cose simili. Io penso che dopo tutto questa ritirata è opera vostra. Infilatevi di soppiatto nei

sontuosi salotti o nelle sale di ristoro del Willard o dovunque vi piaccia, gonfiatevi, mettete su arie - nessuna

spiegazione potrà salvarvi. Bull Run è opera vostra; se voi valeste solo la metà o un decimo di quel che valgono i vostri

uomini, questo non sarebbe mai accaduto).

Frattanto a Washington tra le personalità più in vista e il loro entourage, un misto di spaventosa costernazione,

incertezza, rabbia, vergogna, impotenza, e delusione pietrificante. Il peggio non solo è imminente, ma è già qui. Tra

poche ore - forse prima del prossimo pasto - i generali secessionisti ci saranno addosso con le loro orde vittoriose. Il

sogno dell'umanità, quella vantata Unione che abbiamo creduto così forte, inespugnabile - guardatela ora, sembra già in

frantumi, come un piatto di porcellana. Un'ora amara, amara - forse l'orgogliosa America non ne conoscerà più una

simile. Deve far bagagli e fuggire, non c'è un attimo da perdere. Quei candidi edifici - il Campidoglio che si alza

maestoso con la sua cupola sopra gli alberi là sulla collina - dovremo abbandonarli - o distruggerli prima? Poiché è

certo che nelle conversazioni svoltesi per ventiquattro ore dopo Bull Run a Washington e dintorni tra certi magnati

ufficiali, impiegati e funzionari, si finì per ammettere ad alta voce e senza mezzi termini l'opportunità di cedere

incondizionatamente, di installare il regime sudista, far abdicare Lincoln e allontanarlo al più presto. Se gli ufficiali e le

forze secessioniste avessero seguito da presso la ritirata, e con un'audace mosso alla Napoleone fossero entrati in

Washington il primo giorno (o anche il secondo), avrebbero avuto la situazione in mano e per di più una poderosa

fazione del Nord a sostenerli. Uno dei nostri colonnelli reduci da Bull Run espresse quella sera in pubblico, in una sala

affollata da gruppi di ufficiali e borghesi, l'opinione che era inutile combattere, che i sudisti avevano ormai reso

incontestabili le loro pretese, e che la miglior via da seguire per il governo nazionale era desistere da ogni ulteriore

tentativo di arrestarli, e riconoscere la loro supremazia alle condizioni migliori che essi volessero concedere. Non una

voce si levò in quella larga folla di ufficiali e cittadini, contro codesta opinione. (Il fatto è che questo era uno dei tre o

quattro momenti di crisi che attraversammo, allora come in seguito, durante il dubbioso corso di quei quattro anni,

quando parve che ad occhi umani fosse dato di vedere con le stesse probabilità l'Unione esalare l'ultimo respiro o

continuare a vivere).

LO STUPORE PASSA, COMINCIA QUALCOS'ALTRO.12

Ma l'ora, il giorno, la notte passarono, e qualsiasi cosa ritorni, un'ora, un giorno e una notte come quelle non

torneranno mai più. Il Presidente si riprende, si mette all'opera quella stessa notte - con rapidità e decisione si accinge al

compito di riorganizzare le sue forze e approntarsi una posizione più sicura per il lavoro a venire. Quand'anche non vi

fosse null'altro per consegnare Abramo Lincoln alla storia, sarebbe sufficiente, per tramandarlo ai tempi futuri con una

corona di gloria, il solo fatto che egli superò quell'ora e quel giorno più amari del fiele - invero un giorno di

crocifissione - che non se ne lasciò sopraffare - e con estrema fermezza seppe anzi arginarlo, risolvendo di trarne fuori

se stesso e l'Unione.

Allora sui grandi giornali di New York subito apparvero (cominciando da quella sera stessa, e poi il mattino

seguente e così per molti giorni senza interruzione) editoriali che fecero risuonare per tutto il paese il più sonoro, il più

alto squillo di limpida tromba, pregno di ancoraggiamento, speranza, ispirazione, orgogliosa sfida. Quei magnifici

articoli! non persero mai vigore per una buona quindicina di giorni. Cominciò lo Herald - ricordo bene i suoi editoriali.

Il Tribune fu egualmente persuasivo e incoraggiante - e il Times, lo Evening Post e gli altri giornali più importanti non

rimasero indietro di un millimetro. Vennero al momento opportuno, poiché ce n'era bisogno. Ché nell'umiliazione di

Bull Run il sentimento popolare del Nord dai suoi estremi di spavalderia era precipitato in abissi di depressione e di

ansia.

(Di tutti i giorni di guerra ve ne sono in particolare due che non potrò mai dimenticare. Furono il giorno che

seguì la notizia di quella prima disfatta di Bull Run a New York e a Brooklyn, e il giorno della morte di Abramo

Lincoln. In ambedue le occasioni io mi trovavo a casa, a Brooklyn. Il giorno dell'assassinio la notizia giunse di primo

mattino. La mamma preparò la colazione - e poi tutti gli altri pasti - come al solito; ma né lei né io in tutta la giornata

riuscimmo a ingoiare un boccone. Bevemmo una mezza tazza di caffè e fu tutto. Si parlò ben poco. Prendemmo tutti i

giornali del mattino e della sera, e le edizioni straordinarie così frequenti in quel momento, e ce li passavamo in

silenzio).

AL FRONTE

FALMOUTH, Virginia, di fronte a Fredericksburg, 21 dic. 1862.- cominciavano le mie visite agli ospedali da

campo dell'armata del Potomac. Passo buona parte della giornata in una grande casa di mattoni sulle rive del

Rappahannock, adibita a ospedale dopo la battaglia - sembra che vi siano stati accolti solo i casi peggiori. Di fronte alla

casa, ai piedi di un albero a un dieci iarde di distanza, noto un mucchio di piedi, gambe, braccia, mani amputate, tante

da riempire un carro a un cavallo. Diversi cadaveri giacciono lì accanto, ognuno ricoperto dal suo telo di lana marrone.

Nel cortile dalla parte del fiume, si vedono tombe fresche, per lo più di ufficiali, con i nomi incisi su doghe di botte o

assi spezzate conficcate nel terreno. (Gran parte di questi corpi vennero in seguito riesumati e trasportati a Nord per

essere restituiti agli amici). L'edificio, pur così grande, è stipato sopra e sotto, tutto vi è improvvisato, senza sistema e

piuttosto male, ma non ho dubbi che è il meglio che possa farsi; le ferite tutte piuttosto gravi, alcune spaventevoli, gli

uomini nei loro vecchi abiti, sporchi e insanguinati. Con uno di questi ho parlato un poco, un capitano del Mississippi,

ferito in malo modo a una gamba; mi ha chiesto dei giornali, che gli ho dato (lo rividi tre mesi dopo a Washington, gli

avevano amputato la gamba, se la portava bene). Ho girato per le stanze, al piano terra e di sopra. C'era chi moriva. Non

avevo da dar niente questa volta, ma ho scritto un po' di lettere alle famiglie, alle madri ecc. Anche mi son fermato a

parlare con tre o quattro che apparivano i più bisognosi di questo tipo di attenzione, e i più sensibili ad essa.

DOPO LA PRIMA FREDERICKSBURG

23-31 dicembre. - I risultati dell'ultima battaglia sono visibili ovunque qui intorno, in migliaia di casi (ne

muoiono a centinaia ogni giorno), negli ospedali da campo, di brigata e di divisione. Questi non sono altro che tende,

talora assai mal ridotte, coi feriti in terra, fortunati quando le loro coperte posano su strati di frasche d'abete di pino, o di

foglie. Mente lettini, e rarissimi i materassi. Fa alquanto freddo. Il terreno è indurito dal gelo, ogni tanto nevica. Giro da

un ferito all'altro. Ho l'impressione di non star facendo molto per questa gente ferita o in punto di morte; ma non posso

lasciarli. Di tanto in tanto un ragazzo si aggrappa a me in modo convulso, io faccio quel che posso per lui, mi fermo in

ogni caso, e se lo desidera gli resto seduto accanto per ore.

Oltre agli ospedali faccio ogni tanto anche lunghi giri per gli accampamenti, parlando con gli uomini ecc. - a

volte di notte, tra i gruppi raccolti intorno ai fuochi nelle loro provvisorie baracche di cespugli. Sono scene curiose, con

tanti tipi e gruppi diversi. Ben presto mi conoscono tutti al campo, ufficiali e soldati, e tutti mi trattano bene. Talvolta

mi unisco ai reggimenti che conosco meglio, nel servizio di picchetto. Quanto alle razioni, pare che qui per ora l'esercito

sia discretamente fornito, i soldati hanno cibo bastante, quello che è, per lo più carne di porco salata e gallette. La

maggior parte dei reggimenti alloggia in piccole tende di scarsa consistenza. Alcuni si sono costruiti capanni di tronchi

e fango, con un focolare..13

RITORNO A WASHINGTON

Gennaio '63. Ho lasciato il campo di Falmouth qualche giorno fa con un gruppo di feriti, e sono venuto qui

prima con la ferrovia del torrente Aquia e quindi con uno dei vapori federali che risalgono il Potomac. C'erano con noi

molti feriti, nei vagoni come sul battello. I vagoni erano dei comuni pianali. Il tragitto per ferrovia, dieci o dodici

miglia, fu compiuto in massima parte prima dell'alba. I soldati di guardia sulla strada ferrata venivano fuori dalle tende

o dalle loro baracche di cespugli coi capelli arruffati e lo sguardo insonnolito. Quelli di sentinella facevano la ronda tra

una postazione e l'altra, alcuni sulle scarpate, al di sopra di noi, altri giù in basso, parecchio al di sotto del livello dei

binari. Piuttosto distanti dalla strada ferrata vidi anche molti e grandi accampamenti di cavalleria. Alla stazione di

sbarco del torrente Aquia c'erano masse di feriti diretti a nord. Trascorsi le tre ore circa d'attesa girando tra loro. Alcuni

volevano mandare due righe a casa ai genitori, i fratelli, la moglie ecc., cosa che io feci di buon grado (impostando le

lettere il giorno dopo da Washington). Sul battello me ne ritrovai le mani piene. Un poveretto morì durante il viaggio.

Mi trattengo ora a Washington e dintorni, visitando quotidianamente gli ospedali. Sto per lo più al Palazzo dei

Brevetti, nell'Ottava strada, in via H o in Piazza dell'Armeria o in altri ospedali. Adesso ho la possibilità di fare un po' di

bene, poiché dispongo di danaro (come elemosiniere per conto di altri, rimasti a casa) e, ormai, di una certa esperienza.

Oggi, domenica pomeriggio, sono stato in visita all'ospedale Campbell fino alle nove di sera, dedicandomi in modo

particolare a un caso della corsia 1, piuttosto grave, pleurite e febbre tifoidea, D. F. Russell, un giovane, figlio di

agricoltori, compagnia E, 60° New York, molto depresso e debole; ci volle molto per risvegliare in lui un qualche

interesse; scrissi infine una lettera a sua madre a Malone, contea di Franklin, New York, su sua richiesta; gli diedi della

frutta e qualche altro regaletto; misi la lettera in una busta, serissi l'indirizzo ecc. Mi recai poi nella corsia 6 che percorsi

tutta, osservando ogni singolo caso, senza credo tralasciarne uno; distribuii piccoli doni, arance, mele, gallette dolci,

fichi, ecc., a forse venti o trenta persone.

Giovedì 21 gennaio. Trascorsa la maggior parte della giornata all'ospedale di piazza dell'Armeria; visitate le

corsie F, G e H, pressoché da cima a fondo, una cinquantina di degenti ciascuna. A tutti i feriti della corsia F ho portato

l'occorrente per scrivere, carta, buste, francobolli; diviso in piccole porzioni tra i soggetti adatti un grosso vaso di ciliege

conservate, di prima qualità, dono di una signora che le aveva preparate con le sue mani Trovati anche diversi casi in

cui mi è sembrato opportuno far dono di piccole somme di denaro (i feriti arrivano spesso senza un centesimo, e poter

disporre anche della piccola somma che io do contribuisce a tenerli su di morale). Sparita dunque tutta la mia carta e le

mie buste, ma anche una buona riserva di materiale di amena lettura; oltre a tabacco, arance, mele ecc., come mi parve

giudizioso fare.

Casi interessanti nella corsia I: Charles Miller, letto 19, Compagnia D, 53mo Pennsylvania, solo sedici anni,

molto intelligente, un ragazzo coraggioso, gamba sinistra amputata sotto il ginocchio; vicino a lui un altro ragazzo

molto malato: a ciascuno ho dato appropriati regaletti. Nel letto dall'altra parte, ancora una amputazione della gamba

sinistra; dato qui un vasetto di marmellata di lamponi. Letto l, stessa corsia, dato una piccola somma; e anche a un

soldato con le grucce, seduto sul letto accanto a... Sono sempre più sorpreso dall'enorme numero di giovani dai quindici

ai ventun anni che trovo nell'esercito. (Ne trovai in seguito in proporzione anche maggiore tra i sudisti).

Sera dello stesso giorno, visita a D. F. R., cui ho già fatto cenno: stava decisamente meglio, alzato e vestito - un

vero trionfo; in seguito si rimise del tutto e tornò al suo reggimento. Distribuita nelle corsie una quantità di carta da

lettere, e quaranta o cinquanta buste con i francobolli-ne àvevo fatto una bella riserva, sapendo quanto gli uomini le

desiderassero.

CINQUANTA ORE FERITO SUL CAMPO

Ed ecco il caso di un soldato che ho incontrato in una delle affollate corsie del Palazzo dei Brevetti. Gli fa

piacere aver qualcuno con cui parlare, e noi lo ascoltiamo di buon grado. Venne ferito gravemente alla gamba e al

fianco a Fredericksburg, il 13 dicembre, quel sabato memorabile. Durante i due giorni e le due notti che seguirono,

rimase sul campo nel più totale abbandono, tra la città e i tetri scaglioni delle batterie: la sua compagnia e il suo

reggimento erano stati costretti a lasciarlo al suo destino. A peggiorar le cose accadde che egli si trovasse disteso con la

testa leggermente più in basso, senza potersi muovere. Fu raccolto e trasportato altrove dopo circa cinquanta ore

insieme ad altri feriti, protetti da una bandiera bianca. Gli chiedo come lo abbiano trattato i ribelli in quei due giorni e

quelle due notti in cui giacque non lontano da loro - se si avvicinò nessuno, se fu insultato. Risponde che vennero

parecchi, soldati e altri, a varie riprese. Due, che erano insieme, gli rivolsero parole rudi e sarcastiche, ma niente di più.

Ci fu tuttavia un uomo di mezza età, il quale pareva aggirarsi pel campo tra i morti e i feriti a scopo benefico, che ebbe a

comportarsi nei suoi riguardi in un modo che, dice, non potrà mai dimenticare: lo trattò con gentilezza, gli bendò le

ferite, cercò di fargli coraggio, gli diede un paio di biscotti e una sorsata di whisky allungato con acqua; gli chiese se se

la sentiva di mandar giù un po' di carne di manzo. Codesto secessionista di buon cuore, ad ogni modo, non mutò di

posizione il nostro soldato poiché così facendo avrebbe potuto causargli una emorragia, riaprendo le ferite ormai

coagulate e stagnate. Il nostro ragazzo è della Pennsylvania; l'ha passata piuttosto brutta; le ferite si son rivelate gravi;.14

eppure conserva il suo buon umore e adesso è in via di miglioramento (non è raro che i feriti rimangano in siffatto modo

sul campo per un giorno o due, talvolta anche quattro o cinque).

PERSONAGGI E SCENE DI OSPEDALE

Corrispondenza. Quando non è sconsigliabile, sono io stesso che incoraggio i soldati a scrivere e, se richiesto,

scrivo per loro ogni sorta di lettere (comprese quelle d'amore, tenerissime). Quasi contemporaneamente a queste mie

note discontinue, sto scrivendo adesso una lettera alla moglie di un nuovo paziente, M. de F. del 17° Connecticut,

compagnia H, appena arrivato (il 17 febbraio) da punta Windmill e sistemato nella corsia H dell'ospedale di Piazza

dell'Armeria. È un uomo dal viso intelligente, l'accento forestiero, occhi e capelli neri, tratti somatici da ebreo. Vuole

spedire un messaggio telegrafico a sua moglie a New Canaan, nel Connecticut. Approvo l'idea del messaggio - ma per

maggior sicurezza mi siedo e scrivo anche una lettera che consegno immediatamente all'ufficio postale (teme che la

moglie parta per venire a trovarlo e non vuole, poiché è sicuro di guarire presto).

Sabato 30 gennaio. Nel pomeriggio, visita all'ospedale Campbell. Scena della pulizia della corsia, la 6a, e della

consegna degli indumenti puliti - ovunque i pazienti che si vestono o vengono vestiti - i corpi nudi fino alla cintola - gli

scherzi e il buon umore - camicie, mutandoni, lenzuola ecc. e l'aria di preparativi per la domenica. Dati 50 centesimi a J.

L.

Mercoledì 4 febbraio. Visita all'ospedale di Piazza dell'Armeria, esaminate quasi per intero le corsie E e D. Ho

dato carta e buste a tutti quelli che lo desideravano - c'era come sempre un gran numero di soldati che ne avevano

bisogno. Scritto lettere. Chiacchierato con due o tre uomini del 14° Brooklyn. In corsia D un povero ragazzo con una

spaventosa ferita, in condizioni terribili - gli stavano estraendo delle schegge d'osso disseminate nella carne in

prossimità della ferita. L'operazione era lunga, e molto dolorosa - pure, non appena fu cominciata e sembrò mettersi

bene, il soldato la sopportò in silenzio. Stava seduto, puntellato dai cuscini - appariva emaciato - era rimasto a lungo,

quieto, sempre nella stessa posizione (e non per giorni, ma per settimane) - il viso esangue, la pelle come

incartapecorita, e gli occhi pieni di risoluzione - faceva parte di un reggimento di New York. C'era una insolita folla di

chirurghi, studenti di medicina, infermieri ecc. attorno al letto - pensai che la cosa veniva fatta con tenerezza, e fatta

bene. C'era, accanto a un altro lettino, una moglie che vegliava il marito (febbre tifoidea, piuttosto brutta); e, a un altro,

una madre - aveva sette figli, mi disse, e questo era il più giovane (una buona madre, premurosa, sana, gentile, di

aspetto gradevole, non molto anziana; portava un cappello ed era vestita come per casa - un tocco di grazia a tutta la

corsia). Mi piaceva l'infermiera della corsia E - notai come rimase seduta a lungo al capezzale di un poveretto che

proprio quella mattina, in aggiunta alle altre sue infermità, aveva sofferto una brutta emorragia - lo assisteva con

delicatezza, lo aiutava a liberarsi dal sangue che gli saliva in gola a ogni accesso di tosse, tenendogli un tampone alla

bocca - lui era così debole da poter appena muovere la testa sul cuscino.

C'era poi un giovane di New York, dal bel viso intelligente, aveva trascorso molti mesi a letto in seguito a una

spiacevole ferita ricevuta a Bull Run. Una pallottola lo aveva colpito alla vescica, penetrando nel basso ventre e

riuscendo da dietro. Aveva molto sofferto - l'acqua continuò a uscire dalla piaga per molte settimane, in piccole quantità

ma ininterrottamente, sicché si trovava quasi sempre immerso in una specie di pozza a parte altre spiacevoli circostanze.

Aveva comunque un temperamento allegro. Adesso stava relativamente bene, soffriva di mal di gola e accettò con gioia

un bastoncino di mentastro che gli diedi, insieme ad altre cosette.

L'OSPEDALE DEL PALAZZO DEI BREVETTI

23 febbraio. Non vorrei passar oltre senza un cenno al grande ospedale del Palazzo dei Brevetti. Qualche

settimana fa la spaziosa area del secondo piano di quello che è tra i più nobili edifici di Washington rigurgitava di

soldati malati, feriti gravi e moribondi, in lunghe file. Erano sistemati in tre appartamenti molto ampi. Mi ci sono recato

varie volte. Lo spettacolo era strano, solenne, e nonostante la sua fisionomia di sofferenza e di morte, direi affascinante.

Talvolta ci vado anche di sera, per recar conforto e sollievo a certi casi particolari. Due di codesti immensi appartamenti

sono occupati in gran parte da alte e pesanti teche di vetro, stipate di modelli in miniatura di ogni tipo di utensile,

macchina o invenzione che mente umana abbia avuto la fantasia di concepire, insieme a curiosità varie e a doni

provenienti dal]'estero. Tra una vetrina e l'altra si aprono lateralmente dei vani alquanto profondi, larghi forse otto piedi,

e qui erano collocati i feriti, senza contare la grande e lunga doppia-fila di lettini che correva da un capo all'altro della

sala, nel centro. Molti erano casi gravissimi, ferite e amputazioni. V'era poi una galleria che correva sopra la sala, e

c'erano letti anche qui. Era una scena davvero strana, specie a sera, con le luci accese. Le vetrine, le brande con quelle

forme distese, la galleria in alto e, sotto, il pavimento di marmo - la sofferenza, e il coraggio nel sopportarne la varia

intensità - a tratti un lamento che qualcuno non è riuscito a reprimere - o un povero ragazzo che muore, il viso emaciato,

gli occhi vitrei, l'infermiere al suo fianco, e anche il dottore, ma non un parente, un amico - ecco quanto si poteva.15

vedere, sino a poco tempo fa, al Palazzo dei Brevetti (poi i feriti sono stati trasportati altrove e l'edificio è nuovamente

vuoto).

LA CASA BIANCA AL LUME DI LUNA

24 febbraio. Un poco di tempo buono, aria tiepida. Faccio un gran passeggiare, talvolta di notte sotto la luna.

Stasera ho osservato a lungo la casa del Presidente. Il portico bianco - le colonne regali, alte, rotonde, immacolate come

neve - e così i muri - la tenera e morbida luce lunare che inonda il pallido marmo e crea strane ombrature, velate e

languide, non vere ombre - ovunque un delicato, sottile, azzurro merletto lunare di vaporosa trasparenza, sospeso

nell'aria - i brillanti e copiosissimi grappoli di lampade a gas, sulla facciata e in giro per le colonne, il portico ecc. - tutto

così bianco, così abbagliante nella sua purezza di marmo, eppur delicato - la Casa Bianca dei poemi, dei sogni e dei

drammi futuri, là nella morbida traboccante luna - la splendida fronte tra gli alberi, sotto la lucida onda lunare, piena di

realtà, piena di illusione - le forme degli alberi nude di foglie, silenziose, un tronco e un'angolare miriade di rami, sotto

le stelle e il cielo - la Casa Bianca della nostra terra, e della bellezza e della notte - sentinelle ai cancelli e lungo il

portico, su e giù silenziose nei loro pastrani azzurri (non ti fermano, ma ti seguono con occhi penetranti in qualsiasi

direzione ti muova).

LA CORSIA DI UN OSPEDALE MILITARE

Lasciate che vi descriva ora nei dettagli una visita da me compiuta a quell'assembramento di edifici a un piano,

simili a baraccamenti, che è l'ospedale Campbell, fuori città, in pianura, al termine di quella che allora era la linea degli

omnibus della Settima. Per ogni padiglione c'è un lungo edificio. Entriamo nel padiglione 6. Oggi contiene direi ottanta

o cento pazienti, metà malati e metà feriti. L'edificio non è che un insieme di assi ben imbiancate all'interno, con le

solite brandine di ferro strette e semplici. Se camminate per il corridoio di mezzo, ne avrete una fila per lato, coi piedi

verso di voi e la testa alla parete. Vi sono grandi stufe accese, e il bianco che domina le pareti è rallegrato da

decorazioni di sempreverde, stelle, cerchi, ecc. L'intero edificio con i suoi occupanti può essere abbracciato con uno

sguardo solo, poiché non esistono pareti divisorie. Da due o tre lettini udrete forse qualche lamento o altri suoni di una

sofferenza che non si riesce a controllare, ma nel complesso vi è calma - quasi un'assenza penosa di qualsiasi sfogo; e

tuttavia il pallore del viso, gli occhi inebetiti e l'umidore delle labbra sono segni bastanti. Di codesti malati o feriti i più

sono visibilmente ragazzi di campagna, figli di agricoltori e simili. Osservatene la bella taglia poderosa, l'espressione

aperta e pronta, e i molti altri segni ancora rimasti di una costituzione e di un fisico vigorosi. Osservate il

comportamento silenzioso e paziente dei feriti americani, mentre giacciono in sì mesto assembramento - rappresentanti

di tutto il New England, di New York e del New Jersey e della Pennsylvania - invero di tutti gli Stati e tutte le città - in

massima parte dell'Ovest. I più non hanno qui né un amico né una conoscenza - non un volto familiare, e a malapena

una parola di sensata simpatia o di incoraggiamento durante tutto il decorso della malattia, talora lungo e tedioso, o tra

gli spasmi di ferite che s'aggravano.

UN FERITO DEL CONNECTICUT

Questo giovane del letto 25 è H. D.B., del 27° Connecticut, compagnia B. La famiglia vive a Northford, presso

New Haven. Seppur abbia a un dipresso ventun anni, non più, ha girato parecchio il mondo, per terra e per mare, e ha

visto vari combattimenti sull'uno e sull'altra. Quando lo conobbi la prima volta, stava assai male, e soffriva di

inappetenza. Rifiutò qualsiasi offerta di denaro - disse che non aveva bisogno di nulla. Ma mostrandomi io ansioso di

far qualcosa per lui, mi confessò di desiderare follemente un buon budino di riso fatto in casa - pensava fosse l'unica

cosa che avrebbe potuto gustare davvero. A quel tempo il suo stomaco era molto indebolito (il dottore, che consultai,

disse che mangiare gli avrebbe fatto un gran bene; ma sembrava che il cibo d'ospedale, pur migliore del solito, lo

rivoltasse). Senza por tempo in mezzo, procurai a B. il suo budino di riso. Una signora di Washington, Mrs. O'C.,

venuta a conoscenza di questo desiderio, preparò con le proprie mani un budino, che gli portai l'indomani. In seguito mi

disse di esserne vissuto per tre o quattro giorni. Questo B. è un buon prototipo di giovane americano dell'Est - il tipico

Yankee. Io lo presi particolarmente a benvolere e gli regalai per ricordo una bella pipa. Qualche tempo dopo ricevette un

pacco di roba da casa, e volle a tutti i costi che dividessi la cena con lui, cosa che feci, e fu in verità una cena coi

fiocchi.

DUE RAGAZZI DI BROOKLYN.16

In questo medesimo padiglione si trovano due giovani di Brooklyn, del 51° New York. Li conoscevo già a

casa, quand'erano ragazzi, e per questo li sento vicini. Uno dei due, J. L., ha avuto un braccio amputato - il troncone si

sta ora rimarginando piuttosto rapidamente (lo avevo veduto disteso per terra a Fredericksburg, lo scorso dicembre,

tutto insanguinato, subito dopo la operazione. Sembrava prendesse la cosa con gran flemma - con la mano rimastagli

andava sgranocchiando una galletta - non faceva storie). Guarirà, e già immagina e descrive il momento in cui si

scontrerà di nuovo con i Johnny Rehs.

UN EROE SUDISTA

I grandi soldati non si trovano nelle file di un esercito più che in quelle dell'altro.

Ecco l'esempio di uno sconosciuto sudista, un ragazzo di diciassette anni. Al Ministero della Guerra, pochi

giorni fa, ho assistito alla cerimonia in cui un gruppo di bandiere catturate al nemico venivano consegnate al Ministro.

Tra gli altri un soldato a nome Gant, del 104° volontari Ohio, presentò uno stendardo sudista che, mi disse un ufficiale,

era stato portato fin sotto la bocca di uno dei nostri cannoni e piantato lì da un ragazzo di soli diciassette anni, il quale

realmente tentò di chiudere l'imboccatura del mortaio con dei piuoli di staccionata. Il ragazzo fu ucciso nel tentativo, e

l'asta dello stendardo spaccata in due da un colpo di fucile dei nostri.

I FERITI DI CHANCELLORSVILLE

Maggio '63. Mentre scrivo queste note, dal quartier generale di Hooker sono cominciati a arrivare i feriti della

sanguinosa Chancellorsville. Ero presente ai primi arrivi. Gli uomini incaricati di scortare i feriti mi dissero che i casi

peggiori dovevano ancora giungere. Se così è li compiango, poiché questi sono già abbastanza terribili. Dovreste vedere

la scena dei feriti che arrivano qui al molo in fondo alla Sesta Strada, di sera. Ieri ne sono arrivati due battelli carichi,

intorno alle sette e mezzo. Poco dopo le otto venne giù un lungo e violento acquazzone. I soldati, pallidi e sfiniti, erano

stati già sbarcati e giacevano sparsi sul molo e nei pressi, dove capitava. Probabilmente gradivano la pioggia: in ogni

caso vi erano esposti. Poche torce illuminavano lo spettacolo.

Tutt'intorno - sul pontile, per terra o poco discosti - uomini distesi su vecchie imbottite, coperte, ecc., con

stracci pieni di sangue legati intorno alla testa, le braccia, le gambe. Gli assistenti sono pochi, e poca anche la gente che

s'avventura fuori la sera - solo un numero esiguo di portantini e cocchieri duramente provati dal lavoro (i feriti

cominciano a diventare cosa di tutti i giorni, il cuore della gente s'incallisce). Gli uomini, quali che siano le loro

condizioni, restano là distesi aspettando pazientemente che venga il loro turno per esser portati via. Vicino, arrivano ora

in massa le ambulanze: una dopo l'altra le fanno indietreggiare per prender su il carico. I casi più gravi sono mandati via

in barella. I feriti in genere si sentono poco o nulla, nonostante le sofferenze. Qualche gemito che non si è potuto

trattenere, e a tratti un grido di dolore mentre li sollevano per caricarli sull'ambulanza. Oggi, mentre scrivo, se ne

attendono altre centinaia, e ancor più domani e posdomani, e così per giorni e giorni. Non di rado il ritmo degli arrivi è

di un migliaio al giorno.

UNA BATTAGLIA NOTTURNA, CIRCA UNA SETTIMANA FA

12 maggio. V'è una parte della recente battaglia di Chancellorsville (la seconda Fredericksburg) svoltasi poco

più di una settimana fa, tra sabato, sabato notte e domenica, agli ordini del Gen. Joe Hooker, di cui vorrei darvi non più

che un'idea (come la visione di un attimo durante una terribile tempesta di mare, di cui è sufficiente dar cenni e

impossibile una descrizione dettagliata. Il combattimento, che era stato assai violento durante il giorno, fu ripreso a sera

dopo un'interruzione nel tardo pomeriggio e si protrasse con furiosa energia fino alle tre del mattino. Quel pomeriggio

(cioè sabato) un subitaneo e gagliardo attacco sferrato da Stonewall Jackson aveva avvantaggiato di molto l'esercito

sudista e rotto le nostre linee, penetrando in esse come un cuneo e lasciandoci in quella situazione al sopravvenire del

buio. Ma alle 11 di sera Hooker con uno sforzo disperato ricacciò indietro le forze secessioniste, ripristinò le sue linee

nella posizione originaria e riprese i suoi piani. Questa mischia notturna fu molto emozionante e offrì un numero

infinito di scene strane e terribili. Il combattimento si era fatto generale tanto a Chancellorsville quanto a nordest, a

Fredericksburg (c'è chi parla di scarso rendimento, incidenti, casi di fuga da parte dei nostri. Io non vi bado. Penso al

fiero coraggio che costituì la norma generale). Un corpo, il 6°, quello di Sedgewick, combatte quattro furiose e cruente

battaglie nello spazio di trentasei ore, si ritira in situazione precaria, subisce gravi perdite ma si mantiene compatto e,

impegnandosi in ogni circostanza con la forza della disperazione, riesce a superare il Rappahannock, per il rotto della

cuffia magari, ma ci riesce. Ha perso molti, molti valorosi, ma ha anche tratto vendetta, ampia vendetta..17

Era tuttavia la mischia di sabato sera, durata poi tutta la notte e domenica mattina, che volevo ricordare in

special modo. Si svolse in gran parte tra i boschi, e con una partecipazione pressoché generale. La notte era assai dolce,

con una luna che si mostrava a tratti nitida e piena, e la Natura in sé così quieta, così folta la prima erba estiva e il

fogliame sugli alberi - eppure era lì che infuriava la battaglia, e molti bravi ragazzi giacevano a terra stroncati, e sempre

altri se ne aggiungevano, e ad ogni minuto tra il crepitio dei fucili e il rombo dei cannoni (ci fu anche uno scontro di

artiglieria) il rosso sangue di vita scolava via da teste, tronchi, membra su quell'erba verde fresca di rugiada. Tratti di

bosco prendono fuoco e molti feriti, incapaci di muoversi, sono arsi vivi - l'incendio divora vaste aree, brucia anche i

morti - alcuni soldati hanno capelli e barba abbruciacchiati, altri ustioni sul viso e sulle mani, altri ancora gli abiti

sforacchiati dal fuoco. Le fiammate dei cannoni, i saettanti globi di fuoco, il fumo e il rombo immenso - la sparatoria

ormai generale, mentre il giorno schiarendo rende quasi visibile l'una parte all'altra - lo scalpiccio degli uomini in corsa,

le grida - faccia a faccia ormai - sentiamo le urla dei sudisti - i nostri rispondono con altre grida d'incitamento, specie se

Hooker è nei pressi - scontri all'arma bianca, le due parti reggono magnificamente, coraggiosi, risoluti come demoni, ci

caricano a più riprese - migliaia di azioni degne di essere celebrate in più nuovi e più grandi poemi a venire - e sempre il

bosco che brucia - sempre molti non soltanto ustionati - tanti, troppi, incapaci di muoversi, periscono tra le fiamme.

Poi gli accampamenti dei feriti. O cielo, che scena è mai questa? È questa umanità - questo scempio da

macellai? Ve n'è diversi di codesti campi. Ecco, nel più grande, in una radura tra i boschi, da due a trecento poveri

ragazzi - i gemiti e gli urli - l'odore del sangue che si mescola al fresco profumo della notte, dell'erba e degli alberi -

questo carnaio! Oh, è bene che le madri, le sorelle non possano vederli - che non sappiano concepire e mai abbiano

concepito cose del genere. Uno è stato colpito da un bossolo al braccio e alla gamba - gli vengono amputate tutte e due -

ecco da un canto le membra tagliate. Alcuni hanno avuto le gambe letteralmente asportate - chi il petto trapassato dai

proiettili - altre orrende, indescrivibili ferite al viso o alla testa, tutti mutilati, rivoltanti, in pezzi, gli occhi fuori dalle

orbite - altri al ventre - certuni sono solo ragazzi - molti ribelli feriti in modo grave (aspettano regolarmente il loro turno

insieme agli altri, i chirurghi lì trattano allo stesso identico modo). Questo è il campo dei feriti - e non è che un

frammento, un pallido riflesso di quella scena cruenta - mentre su tutto silenziosa emerge a tratti la luna, grande,

limpida, con la sua placida luce. Tra i boschi quella scena di anime che si partono - tra gli scoppi il fracasso e le urla - il

profumo impalpabile dei boschi - e ancora il fumo acre, soffocante - il soffuso raggiar della luna che a tratti sogguarda,

così placida, dal cielo - il cielo stesso, paradisiaco - e i chiaroscuri lassù, quei fluttuanti oceani dell'etere - più in alto

poche grandi stelle tranquille, che appaiono silenziose e languide per poi scomparire - il melanconico drappeggio della

notte sopra e intorno a noi. E là sulle strade, nei campi e tra i boschi, quella lotta, nessuna mai più disperata in qualsiasi

epoca o paese - ambo le parti ora in completo spiegamento di forze - masse - non battaglia per gioco né pantomima,

bensì demoni selvaggi accaniti nel combattimento - coraggio e sprezzo della morte unica regola, eccezioni quasi

nessuna.

Quale storia mi chiedo potrà mai rendere - perché chi veramente può sapere - il pazzo e risoluto scontro delle

armate in tutti i loro contingenti piccoli e grandi - come qui - l'una e l'altra parte immerse da capo a piedi in propositi

disperati, mortali? Chi può sapere la mischia all'arma bianca - i molti duelli nel buio, quell'intrico d'ombre, i boschi

lampeggianti al lume di luna - i gruppi e le squadre che si contorcono - gli urli, lo strepito, il crepitio di fucili e pistole -

il cannone in distanza - gl'incoraggiamenti i richiami le minacce e la spaventosa musica delle bestemmie -

l'indescrivibile mischia - gli ordini, le parole di persuasione o d'incitamento degli ufficiali - i demoni del cuore umano

completamente scatenati - il grido poderoso Caricate, ragazzi, caricate! - il lampo della spada snudata, gli attorti nugoli

di fiamme e di fumo? E sempre ancora il lume di luna che con argentea delicatezza piove su ogni cosa le sue chiazze

raggianti. Chi saprà dipingere la scena, il panico subitaneo e parziale del pomeriggio, al crepuscolo ? Chi l'inarrestabile

avanzata della seconda divisione del terzo corpo, ordinata all'improvviso da Hooker e condotta da lui stesso - quello

sfilar veloce di fantasmi pei boschi? Chi svelerà che cosa si muove laggiù nell'ombra, fluido e fermo - per salvare il

nome dell'esercito (riuscendovi) e forse la nazione stessa? Poiché lì sono i veterani che tengono il campo (il valoroso

Berry non cade ancora - ma la morte lo ha già marcato - ecco che subito cade).

SENZA NOME IL SOLDATO PIU' VALOROSO

Di scene come queste, dico, chi scrive? chi mai potrà narrarne la storia? Di quelle centinaia, migliaia anzi di

ignoti eroi del Nord e del Sud, eroismi sconosciuti, disperazioni incredibili, fulminee e nobilissime - chi ci parlerà? Non

la storia - nessun poema canta e nessuna musica celebra quegli uomini, tra tutti i più valorosi, quelle imprese. Nessuno

dei rapporti ufficiali che i generali stendono, nessun libro di biblioteca o colonna di giornale provvede a imbalsamare i

più prodi, Nord o Sud, Est o Ovest. Senza nome e sconosciuti rimangono, sempre, i più valorosi. I nostri cari - i più forti

- i nostri coraggiosi ragazzi; non c'è quadro che li rappresenti. Ecco, probabilmente il tipico esempio di quelle centinaia,

certo anzi migliaia di soldati, ricevuto il colpo mortale si porta strisciando in disparte dietro un gruppo di arbusti o una

gobba di felci - vi si ripara per un poco inzuppando di rosso sangue le radici, l'erba e il terreno - la battaglia intanto

avanza, recede, sparisce dalla scena, lo sfiora veloce - e là, forse tra spasmi e sofferenze (eppur meno, molto meno che

non si creda) l'estremo letargo gli si avvolge intorno come un serpe - gli occhi nell'agonia si fanno vitrei - nessuno vi

bada - con ogni probabilità tra una settimana, durante la tregua, le squadre incaricate della sepoltura non perlustreranno

quell'angolo recondito - e là infine il Soldato più valoroso ritorna, sfatto, in seno a madre terra, insepolto e ignoto..18

ALCUNI CASI TIPICI

18 giugno. In uno degli ospedali trovo Thomas Haley, compagnia M, 4° cavalleria New York - tipico ragazzo

irlandese, un bell'esempio di vigore fisico giovanile - colpito ai polmoni - sta morendo, non c'è scampo - era venuto fin

qui dall'Irlanda per arruolarsi - non ha un amico, non una sola conoscenza - in questo momento dorme profondamente

(ma è il sonno della morte)- il proiettile gli ha forato il polmone da parte a parte. Vidi Tom per la prima volta quando lo

portarono qui tre giorni fa, e allora pensai che non potesse vivere nemmeno altre dodici ore (tuttavia presenta una cera

abbastanza buona, agli occhi di un osservatore casuale). Sta lì disteso con il corpo scoperto dalla cintola in su, nudo, per

via del caldo, ben proporzionato, l'abbronzatura non ancora sbiadita dalle guance e dal collo. È inutile parlargli: quella

triste ferita, gli stimolanti che gli somministrano, e la totale estraneità degli oggetti che lo circondano, volti, mobili ecc.,

han fatto del povero ragazzo, anche quando è sveglio, un timido animale atterrito. Per lo più dorme, o è assopito (varie

volte ho pensato che capisca più di quanto non dia a vedere). Vengo qui spesso e mi siedo accanto a lui in perfetto

silenzio; allora per dieci minuti forse il suo respiro sarà lieve e uniforme come quello di un bimbo addormentato.

Povero giovane, così bello, con quel corpo d'atleta, quella profusione di bei capelli lucenti. Una volta, mentre gli sedevo

accanto guardandolo dormire, d'un tratto, senza il minimo sussulto, si destò, aprì gli occhi e mi rivolse uno sguardo

lungo e fermo, volgendo lievemente il capo per vedere meglio - un solo lungo sguardo, limpido, silenzioso - appena un

sospiro - poi si rigirò e ricadde nel suo sopore. Conosceva ben poco, povero ragazzo segnato dalla morte, il cuore dello

straniero che vegliava lì accanto.

W. H. E. Co. F, 2° N. J. Malato di polmonite. Prima di essere trasportato qui è rimasto per sette o otto giorni

nell'infelice ospedale a sud del torrente Aquia. Distaccato dal suo reggimento per andarvi a prestare opera di infermiere,

era stato subito colpito egli stesso dalla malattia. È un uomo anziano, dal viso olivastro, piuttosto sparuto, capelli grigi;

è vedovo con figli. Mi disse di avere un gran desiderio di un buon tè verde, forte. Un'ottima signora, Mrs. W. di

Washington, gliene inviò subito un pacchetto insieme a una piccola somma di denaro. Il dottore disse di dargli tè a

piacere; glielo lasciavano sul tavolino accanto al letto, ed egli ne beveva tutti i giorni. Dormiva parecchio; non poteva

parlare un gran che, essendo divenuto sordo. Occupava il letto 15, padiglione 1, all'Armeria. (La stessa signora

menzionata sopra, Mrs. W., mandò ai feriti anche un grande pacco di tabacco).

J. G. occupa il letto 52, padiglione 1; è del 7° Pennsylvania, compagnia B. Gli ho dato una sommetta di denaro,

un po' di tabacco, delle buste. Anche ad un altro ferito, li accanto, ho dato 25 centesimi; è arrossito quando glieli ho

offerti - sulle prime rifiutava, ma io l'ho forzato a prenderli, poiché avevo scoperto che non possedeva davvero un

centesimo e gli piaceva molto avere dei quotidiani da leggere. Ne è stato evidentemente assai contento, ma ha detto

poco o nulla.

L. T D., della compagnia F del 9° New Hampshire, occupa il letto 37, padiglione 1. Gli piace molto il tabacco.

Gliene procuro un poco, cui aggiungo un po' di danaro. Ha la cancrena ai piedi; un caso piuttosto brutto; finirà

certamente per perdere tre dita. È un tipico esemplare di campagnolo del New England dei tempi andati, rozzo e di gran

cuore, e mi fa pensare a quella famosa gatta strinata che era assai migliore che non sembrasse a guardarla.

Letto 3, padiglione E, Armeria - ha una gran voglia di sottaceti, qualcosa di piccante. Dopo aver consultato il

dottore in proposito, gli ho portato un vasetto di rafano; anche delle mele; e un libro. Alcuni degli infermieri qui sono

ottimi. L'infermiera di questo padiglione 1 mi piace particolarmente (Mrs. Wright - un anno dopo dovevo rivederla

nell'ospedale di Mansion House, ad Alexandria - è un'infermiera perfetta).

In un altro letto c'è un giovane malato di dissenteria e febbre tifoidea - Marcus Small, compagnia K, 7° Maine -

un caso critico - parliamo sovente - dice che morirà - e infatti è probabile. Gli scrivo una lettera a casa, East Livermore,

Maine - lo lascio chiacchierare un poco, ma non troppo, gli consiglio di starsene il più tranquillo possibile - porto avanti

quasi tutta la conversazione da solo - mi trattengo piuttosto a lungo, dacché egli si aggrappa alla mia mano - gli parlo in

modo da tenerlo su, ma piano, misuratamente e a bassa voce - parlo della licenza e del ritorno a casa non appena sarà in

grado di viaggiare.

Thomas Lindly, 1° cavalleria Pennsylvania, una bruttissima ferita a un piede - povero ragazzo, soffre

orribilmente, devono continuamente drogarlo con la morfina - viso cinereo e lustro, giovani occhi vivaci - gli porto una

bella mela grande e gliela lascio lì in vista, dicendogli di farsela cuocere al forno per il mattino, quando solitamente

trova un po' di sollievo e può fare una piccola colazione. Gli scrivo due lettere.

Dalla parte opposta, una vecchia signora quacquera siede al capezzale di suo figlio, Amer Moore, 2° artiglieria

U.S.A. - ferito alla testa due settimane fa, molto debole nel complesso, ma ragiona - paralizzato dai fianchi in giù -

sicuramente morirà. Tutti i giorni, tutte le sere mi fermo a dirgli poche parole -risponde di buon grado - non desidera

nulla (subito appena arrivato mi parlò delle cose di casa sua, la madre era stata molto malata ed egli aveva paura di farle

conoscere il suo stato). Morì appena lei arrivò.

I MIEI PREPARATIVI PER LE VISITE.19

Durante le mie visite agli ospedali scoprii che il mio successo e l'aiuto che riuscivo a dare si spiegavano più

con il semplice fatto della presenza personale e del normale magnetismo e buonumore che ne emanavano che non con

l'assistenza medica che potevo prestare, le ghiottonerie, i doni in danaro o qualsiasi altra cosa. Durante la guerra ero in

possesso di una salute fisica perfetta. Era mia abitudine, circostanze permettendo, prepararmi a quei giri di due, quattro

e anche cinque ore sia di giorno che di notte, corroborandomi con un adeguato riposo, un bagno, abiti puliti, un buon

pasto e un aspetto il più sereno possibile.

PROCESSIONI DI AMBULANZE

25 giugno, tramonto. Mentre scrivo questo paragrafo, vedo un convoglio di circa trenta enormi carrozzoni a

quattro cavalli, adibiti ad ambulanza e rigurgitanti di feriti, sfilare per la Quattordicesima diretto con ogni probabilità

verso gli ospedali di Columbia, Carver e Mount Pleasant. E così che adesso arrivano i feriti, di rado in piccoli gruppi, e

quasi sempre in queste lunghe, tristi processioni. Per tutto lo scorso inverno, quando il nostro esercito si trovava di

fronte a Fredericksburg, simili cortei di ambulanze furono uno spettacolo frequente lungo la Settima: avanzavano

lentamente dal molo dei vaporetti, con il carico fatto al torrente Aquia.

BRUTTE FERITE - I GIOVANI

I soldati sono quasi tutti giovani, e il numero di americani tra loro è assai più alto che in genere non si creda, un

nove decimi di nativi, direi. Tra quelli arrivati da Chancellorsville ho trovato un'ampia percentuale di gente dell'Ohio,

dell'Indiana e dell'Illinois. Come sempre vi sono feriti di ogni sorta. Certuni ustionati in modo spaventoso

dall'esplosione di cassonetti d'artiglieria. In un padiglione, una lunga fila di ufficiali, alcuni con ferite molto brutte. Ieri è

stato forse peggio del solito. Continuano le amputazioni - gli assistenti medicano ferite. Quando passate di là dovete far

bene attenzione a dove posate gli occhi. In uno di questi padiglioni ho visto l'altro giorno un signore, venuto

presumibilmente per curiosità, fermarsi e volgersi un istante a guardare un'orribile ferita che stavano sondando con uno

specillo. Impallidì, e un minuto dopo era piombato a terra privo di sensi.

GLI SPETTACOLI PIU' ESALTANTI DI TUTTA LA GUERRA

29 giugno. Poco prima del tramonto stasera è sfilato un grosso contingente di cavalleria - qualcosa di bello a

vedersi. Erano evidentemente veterani. Prima veniva una fanfara a cavallo, con sedici trombe, tamburi e cembali, che

suonava focosi motivi marziali - mi fece balzare il cuore in petto. Seguivano i comandanti in capo, poi le varie

compagnie, ognuna col suo ufficiale in testa, che naturalmente costituivano ]a parte più cospicua della cavalcata; poi un

lungo corteo di soldati coi cavalli tenuti alla briglia e un gran numero di negri montati su bestie speciali - poi una ]unga

fila di carriaggi, ognuno trainato da quattro cavalli - e infine una eterogenea retroguardia. Era uno spettacolo alquanto

guerresco e gaio; le sciabole tintinnavano, gli uomini avevano un aspetto giovanile, sano e robusto; l'elettrico calpestio

di tanti cavalli sul fondo duro della strada, insieme al portamento baldanzoso, la bella positura, l'aria gioviale di quel

migliaio e più di bei ragazzi americani, erano cose che facevan bene a vedersi. Un'ora dopo passò un'altra truppa, più

piccola, forse trecento uomini. Anche questi sembravano reduci dal servizio, gente usa al campo e alla battaglia.

3 luglio. Anche questo pomeriggio, per più di un'ora, lunghe sfilate di cavalleria, vari reggimenti, uomini e

cavalli splendidi, quattro o cinque per fila. Li ho visti nella Quattordicesima, entravano in città dalla parte nord,

affiancati da diverse centinaia di cavalli di riserva, e molte cavalle coi loro puledri, che seguivano al trotto (sembra ci

fosse anche un certo numero di prigionieri). Come sono entusiasmanti, sempre, i reggimenti di cavalleria. I nostri

soldati montano in genere belle bestie, appaiono disinvolti, sono giovani, allegri in sella, la coperta arrotolata dietro, le

sciabole tintinnanti al fianco. Questo rumore e il movimento e lo scalpiccio di tanti zoccoli, hanno su di me un effetto

curioso. Le trombe suonano - adesso si sentono lontanissime, smorzate, miste ad altri rumori. Poi, erano appena passati

tutti, dalla parte opposta cominciò una sfilata di ambulanze che risalivano la Quattordicesima dirette a nord, lentamente,

una dopo l'altra, trasportando una gran quantità di feriti agli ospedali.

BATTAGLIA DI GETTYSBURG

4 luglio. Il tempo oggi nel complesso è assai bello, l'aria tiepida, ma sufficientemente fresca grazie a una bella

pioggia ier sera, e non c'è polvere, che è un gran sollievo per questa città. Verso mezzogiorno in Pennsylvania Avenue

ho visto la parata che dalla Quindicesima strada scendeva verso il Campidoglio. C'erano tre reggimenti di fanteria

(quelli che prestano servizio di guardia qui, credo), due o tre società di "Odd Fellows", una quantità di bambini in

calesse e una squadra di poliziotti (tutto ciò è solo un inutile gravame, imposto ai soldati - hanno già abbastanza lavoro

sulle spalle per accumularvi cose del genere). Mentre percorrevo il viale, sul quadro dei comunicati della redazione di.20

un giornale scorsi un vistoso manifesto che annunciava "Gloriosa vittoria per l'esercito dell'Unione!". Meade si era

scontrato con Lee a Gettysburg, Pennsylvania, il giorno innanzi e quello precedente, e lo aveva respinto in modo

clamoroso, fatto 3.000 prigionieri, ecc. (vidi in seguito il bollettino di Meade. molto modesto, e anche una specie di

ordine del giorno emesso dal Presidente in persona, d'ispirazione piuttosto religiosa, che rendeva grazie al Supremo e

invitava la popolazione a fare altrettanto). Proseguii per l'ospedale dell'Armeria - portai con me parecchie bottiglie di

sciroppo di more e di ciliegie, buono e forte ma innocuo. Passai per vari padiglioni annunciando ai soldati la notizia di

Meade, e a tutti offrii un buon bicchiere di sciroppo con acqua ghiacciata, che è alquanto rinfrescante - lo preparai con

le mie mani e andai in giro a servirlo. Frattanto le campane di Washington hanno intonato il loro concerto vespertino

per il 4 luglio, accompagnato dalla tradizionale salva di cannoni, mortaretti e pistole di ragazzi.

UN ACCAMPAMENTO DI CAVALLERIA

È quasi il tramonto; scrivo osservando una compagnia di cavalleria (del servizio segnalazioni), arrivata da poco

sotto un acquazzone, mentre si accampa per la notte in un ampio spiazzo deserto, una specie di collina proprio di fronte

alla mia finestra. Ecco gli uomini con le loro giacche a bande gialle. Sono smontati tutti; i cavalli, una volta liberi,

restano in piedi con la testa bassa e i fianchi tutti bagnati; tra poco saranno portati in gruppi a abbeverarsi. In breve ecco

spuntare le piccole tende a parete verticale e quelle da riparo. Vedo già il brillio dei fuochi, con su pentole e marmitte.

Alcuni soldati piantano in terra i picchetti delle tende, assestando con l'ascia colpi forti e scanditi. Scorgo grandi

assembramenti di cavalli, balle di fieno, gruppi di uomini (qualcuno con la sciabola ancora affibiata al fianco), qualche

ufficiale, cataste di legname, le fiamme dei bivacchi, selle, finimenti, ecc. Si alza il fumo, altri uomini arrivano e

smontano - chi pianta paletti e vi lega il cavallo, chi va per acqua con secchie; chi ancora taglia la legna, e così via.

6 luglio. - Pioggia insistente, scura e fitta e calda. È appena passato un convoglio di carri a sei muli che

trasportava pontoni, grandi chiatte quadrangolari e pesanti tavole con cui ricoprirle. Veniamo a sapere che poco più su il

Potomac è uscito dagli argini, e ci chiediamo se Lee sarà capace di riattraversarlo, o se Meade questa volta non lo farà

davvero a pezzi. L'accampamento di cavalleria sulla collina rimane per me un ininterrotto campo di osservazione. Nel

pomeriggio ecco lì i cavalli, legati insieme, fradici, fumanti, che biascicano fieno. Gli uomini emergono dalle tende,

anch'essi fradici. I fuochi sono semispenti.

10 luglio. - Sempre il campo di fronte - cinquanta, forse sessanta tende. Gli uomini ripuliscono le sciabole (fa

bello oggi), lucidano stivali, se ne stanno sdraiati a leggere o a scrivere - alcuni cucinano, altri dormono. Su una lunga

fila di trespoli improvvisati dietro le tende c'è l'equipaggiamento dei cavalleggeri - coperte e cappotti stesi a prender aria

- e i cavalli anche, legati a gruppi, che mangiando continuano a scalpicciare e a sferzare attorno la coda per tener

lontane le mosche. Resto a lungo alla mia finestra, al terzo piano, e osservo la scena - cento piccole attività - oggetti

particolari connessi con la vita del campo che non potrebbero essere descritti adeguatamente, uno per uno, senza

disegnarli e colorarli minutamente con le parole.

UN SOLDATO DI NEW YORK

Questo pomeriggio, 22 luglio, ho passato molto tempo con Oscar F. Wilber, compagnia G, 154a New York,

stremato da dissenteria cronica, oltre a una brutta ferita. Mi chiese di leggergli un capitolo del Nuovo Testamento.

Accondiscesi, e domandai che cosa dovessi leggere. Disse, "Scegliete voi". Aprii verso la fine di uno dei primi libri

degli evangelisti e lessi i capitoli che descrivevano le ultime ore di Cristo e le scene della crocefissione. Il povero

giovane divorato dal male mi chiese allora di leggere anche il capitolo seguente, come Cristo risorse da morte. Lessi,

molto lentamente, perché Oscar era assai debole. Gli fece molto piacere, ma aveva gli occhi pieni di lacrime. Mi

domandò se traessi beneficio dalla religione. Risposi, "Forse non nel modo che intendi tu, caro, eppure forse è la

medesima cosa". Egli disse, "È il mio primo sostegno". Parlò della morte, diceva di non temerla. Dissi, "Suvvia, Oscar,

non pensi di guarire?". E lui, "Potrebbe anche essere, ma non è molto probabile". Parlava con calma del suo stato. La

ferita era molto brutta, versava continuamente. Inoltre la diarrea aveva finito per prostrarlo, ed io sentivo che poteva

morire in quello stesso momento. Il suo contegno era virile e affettuoso. Mi restituì quattro volte il bacio che gli diedi al

momento di andarmene. Mi diede l'indirizzo di sua madre, Mrs. Sally D. Wilber, ufficio postale di Alleghany, contea di

Cattaraugus, N. Y. Ebbi molti di questi colloqui con lui. Morì pochi giorni dopo l'incontro ora descritto.

MUSICA FATTA IN CASA.21

8 agosto. Questa sera mentre sedevo al capezzale di un soldato ferito nell'ospedale dell'Armeria, tentando di

mostrarmi sereno, fui attratto da un gradevole canto in una delle corsie attigue. Il mio soldato dormiva; lo lasciai, entrai

nella corsia dov'era la musica, ne percorsi una metà e mi misi a sedere accanto al lettuccio di un mio giovane amico di

Brooklyn, S. R., il quale aveva ricevuto una brutta ferita alla mano, a Chancellorsville, e aveva sofferto molto, ma in

quel momento della sera appariva completamente sveglio e alquanto rinfrancato. Si era girato sul fianco sinistro per

veder meglio quelli che cantavano, ma le zanzariere dei lettini vicini gl'impedivano la vista. Io allora feci un giro e le

tirai tutte su, annodandole, sì che egli potesse godersi intera la scena; poi mi rimisi a sedere accanto a lui, osservando e

ascoltando. Il cantore principale era una giovane infermiera di una delle corsie: si accompagnava su un melodion,

seguita dal canto delle infermiere delle altre corsie. Erano sedute - un gruppo pieno di grazia, con quei bei visi

sprizzanti salute; alle loro spalle, un pochino discosti e in piedi, v'erano dieci o quindici soldati convalescenti, e poi

giovani, infermieri, ecc., coi libri in mano, e cantavano. Certo non una di quelle esecuzioni dell'Opera di New York cui

prendono parte grandi solisti; e tuttavia mi chiedo se il piacere che provai in questa circostanza, standomene là seduto,

non equivalesse a quello procuratomi dalle migliori opere italiane nell'interpretazione di cantanti di fama mondiale.

Gli uomini stesi nei loro lettucci in tutte le direzioni nell'ospedale (alcuni con gravi ferite, altri destinati a non

rialzarsi mai più), i letti coi loro drappeggi di bianche tende, e le ombre che si allungavano nella parte superiore e

inferiore della corsia; poi il silenzio degli uomini, le espressioni, le positure che prendevano - tutto ciò costituiva una

scena da ripercorrere più e più volte con lo sguardo. E qui dolcemente si levavano le voci fino all'alto soffitto di travi

imbiancate, che garbatamente le restituiva. Cantavano molto bene, per lo più curiose vecchie canzoni e inni

declamatori, su arie appropriate. Questo, per esempio:

Fuggono i giorni veloci per me pellegrino e straniero,

Eppur non vorrei trattenere quelle ore di stento e paura,

Siamo già sulla costa Giordana, e gli amici oh stan passando,

Tra poco anche noi scorgeremo la riva abbagliante.

Vedendo la patria lontana cingeremo le armi o fratelli,

L'assente Signore ha lasciato un messaggio, risplenda ogni luce,

Siamo già sulla Costa Giordana e gli amici oh stan passando,

E tra poco anche noi scorgeremo la riva abbagliante.

ABRAMO LINCOLN

12 agosto. Vedo il Presidente quasi ogni giorno: abito infatti nella via dov'egli passa recandosi alla sua

residenza fuori città, o tornandone. Non dorme mai alla Casa Bianca nella stagione calda, bensì in una salubre località a

circa tre miglia a nord di Washington, alla Casa del Soldato, una fondazione dell'esercito statunitense, dove dispone di

un appartamento. L'ho visto stamani recarsi al lavoro verso le otto e mezzo, passava a cavallo per Vermont Avenue

all'altezza di via L. Ha sempre una scorta di venticinque o trenta cavalleggeri, con le sciabole sguainate, appoggiate

verticalmente alla spalla. Dicono che egli personalmente non desiderasse questa guardia del corpo, ma che alla fine i

suoi consiglieri l'hanno spuntata. La comitiva non costituisce di per sé spettacolo, né per le uniformi né per i cavalli. Il

signor Lincoln compare generalmente in sella a un grosso cavallo grigio dall'andatura placida, indossa un vestito tutto

nero, un po' scolorito e impolverato, una tuba anch'essa nera, e nel complesso, abiti,... non si presenta in nulla diverso

dal più comune dei mortali. Alla sua sinistra cavalca un tenente con le spalline gialle; dietro, a due a due, seguono i

cavalleggeri con le loro giacche a bande gialle. Procedono generalmente al piccolo trotto, essendo questo il passo fissato

da quegli che essi scortano. Le sciabole e i finimenti tintinnano, ma il corteo, in sé così poco ornamentale, non desta al

suo passaggio sensazione alcuna, mentre si dirige al trotto verso piazza Lafayette; solo qualche forestiero si ferma a

guardare incuriosito. Scorgo chiaramente il volto bruno di Abramo Lincoln, i suoi solchi profondi, e gli occhi in cui

sempre mi par di scorgere una espressione di profonda' latente tristezza. Ormai arriviamo a scambiarci inchini, e anche

molto cordiali. Talvolta il Presidente va e torna in calesse scoperto. Lo squadrone dei cavalleggeri lo accompagna

sempre, con le spade sguainate. Spesso quando va via la sera - ma a volte anche la mattina, se torna di buon'ora - lo

vedo svoltare e fermarsi di fronte al]a grande e bella residenza del Ministro de]la Guerra, in via K, e trattenersi lì in

colloquio. Se è in calesse, non scende (lo vedo dalla mia finestra) ma rimane seduto in vettura, e il signor Stanton esce

di casa a conferire con lui; lo accompagna a volte uno dei suoi figli, un ragazzetto di dieci o dodici anni che cavalca alla

sua destra, su un pony. All'inizio dell'estate ho visto di tanto in tanto il Presidente e la moglie in carrozza, in giro di

piacere per la città, nel pomeriggio sul tardi. La signora Lincoln era vestita completamente di nero, con un lungo velo di

crespo. Il tiro è dei più semplici, due cavalli soltanto, e anche questi niente di straordinario. Mi passarono una volta

molto vicino, e poiché procedevano lentamente potei scorgere in tutta chiarezza il viso del Presidente. Accadde che il

suo sguardo, benché astratto, fosse fisso in direzione del mio; egli s'inchinò e sorrise, ma celata sotto il sorriso io ben

notai quella espressione cui ho già alluso. Nessun artista e nessun ritratto ha mai colto l'espressione profonda, ma sottile

e indiretta, del viso di quest'uomo. V'è in esso qualche altra cosa. Ci vorrebbe uno dei grandi ritrattisti di due o tre secoli

fa..22

CANICOLA

Ultimamente abbiamo sofferto molto il caldo, qui sono adesso undici giorni che ci grava addosso. Io vado in

giro con l'ombrello e il ventaglio. Ieri ho visto due casi di insolazione, uno in Pennsylvania Avenue, l'altro nella Settima

strada. La compagnia trasporti del Municipio perde ogni giorno qualche cavallo. Eppure questo agosto è il più vivace

che Washington abbia mai avuto, e l'estate che sta esibendo probabilmente la più energica e soddisfacente. C'è forse più

elettricità umana, più gente a crearla, più fervore d'affari, maggior spensieratezza. Gli eserciti che l'avevano circondata

subito dopo Fredericksburg, proseguirono la marcia, lottarono e combatterono fino al momento decisivo del possente

corpo a corpo di Gettysburg - poi, con una conversione, ritornarono alle loro linee, lambendoci ancora, ma senza

veramente toccarci, sia all'andata che al ritorno. E Washington sente ora che il peggio è passato; forse sente che da

questo momento è padrona della situazione. Così adesso se ne sta nel bel mezzo di colline pullulanti di cannoni, con la

consapevolezza di avere acquistato, nel breve spazio di cinque o sei settimane, un carattere ed una identità nuovi, e

anche considerevolmente più piacevoli e dignitosi.

STORIE DI SOLDATI

Soldati, soldati, soldati, ne incontrate ovunque per la città, spesso uomini magnifici, anche se invalidi dalle

uniformi consunte che s'aiutano con bastoni e grucce. Parlo spesso con loro, e a volte le conversazioni sono lunghe e

interessanti. Uno di questi, per esempio, deve aver percorso tutta la penisola agli ordini di McClellan - mi narra gli

scontri, le marce, le strane e improvvise conversioni di quella campagna ricca di eventi, lasciando intravedere cose di

cui non v'è cenno nei rapporti ufficiali, nei libri o nei giornali. E sono queste le cose più genuine, preziose. Quest'uomo

era là, è stato al fronte due anni' è passato attraverso una dozzina di combattimenti - da gran tempo ormai il suo discorso

ha perduto ogni oncia di carne superflua, e quel che egli m'offre è poco, ma fatto di solida carne e di muscoli. (Io li

sento come una ventata d'aria fresca, questi ragazzi americani, coraggiosi, svelti, intuitivi - soldati provati a dispetto

della loro giovinezza). Il giuoco della voce con le sue sfumature di significato è più efficace di qualsiasi libro. C'è poi

sempre qualcosa di maestoso in un uomo che ha avuto la sua parte in varie battaglie, specialmente se, quando voi più

desiderate di vederlo abbandonarsi allo sfogo, egli sembra riguardar la cosa con quieto distacco. Io continuo ad essere

disorientato dall'assenza di millanteria e di millantatori tra questi giovani-vecchi militari americani. Ho incontrato gente

che ha partecipato a tutte le battaglie della guerra, dalla prima all'ultima, e le abbiamo discusse insieme una per una, per

ogni angolo degli Stati Uniti, compresi molti degli scontri avvenuti sui fiumi e nei porti. Qui si trovano uomini di tutti

gli Stati dell'Unione nessuno escluso (nell'esercito federale vi è più gente del Sud di quanto si pensi comunemente,

specie degli Stati di confine).* Adesso io dubito che ci si possa fare una buona idea di che cosa sia in pratica questa

guerra, e del carattere genuino dell'America, senza un'esperienza del tipo di quella che io sto facendo.

* Cfr. discorso di Garfield alla Camera dei Rappresentanti 15 aprile 1879: "Sanno lor signori che, a prescindere

dagli Stati di confine, nell'esercito che lottava per l'Unione v'erano ben cinquanta reggimenti e sette compagnie di

bianchi provenienti dagli Stati ribelli? Sanno che dal solo stato del Kentucky sono venuti a combattere sotto la nostra

bandiera più uomini di quanti Napoleone ne portò a Waterloo - più di quanti Wellington ne mise insieme contro

Napoleone? E ricordano lor signori che 186000 uomini di colore hanno combattuto per la nostra bandiera e per l'Unione

contro i secessionisti, e che di questi 90000 provenivano dagli stati ribelli?" (N.d.A.).

MORTE DI UN UFFICIALE DEL WISCONSIN

Ecco un'altra scena tipica di quel buio, cruento anno 1863 - sono note prese durante una mia visita all'ospedale

dell'Armeria, in una calda ma bella giornata d'estate. Nel padiglione H ci avviciniamo al lettino di un giovane tenente di

uno dei reggimenti del Wisconsin. Camminando sfioriamo appena il nudo tavolato del pavimento, poiché in questo

lettuccio abitano lo strazio e l'ansimo della morte. Ho conosciuto questo tenente quando fu portato qui da

Chancellorsville, e mi sono intrattenuto con lui varie volte, sia di giorno che di notte. Se l'era cavata abbastanza bene

sino a ier l'altro, quando fu colto all'improvviso da una emorragia che non è stato possibile fermare, e che continua

anche oggi, a intervalli. Guardate quel bacile accanto al letto, quasi ricolmo di sangue e di garze insanguinate: parla da

sé. Il povero giovane sta lottando penosamente per riuscire a respirare, i grandi occhi scuri già vitrei, e un rantolo

flebile, ma distinto, in gola. Un inserviente gli siede accanto: non lo lascerà fino all'ultimo, sebbene vi sia poco o nulla

da fare. Morirà qui, tra un'ora o due, senza un amico o un parente. E intanto, appena un po' più in là, il normale

chiacchiericcio e andirivieni della corsia prosegue indifferente. Alcuni dei ricoverati ridono o scherzano, altri giuocano

a scacchi o a carte, altri leggono, ecc..23

Nella maggior parte degli ospedali ho potuto notare che, per quanto grave sia un malato, finché esiste una

speranza il medico e gli infermieri si prodigano indefessamente, talora con una curiosa tenacia, per salvargli la vita: non

lasciano niente di intentato, gli tengono sempre accanto qualcuno che esegua gli ordini del medico e si prenda cura di

lui in ogni minuto del giorno e della notte. Osservate quel paravento. Provate ad avvicinarvi, nella penombra delle

prime candele accese, e un'infermiera si farà avanti in punta di piedi e silenziosamente ma imperiosamente vi inviterà a

non fare il minimo rumore, magari a non avvicinarvi affatto. Lì dietro vacilla la vita di qualche soldato, sospesa tra la

guarigione e la morte. Forse in questo momento il povero corpo esausto è scivolato in un lieve sonno che anche un

passo potrebbe turbare. Dovete ritirarvi. I pazienti vicini si muoveranno a piedi nudi. Molte volte sono stato colpito da

questi sforzi così evidenti- ogni singola azione tesa a sottrarre alle grinfie della distruzione una vita umana. Ma una

volta che quella presa si sia fatta salda e stabile, senza più possibilità o speranze, il medico abbandona il paziente. Se si

tratta di un caso in cui uno stimolante sia di qualche sollievo, l'infermiere somministrerà ad libitum punch di latte o

cognac. Non si fanno storie. Negli ospedali da campo non mi è mai capitato di notare sentimentalismi o piagnistei al

letto di un morente, bensì una generale, impassibile indifferenza: è finita, per quanti sforzi siano stati fatti; è inutile

affannarsi o dar via libera alle emozioni. Finché c'è uno spiraglio tengono duro e lottano, o almeno così fa la maggior

parte dei medici; ma una volta sicura ed evidente la morte, abbandonano il campo.

COMPLESSI OSPEDALIERI

Agosto, sett. e ott. '63. Ormai ho preso l'abitudine di recarmi in tutti gli ospedali, anche al seminario di Fairfax

ad Alessandria, e al grande campo dei Convalescenti, cui si accede per il Ponte Lungo. I giornali ne forniscono un

regolare elenco - una lunga lista. Se volete un esempio-tipo di uno di questi ospedali più grandi, immaginatevi un'area

da tre a venti acri di terreno, dove sono aggruppati dieci o dodici enormi baracconi di legno insieme a una dozzina, o

venti (a volte anche più) costruzioni minori, capaci nel complesso di accogliere da cinquecento a mille o

millecinquecento persone. Talvolta questi baraccamenti di legno o padiglioni, lunghi da cento a centocinquanta piedi

ognuno, sono sistemati in una lunga fila uniforme con la fronte rivolta alla strada; altri sono spiegati sì da formare una

immensa V; altri ancora sono ordinati attorno a uno spiazzo quadrato. Tutti insieme, considerando le tende

supplementari, i padiglioni per i casi contagiosi, la stazione di guardia, i magazzini delle vettovaglie e l'alloggio del

cappellano, costituiscono un aggregato enorme; al centro vi sarà con ogni probabilità una costruzione con gli uffici del

capochirurgo, dei chirurghi dei vari padiglioni, dei membri della direzione, degli impiegati, ecc. I singoli padiglioni

sono contrassegnati da lettere dell'alfabeto (padiglione G, padiglione K) o da numeri, 1, 2, 3, ecc. Ognuno ha il suo

medico e il suo corpo infermieri. Nell'aggregato si trova naturalmente un buon numero di impiegati, e a capo di tutti il

medico in carica. Qui a Washington, quando questi ospedali militari sono completi, come è già accaduto diverse volte,

la massa di persone in essi contenuta supera in numero la popolazione dell'intera Washington di dieci o quindici anni fa.

Dal Campidoglio, mentre scrivo, sono visibili forse trenta o quaranta complessi di questo tipo, che ospitano non di rado

cinquanta e anche settantamila uomini. Io li uso come punti di riferimento, durante i miei vagabondaggi, quando mi

fermo in qualche luogo soprelevato a osservare e a studiare la topografia. Guardate lì, tra il ricco fogliame degli alberi

d'agosto, quel candido gruppo di costruzioni all'estrema periferia; poi quell'altro assembramento a un mezzo miglio di

distanza dal primo, sulla sinistra; poi un terzo, a un miglio sulla destra, un quarto un miglio più oltre, e un altro ancora

tra noi e il primo. In effetti non v'è direzione in cui, spingendo lo sguardo, il paesaggio e i dintorni non appaiano

punteggiati di questi aggruppamenti. Quella piccola città (ché tale la credereste) in cima a un colle laggiù, è sì una città,

ma di ferite, di malattie e di morte. È l'ospedale Finley, a nord-est di Washington, sul parco Kindall, come si chiamava

un tempo. L'altro è l'ospedale Campbell. Ambedue sono molto grandi. Ho saputo che questi due da soli ospitavano da

duemila a duemilacinquecento pazienti. C'è poi l'ospedale Carver, ancora più ampio, una vera cittadella a pianta

regolare, cinta da mura e guardata da squadre di sentinelle. Più fuori, a est, l'ospedale Lincoln, anche più grande; e un

mezzo miglio più oltre, l'Emory. Se lasciamo scorrere lo sguardo seguendo il fiume in direzione di Alessandria,

troviamo sulla destra il luogo dove sorge il Campo Convalescenti, coi suoi cinque, otto, talora diecimila ricoverati. Ma

persino questi non costituiscono che una piccola parte. Tra quelli che restano sono gli ospedali Harewood, Mount

Pleasant, Piazza dell'Armeria, l'ospedale Giudiziario, tutti molto grandi.

PASSEGGIATA IN UNA NOTTE SILENZIOSA

20 ottobre. Questa sera, lasciato l'ospedale alle 10, (dopo circa cinque ore di servizio volontario, quasi senza un

attimo di libertà) ho vagato a lungo per Washington. La notte era dolce, chiarissima, abbastanza fresca, con una

voluttuosa mezzaluna lievemente dorata, l'alone intorno sfumato in un trasparente grigioazzurro. Ho percorso

Pennsylvania Avenue fino alla Settima strada, e sono rimasto a passeggiare intorno al Palazzo dei Brevetti. Nella

delicata luce lunare l'edificio aveva un che di accigliato e forte, un aspetto maestoso. Il cielo, i pianeti, le costellazioni,

tutto così luminoso, così calmo, d'un silenzio così espressivo e rasserenante dopo quelle scene d'ospedale. Continuai a

vagare nei paraggi fin quando l'umida luna non fu tramontata, molto dopo la mezzanotte..24

FIGURE MORALI DI SOLDATI

Esistono degli esseri che di tanto in tanto incontro negli ospedali o sul campo - vivi esempi di distacco dal

mondo, di disinteresse, di purezza animale e eroismo - gente inconsapevole della propria natura, nativi dell'Indiana o

forse dell'Ohio o del Tennessee - sulla cui nascita sembra esser discesa la calma del cielo, e alla cui crescita graduale

(quali che fossero le circostanze di lavoro, i mutamenti, le asperità e il basso o addirittura inesistente livello di cultura

che l'hanno accompagnata) sembra aver presieduto uno strano potere di soavità spirituale, nerbo e salute interiore.

Spesso nel comportamento di questi esseri si avverte un qualcosa di velato e di astratto. Ne ho incontrati, ripeto, non di

rado nell'esercito, sul campo e negli ospedali. Se ne trovano nei reggimenti dell'Ovest. Spesso sono giovani che

obbediscono agli eventi e alle circostanze entrando nell'esercito, marciando, combattendo, raccogliendo foraggio,

cucinando, o, prima della guerra, lavorando in campagna o in qualche ramo del commercio - inconsapevoli della loro

natura (ma quanto a questo, chi è conscio della propria natura?) - mentre quelli che li attorniano intuiscono solo che

sono diversi dagli altri, più silenziosi, che "hanno qualcosa di strano", e che sono capaci di staccarsi dal resto e

andarsene a meditare e a riflettere in solitudine.

MANDRIE PER LE VIE DI WASHINGTON

Tra gli altri spettacoli vi sono immense mandrie coi loro bovari, che passano per le vie della città. Alcuni degli

uomini hanno un modo tutto loro di guidare la mandria, con un richiamo strano, un grido gutturale e selvaggio, pensoso,

molto musicale, prolungato, indescrivibile, qualcosa a mezzo tra il tubare del colombo e il chiurlare del gufo. Mi piace

fermarmi a osservare lo spettacolo di una di queste mandrie immense - un po' in disparte, per il gran polverone. Ci sono

sempre uomini a cavallo che fan schioccare la frusta e lanciano grida - le bestie mugghiano - qualche bue o manzo

testardo cerca di scappare - ecco allora una scena movimentata - i mandriani a cavallo, sempre ottimi cavallerizzi e

montati su belle bestie, si precipitano dietro il ribelle, in un turbine di cerchi e giravolte -una dozzina a cavallo, assai

pittoreschi coi loro grandi cappelli flosci a larghe tese - un'altra dozzina a piedi - tutti coperti di polvere - i lunghi

pungoli in mano - una mandria immensa, forse mille bestie - il gran vociare, le urla di richiamo, il movimento ecc.

CONFUSIONE NEGLI OSPEDALI

In aggiunta alle altre difficoltà, è pressocché impossibile, nella confusione di questo grande esercito di malati,

che un forestiero riesca a trovare un amico o un parente, a meno che non conosca, per cominciare, la collocazione

specifica del paziente. Oltre all'elenco pubblicato dai giornali del luogo, esistono uno o due altri elenchi degli ospedali

presso il quartier generale di polizia, ma sono tutt'altro che completi; non sono mai aggiornati né del resto, così come

stanno le cose, in questo mare di arrivi, partenze, spostamenti quotidiani, potrebbero esserlo. Ho saputo di certi casi - un

contadino per esempio, venuto qui dal nord dello Stato di New York a trovare un fratello ferito, che dopo aver

fiduciosamente cercato per ogni dove per una settimana è stato costretto a desistere e a tornarsene a casa senza averne

scoperto traccia. Arrivato a casa trovò una lettera del fratello che g]i forniva l'indirizzo esatto.

LA FRONTE

Culpepper, Virginia, febbraio '64. Qui mi trovo parecchio avanti, non troppo lontano dalla prima linea. Tre o

quattro giorni fa il generale S., ora comandante in capo (credo che Meade sia assente, malato forse) spostò dal campo un

forte contingente di truppe muovendo a sud, come se intendesse fare grandi cose. Sono arrivati fino al Rapidan; da

allora si è avuto qualche spostamento e qualche scontro, ma niente di decisivo. I bollettini giunti la mattina di lunedì

scorso per telegrafo mi sembra abbiano dato troppa importanza alla cosa. Quali fossero le intenzioni del generale S. qui

non sappiamo, ma abbiamo fiducia in questo esperto comandante. C'è stata sì un po' di eccitazione (ma nemmeno

troppa) domenica, tutto il giorno e anche la notte, quando cominciarono ad arrivare ordini di far bagagli e sellare i

cavalli e tenersi pronti a evacuare e a ripiegare su Washington. Ma io avevo un gran sonno e me ne andai a letto.

Svegliato nel cuore della notte da grida tremende, uscii e scoprii che provenivano dagli uomini di cui sopra, che

tornavano. Parlai con alcuni di loro; come sempre notai in essi allegria e capacità di sopportazione e, in molte piccole

cose, i bei segni della migliore, della più eletta gioventù del mondo. Era uno spettacolo curioso, quelle colonne

indistinte che si muovevano nella notte. Io rimasi nel buio, inosservato, a guardare. Il fango era assai profondo. Gli

uomini portavano il solito carico, cappotti, zaini, fucili e coperte. Sfilarono e sfilarono, a breve distanza da me - ogni.25

tanto una risata, una canzone, una battuta, ma non una sola parola di scontento. Può sembrar strano, ma mai come allora

compresi la realtà e la maestà del popolo americano en masse. Mi investì con la forza di un terrore sacro. I possenti

squadroni procedevano né veloci né lenti. Avevano già marciato per sette o otto miglia nello scivoloso untume del

fango. Il valoroso I° corpo si ferma qui. L'egualmente valoroso terzo corpo procede alla volta della stazione di Brandy.

Il famoso 14° Brooklyn si trova a guardia della città: le loro gambe rosse, sempre in gran movimento, stanno

dappertutto. Hanno persino un teatro tutto loro; vi danno spettacoli musicali, e direi che ogni cosa vi è fatta in maniera

eccellente. Naturalmente l'uditorio è un bailamme. Assistere a uno di questi spettacoli del 14° è una buona distrazione.

Più che la scena sul palcoscenico, mi piace osservare i soldati intorno e l'assembramento generale sotto il sipario.

IL PAGAMENTO DEI PREMI

Una delle cose da notare adesso è l'arrivo dell'ufficiale pagatore con la sua cassaforte, e il pagamento dei premi

ai veterani che si riarruolano. Oggi c'è qui il maggiore H., con una montagnuola di bigliettoni che fa allargare il cuore

alla 2a divisione del I° corpo. Il maggiore H. e l'impiegato Eldridge, con davanti i registri e una gran quantità di soldi,

siedono dietro un tavolino al centro di una casupola traballante. Un riarruolato riceve circa 200 dollari in contanti (più

ricche rate che verranno saldate una dopo l'altra nei vari giorni di paga). Lo spettacolo degli uomini che si affollano

intorno è davvero esilarante: mi piace star lì a guardare. Si sentono inebriati, con le tasche rigonfie e la licenza che

verrà, e la visita a casa. Una visione di occhi scintillanti e guance colorite. Il soldato ha sulle spalle molte tristi e dure

esperienze, e tutto ciò riesce a compensarlo in parte. Il maggiore H. ha l'ordine di pagare anzitutto gli uomini del I°

corpo, premi e paghe arretrate, e quindi il resto. Si sente il suono caratteristico e ininterrotto delle banconote nuove che

schioccano e frusciano nelle agili dita del maggiore e del mio amico, l'impiegato E.

CHIACCHIERE, MUTAMENTI, ECC.

A proposito dell'eccitazione di domenica scorsa, e dell'ordine di tenersi pronti a partire, ho sentito dire in

seguito che i suddetti ordini erano venuti da qualche prudente comandante in seconda, e che le autorità non solo non ne

sapevano nulla, ma neanche pensavano a movimenti del genere: il che è probabile. Le voci che correvano qui, e il

diffuso timore, accennavano a una grande manovra di accerchiamento da parte di Lee e a un attacco sul nostro fianco

destro. Ma io tenevo lo sguardo sul fango, che era allora della massima profondità e gonfiezza, e mi ritirai

compostamente a riposare. Pure devono esservi mutamenti in vista per Culpepper. Le autorità si sono date la caccia qui

come nuvole in un cielo burrascoso. Prima di Bull Run (la prima) questo era il centro di riunione e di addestramento

delle truppe secessioniste. Momentaneamente io alloggio presso una signora che è stata testimone di tutte le memorabili

evoluzioni della guerra su questa strada calcata da eserciti opposti. È vedova, con figli in tenera età, vive con la sorella

in una casa grande e piacevole. A pensione da loro vi è un buon numero di ufficiali dell'esercito.

VIRGINIA

Rovinata, indifesa e calpestata dalla guerra com'è oggi la Virginia, ogniqualvolta ne calco il suolo io mi scopro

pieno di sorpresa e di ammirazione. Che grande capacità di produzione e di progresso, di sostenimento, di vita e di

espansione! Ovunque io sia andato, nell'Old Dominion (la sottile ironia di questo nome oggi ! ) sono stato preso da

queste riflessioni. Il suolo è ancora superiore di molto a quello di qualsiasi stato del Nord. E che respiro nel paesaggio,

ovunque montagne che si perdono in lontananza, ovunque utili corsi d'acqua. Tuttora prodiga di boschi e foreste, questa

terra è certamente ottima per tutti i tipi di frutta, colture e fiori. Il cielo e l'atmosfera, ne son certo, mi appaiono più dolci

dopo un anno e più di residenza in questo Stato, con continui spostamenti e ritorni. Molto salubri. direi, da un punto di

vista generale. E poi con una qualità particolare di ricchezza e elasticità, di giorno come di notte. Il sole si delizia della

sua potenza, barbaglia e brucia, e tuttavia non mi provoca mai spiacevoli infiacchimenti: non è un calore tropicale, non

toglie il respiro, anzi dà vigore. È il nord che lo tempera. Le notti sono spesso incomparabili. Ieri sera (8 febbraio) ho

visto entrare la luna nuova - con dietro stagliato nitidamente il profilo della vecchia fase; il cielo e l'aria così limpidi,

con una tal trasparenza di sfumature, che io pensai di non aver mai veduto prima la luna nuova. Era la falce più sottile

che si sia mai vista. Stava delicata mente sospesa proprio sopra l'ombra scontrosa delle Montagne Azzurre. Potesse

rivelarsi un buon presagio, una breve profezia per questa terra infelice!

ESTATE 1864.26

Eccomi di nuovo a Washington, preso dai miei soliti giri diurni e notturni. Vi sono naturalmente molti casi

peculiari. In ogni padiglione si trovano sparsi qua e là poveri ragazzi costretti a lunghe sofferenze da ferite testarde, o

indeboliti e scuorati da febbre tifoidea o simili; casi speciali' che abbisognano di nutrimento particolare e appropriato. È

da questi che vado a sedermi, e scambio qualche parola, o cerco di rincuorarli in silenzio. A loro piace immensamente

(e anche a me). Ogni caso poi ha le sue peculiarità, cui occorre di volta in volta adattarsi. Anch'io ho appreso queste

leggi di adattamento - ho assimilato molta della saggezza d'ospedale. Alcuni di questi poveri ragazzi, lontani da casa per

la prima volta in vita loro, sono affamati, assetati di affetto; spesso è questa l'unica cosa che riesce a toccarli, nel loro

stato.

I ricoverati amano in genere avere una matita e qualcosa su cui scrivere. Ho dato loro delle agendine da pochi

soldi e degli almanacchi del 1864 con dei fogli bianchi. Per la lettura ho sempre qualche vecchia rivista illustrata o

periodici con racconti - sono sempre graditi; anche i quotidiani, del mattino o della sera. I libri migliori non li regalo; li

distribuisco invece in prestito nei padiglioni per poi riprenderli, darli ad altri, e così via; sono molto puntuali nel

restituirli. In questi ospedali, o sul campo, continuando ad andare in giro, ho imparato a adattarmi a ogni necessità,

secondo il tipo e l'urgenza, umili o dignitose che siano - ognuna giustificata e resa reale dalle sue circostanze - non solo

visite e parole incoraggianti e piccoli doni - non solo lavare e bendare ferite (vi sono dei casi in cui il paziente non vuole

altri che me per quest'ufficio) - ma letture di passi della Bibbia, con commento, preghiera al capezzale, spiegazione

della dottrina, ecc. (a questa confessione mi par di vedere i miei amici sorridere, ma io non sono mai stato così serio in

vita mia). Sul campo o dovunque fossi, avevo l'abitudine di leggere e recitare per loro. Era una cosa che amavano

moltissimo, specie i brani di declamazione poetica. Ci riunivamo in un largo gruppo, dopo cena, per conto nostro, e

passavamo il tempo in queste letture, o conversando, e di tanto in tanto con un giuoco divertente chiamato il giuoco

delle venti domande.

UNA NUOVA ORGANIZZAZIONE MILITARE PER L'AMERICA

Dagli eventi della guerra, a Nord e Sud, e da tutte le altre considerazioni, mi risulta chiaro che la teoria, la

pratica, l'organizzazione e le norme militari correnti (ereditate dagli istituiti feudali europei con l'aggiunta, ovviamente,

delle "migliorie moderne" mutuate in larga parte dai francesi), per quanto in generale accettate e seguite tacitamente

dagli ufficiali, non sono affatto consone né agli Stati Uniti, né al nostro popolo, né al nostro tempo. Che cosa ne verrà

fuori, non so - ma so che alla fine dovrà necessariamente attuarsi una totale sconfessione dell'attuale sistema, militare e

navale, seguita da una ricostruzione su basi e centri radicalmente diversi e a noi appropriati, allo stesso modo che il

nostro sistema politico si è sviluppato, diverso dall'Europa feudale, crescendo poi su se stesso, da premesse originali,

perenni, democratiche. È indubbio che qui negli Stati Uniti abbiamo la più grande forza militare del mondo, di qualsiasi

nazione, forse di tutte le nazioni - truppe instancabili, intelligenti, coraggiose e fidate. Il problema è organizzare questa

forza in maniera in tutto consona ad essa e ai principi della repubblica, e trarne il rendimento migliore. Nella guerra in

corso, come è già stato detto e ridetto, forse i tre quarti delle perdite, uomini, vite, ecc., sono state mero eccesso,

capriccio, spreco.

MORTE DI UN EROE

Mi chiedo se riuscirò mai a comunicare ad altri - a te per esempio, lettore caro - la tenera e terribile realtà di

certi casi (e quanti ce ne son stati) simili a quello che voglio menzionare. Stewart C. Glover, compagnia E, 5°

Wisconsin - ferito il 5 maggio, in una di quelle feroci mischie del Deserto - morto il 21 maggio - circa 20 anni. Era

piccolo e imberbe - uno splendido soldato - in effetti quasi l'americano ideale della sua età. Prestava servizio da quasi

tre anni e pochi giorni dopo avrebbe avuto diritto al congedo. Si trovava nel corpo di Hancock. Il combattimento per

quel giorno era quasi cessato, e il generale che comandava la brigata fece un giro a cavallo chiedendo volontari per

andare a raccogliere i feriti. Glover fu tra i primi a rispondere - uscì allegramente - ma nell'atto di riportare alle nostre

linee un sergente ferito, fu colpito al ginocchio da un tiratore scelto dei ribelli; conseguenza: amputazione e morte.

Prima viveva con il padre, John Glover, un uomo anziano e infermo, a Batavia, contea di Genesee, N. Y., ma si trovava

a scuola nel Wisconsin poco dopo lo scoppio della guerra, e lì si arruolò - si adattò subito alla vita militare, gli piacque

anzi, era molto coraggioso, e amatissimo da ufficiali e compagni. Come tanti altri soldati, teneva un piccolo diario. Il

giorno della sua morte vi scrisse le seguenti parole, oggi il dottore dice che debbo morire - tutto è finito per me - ah,

morire così giovane. Su un altro foglio bianco appuntò queste parole per suo fratello, caro fratello Thomas, sono stato

coraggioso ma peccatore - prega per me.

SCENE DI OSPEDALE. - INCIDENTI.27

È domenica pomeriggio, mezza estate, caldo opprimente, e un gran silenzio nel padiglione. Dedico le mie cure

a un caso critico, che in questo momento è immerso in un semi-letargo. Vicino a dove io son seduto giace, sofferente,

un soldato ribelle; è dell' 8° Louisiana, si chiama Irving. Si trova qui da parecchio tempo, con una brutta ferita, gli

hanno amputato da poco una gamba. Dalla parte opposta proprio di fronte a me giace un soldato-bambino, l'hanno

messo giù con tutti i vestiti, dorme, appare consumato dal male, il volto pallido reclinato sul braccio. Dalla bordura

gialla della giacca vedo che è un cavalleggere. Mi avvicino silenziosamente e scopro dalla sua cartella che si chiama

William Cone, è del I° cavalleria Maine, i suoi vivono a Skowhegan.

Gelato per tutti. Verso la metà di giugno, in una giornata di gran caldo, ho offerto il gelato a tutti i ricoverati

dell'Ospedale Carver, procacciandone in gran quantità e passando quindi da un padiglione all'altro con la scorta del

dottore o dell'infermiere-capo per provvedere personalmente alla distribuzione.

Un incidente. In uno degli scontri di fronte a Atlanta, un soldato sudista, di corporatura possente,

evidentemente giovane, venne ferito mortalmente alla testa, tanto che la materia cerebrale in parte fuoriuscì . Visse

ancora tre giorni, steso supino nel punto dove era caduto. Durante quei tre giorni egli scavò nel terreno, con il calcagno,

una buca capace di contenere due zaini di grandezza media. Giacendo lì all'aria aperta, continuò giorno e notte, quasi

senza interruzione, a muovere il calcagno a quel modo. I nostri soldati lo trasportarono poi in una casa vicina, ma in

pochi minuti morì.

Un altro. Dopo i combattimenti di Columbia nel Tennessee, dove riuscimmo a respingere una ventina di

impetuose cariche dei ribelli, i sudisti lasciarono sul campo un gran numero di feriti, per lo più a tiro dei nostri. Ogni

volta che un ferito tentava in qualche modo di allontanarsi, generalmente strisciando, i nostri uomini lo abbattevano con

un colpo, senza eccezioni. Non ne lasciarono sfuggire neppur uno, quali che fossero le sue condizioni.

UN SOLDATO YANKEE

Svoltando dalla Avenue nella Tredicesima strada, una fresca sera d'ottobre, c'era all'angolo un soldato con

zaino e cappotto che chiedeva la strada. Scoprii che doveva percorrere un tratto nella mia stessa direzione, e

proseguimmo insieme. Attaccammo subito a conversare. Era piccolo di persona e non molto giovane, un tipetto robusto

a quanto potei giudicare alla luce della sera, sbirciandolo quando passavamo vicino a un lampione. Le sue risposte

erano brevi ma chiare. Si chiamava Charles Carroll; apparteneva a uno dei reggimenti del Massachusetts ed era nato a

Lynn o nei pressi. I genitori erano ancora vivi, ma in età molto avanzata. Erano quattro figli, e si erano arruolati tutti.

Due erano morti di fame e di disperazione nella prigione di Andersonville, uno era stato ucciso nell'Ovest. Lui se ne

stava andando a casa, e dal modo in cui parlava dedussi che era prossimo al congedo definitivo. Faceva gran progetti di

starsene con i suoi vecchi, per dare un po' di conforto ai giorni che restavano loro da vivere.

PRIGIONIERI UNIONISTI NEL SUD

Michael Stransbury, 48 anni, marinaio, meridionale di nascita e educazione, già capitano del pontone-faro

statunitense Long Shoel di stanza a Punta Long Shoal, stretto di Pamlico - benché meridionale, unionista convinto - fu

catturato il 17 febbraio 1863, e ha trascorso quasi due anni nelle prigioni dei Confederati. A un certo momento il

governatore Vance ordinò che fosse rilasciato, ma un ufficiale dei ribelli lo riarrestò; inviato quindi a Richmond per uno

scambio di prigionieri, invece di essere restituito fu mandato più a sud, a Salisbury, Carolina del Nord (come cittadino

sudista, non soldato) dove rimase fino a poco tempo fa, quando riuscì a fuggire mischiandosi con il nome di un soldato

morto a un gruppo di prigionieri scambiati, e arrivando fin qui insieme agli altri via Wilmington. A Salisbury era

rimasto per circa sedici mesi. Dopo l'ottobre del '64 in quei recinti si trovavano circa 11.000 prigionieri unionisti, tra cui

un centinaio di unionisti del Sud e circa duecento disertori dell'Unione. Durante lo scorso inverno 1500 di questi

prigionieri, per aver salva la vita, passarono alla Confederazione, a patto di essere assegnati soltanto a servizi di guardia.

Di quegli 11.000 non ne usciron vivi più di 2500; di questi, 500 erano rottami umani, in condizioni pietose, sviliti - il

resto era in grado di viaggiare. Al mattino v'erano spesso 60 cadaveri da seppellire; la media giornaliera si aggirava sui

quaranta. Il cibo quotidiano era costituito da una pappa di granturco, fatta di torso e pula macinata insieme, e

occasionalmente, non più di una volta alla settimana, una razione di melassa di sorgo. Poteva anche succedere, una

volta al mese, non più spesso, di ricevere una microscopica razione di carne. All'interno dello steccato che racchiudeva

gli 11.000 uomini, c'era uno scarso gruppo di tende sufficienti sì e no per duemila persone. Una gran quantità di

prigionieri viveva in buche scavate nel terreno, nel più totale abbandono. Alcuni morirono di freddo, altri ebbero mani e

piedi congelati. Ogni tanto, al minimo pretesto, le sentinelle sudiste sparavano all'interno della prigione, per puro gusto

demoniaco. Tutti gli orrori immaginabili, inedia, prostrazione, sporcizia, insetti, disperazione, rapida perdita di ogni

rispetto per se stessi, idiozia, demenza e frequenti assassini, erano lì dentro. Stansbury ha moglie e un figlio, che vivono.28

a Newbern - ha scritto loro da qui - conserva il suo impiego al faro della marina statunitense (era andato a Newbern a

trovare la famiglia, e fu proprio mentre ritornava alla nave che venne catturato, nel suo stesso battello). Ha visto portare

a Salisbury uomini vigorosi quant'altri mai - spacciati in poche settimane, spesso a forza di rimuginare sulla loro

condizione - sparita in loro ogni speranza. Egli stesso ha una sorta di espressione dura e triste, stranamente inebetita,

come di uno lasciato per anni a gelare nel buio e nel freddo, in un luogo dove la sua natura virile e buona non avesse

modo alcuno di esercitarsi.

DISERTORI

24 ottobre. Veduto oggi sfilare per Pennsylvania Avenue uno squadrone di disertori del nostro esercito (più di

trecento), serrati da un cordone di guardie armate - la più disparata collezione ch'io abbia mai visto, con divise, cappelli

e berretti d'ogni genere e specie, molti bei ragazzi, alcuni vergognosi in viso, altri malaticci, sporchi i più, con camicie

molto sudicie e lise, ecc. Si trascinavano senz'ordine, senza file, una gran massa confusa. C'era tra gli spettatori chi

rideva, ma io di tutto avevo voglia fuorché di ridere. Codesti disertori sono assai più numerosi che non si creda. Ogni

giorno ne vedo qualche drappello, talvolta solo di due o tre con una scorta ridotta, talora di dieci o dodici con una scorta

maggiore (dicono che ora le diserzioni sul campo abbiano spesso raggiunto la media di 10.000 al mese. Una squadra di

disertori è uno degli spettacoli più comuni a Washington).

UNA PALLIDA IMMAGINE DEGLI ORRORI DELLA GUERRA

Durante uno degli ultimi movimenti delle nostre truppe nella vallata (presso Upperville, credo) un forte

contingente di guerriglieri a cavallo di Moseby attaccò un convoglio di feriti e la guardia di cavalleria che li scortava.

Le ambulanze trasportavano circa sessanta feriti, tra cui un buon numero di alti ufficiali. I ribelli erano superiori di

numero, e la cattura del convoglio con la sua scorta ridotta venne agevolmente effettuata dopo una breve scaramuccia.

Come i nostri si furono arresi, immediatamente i ribelli cominciarono a saccheggiare il treno e a trucidare i prigionieri,

compresi i feriti. Ed ecco la scena, o meglio un'idea della scena, dieci minuti dopo. Tra gli ufficiali feriti nelle

ambulanze si trovavano un tenente delle truppe regolari e un ufficiale superiore. Questi due erano stati tirati fuori,

trascinati per terra sulla schiena, e si trovavano ora al centro di una folla indemoniata di guerriglieri che si accanivano

su di loro pugnalandoli in varie parti del corpo. Uno degli ufficiali aveva i piedi inchiodati al suolo con due baionette

che lo passavano da parte a parte ed erano saldamente confitte nel terreno. Questi due ufficiali, come si scoprì in seguito

esaminandoli, avevano ricevuto ognuno circa venti di questi colpi, alcuni in bocca, in viso, ecc. I feriti (anche per

agevolare il saccheggio) erano stati tutti trascinati fuori dai vagoni; alcuni erano stati spacciati lì per lì, e i loro corpi

giacevano lì accanto, immoti e lordi di sangue. Altri, non ancora morti ma orribilmente mutilati, gemevano o si

lamentavano. Di quelli che si erano arresi,; più vennero in tal modo mutilati o massacrati.

A questo punto uno squadrone della nostra cavalleria che aveva seguito il convoglio a una certa distanza,

piombò inaspettatamente sui ribelli assalitori, il quali cercarono subito scampo come meglio potevano. La maggior parte

riuscì a svignarsela, ma mettemmo le mani su due ufficiali e diciassette soldati sorpresi negli atti appena descritti. Lo

spettacolo era di quelli che non ammettono discussioni, come si può facilmente immaginare. Per quella notte i

diciassette uomini e i due ufficiali catturati vennero posti sotto sorveglianza, ma fu deciso seduta stante che dovevano

morire. La mattina dopo i due ufficiali furono portati in città, in luoghi separati, messi al centro della strada e fucilati. I

diciassette uomini furono condotti in uno spazio libero, un po' fuori mano, e sistemati in un quadrato chiuso per metà da

due dei nostri reggimenti di cavalleria: uno di questi reggimenti aveva trovato tre giorni prima i corpi insanguinati di tre

dei suoi uomini, coi tendini tagliati, appesi pei calcagni ai rami degli alberi dai guerriglieri di Moseby, e l'altro non

molto tempo innanzi aveva trovato dodici dei suoi uccisi (dopo essersi arresi) e impiccati per il collo agli alberi, con

delle iscrizioni di scherno appuntate al petto di uno dei cadaveri, quello di un sergente. Quei tre e questi dodici, dico,

erano stati trovati dai reggimenti che circondavano lo spiazzo: coi loro revolver questi ora formavano la trista cintura

dei diciassette prigionieri. Questi ultimi vennero piazzati al centro e slegati, e fu comunicato loro ironicamente che ora

gli sarebbe stata offerta "una possibilità di salvarsi". Qualcuno si mise a correre. Ma a che pro? Da ogni lato piovvero le

pillole mortali. Pochi minuti dopo sullo spiazzo erano disseminati diciassette cadaveri. Io ero curioso di sapere se

qualcuno dei soldati dell'Unione, pochi magari (almeno uno, o due, dei più giovani), si fosse astenuto dallo sparare su

degli esseri inermi. Nessuno. Non ci fu esultanza, si parlò poco, anzi quasi niente, eppure ogni singolo uomo contribuì

con la sua pallottola.

Moltiplicate tutto ciò per venti, per cento anzi- verificatelo in tutte le possibili forme proposte da circostanze,

luoghi, individui diversi - accendetelo delle passioni più fosche, l'ingorda sete di sangue del lupo e del leone -

gl'infocati, ribollenti vulcani dell'umana vendetta per compagni e fratelli uccisi - il bagliore delle fattorie in fiamme, i

cumuli di nere braci fuligginose ancora ardenti - e ovunque nel cuore umano braci ancora più nere e più triste - e avrete

una pallida immagine di questa guerra..29

DONI - DENARO - DISCRIMINAZIONE

Trovandosi la maggior parte dei feriti che giungevano dal fronte senza un centesimo in tasca, compresi subito

che la cosa migliore da farsi per sollevarne il morale e mostrar loro che c'era chi si preoccupava, chi si interessava

praticamente a loro con sentimenti di padre e di fratello, era donare a chi si trovava in queste condizioni delle piccole

somme di denaro, ma con discrezione e tatto. A questo scopo io vengo regolarmente rifornito di fondi da persone di

buon cuore, uomini e donne di Boston, Salem, Providence, Brooklyn e New York. Mi provvedo allora di una quantità di

monete nuove fiammanti da dieci e da cinque centesimi, e ogni volta che lo reputo necessario regalo venticinque o

trenta centesimi, e anche cinquanta, e di tanto in tanto, in casi particolari, somme anche maggiori.

Avendo ormai toccato l'argomento, colgo l'occasione per ventilare la questione finanziaria. Le fonti delle mie

riserve di denaro, tutte assolutamente spontanee, moltissime per vie affatto confidenziali, spesso tali da sembrar opera

della Provvidenza, erano numerose e varie. C'erano ad esempio due ricche signore, due sorelle, che vivevano lontano, e

continuarono a inviare regolarmente per due anni somme piuttosto grosse, con la preghiera di tener segreto il loro nome.

Questa forma di delicatezza era in realtà un fatto frequente. Parecchi mi diedero carte blanche. Molti erano persone

assolutamente sconosciute. Grazie a queste fonti, per un periodo di due o tre anni, e nella maniera sopra descritta, potei

distribuire negli ospedali, come elemosiniere per conto di terzi, diverse migliaia di dollari. Una cosa in particolare

appresi da tutto ciò - che sotto l'apparente avidità e cinismo dei nostri tempi, non c'è limite alla benefica generosità degli

uomini e donne, americani, una volta che lo scopo di essa sia chiaro. Un'altra cosa mi si fece evidente - che mentre "gli

spiccioli" sono sì utili nelle retrovie, una simpatia magnetica, tatto e amorevolezza, sono sovrani, e lo saranno sempre.

DAI MIEI QUADERNI DI APPUNTI

Alcune delle mie note (semi cancellate e pressocché illeggibili a distanza di tempo) delle cose desiderate da

questo o da quel paziente, potranno essere dei buoni indici. D.S.G., letto 52, vuole un buon libro; ha la voce rauca e il

mal di gola, gli piacerebbe qualche caramella di mentastro; è del New Jersey, 28° reggimento.- C.H.L., 145°

Pennsylvania, letto 6, soffre di itterizia e risipola, è anche ferito; stomaco facilmente soggetto a nausee; gli porto delle

arance e un po' di gelatina dolce di frutta; un giovane allegro, pieno di vitalità (si è poi ripreso in pochi giorni e adesso è

a casa in licenza). - J.H.G., letto 24; ha bisogno di una canottiera, pantaloni e calze; sono diversi giorni che non può

cambiarsi; è un tipico ragazzo del New England ordinato e pulito (gli ho portato quanto desiderava; e anche un pettine,

spazzolino da denti, sapone e asciugamani; potei notare in seguito che era il più pulito e curato del padiglione). - La

signora G., infermiera, padiglione F, desidera una bottiglia di brandy - due dei suoi pazienti hanno urgente bisogno di

qualche stimolante, sono sfiniti dalle ferite e dal deperimento (le ho portato una bottiglia di brandy di prima qualità,

avuta dall'ufficio del Comitato Cristiano).

UN FERITO DELLA SECONDA BULL RUN

Dunque il povero John Mahay è morto. Morto ieri. Il suo è stato un caso doloroso e lungo (v. p. 52). In questi

quindici mesi sono stato a trovarlo varie volte. Apparteneva alla compagnia A, 101° New York; era stato colpito al

basso ventre nella seconda Bull Run, nell'agosto del '62. La descrizione di una sola scena al suo capezzale sarà

sufficiente a darvi un'idea di questa agonia durata quasi due anni. La vescica gli era stata perforata da un proiettile che

lo aveva passato da parte a parte. Non molto tempo fa sono rimasto una buona parte della mattinata accanto al suo letto,

nel padiglione E di Piazza dell'Armeria. Dagli occhi gli sgorgavano le lacrime per l'intenso dolore, i muscoli del viso

erano contratti, ma dalla bocca non gli usciva una parola tranne, a tratti, un roco lamento. Gli furono applicati sulla

ferita panni umidi e caldi, che gli diedero qualche sollievo. Povero Mahay, solo un ragazzo per gli anni ma già vecchio

per la sventura. Non aveva mai conosciuto l'amore dei genitori; da bambino era stato collocato in un istituto di carità a

New York, e mandato quindi a servizio presso un tirannico padrone, nella contea di Sullivan (sulla schiena ancora le

cicatrici della sua frusta e del suo bastone). La ferita era delle più spiacevoli, essendo egli un ragazzo gentile, curato,

affettuoso. Durante la vita di ospedale si era fatto degli amici ed era invero prediletto da tutti. Ha avuto un bel servizio

funebre.

MEDICI MILITARI. - PENURIA DI AIUTI

Vorrei qui testimoniare il mio entusiasmo per lo zelo, il coraggio, lo spirito e la capacità professionale

predominanti tra gli ufficiali medici, molti dei quali assai giovani. Non mi dilungherò sulle eccezioni, dacché sono.30

poche (tuttavia mi sono imbattuto in alcune di queste, e che gente di estrema incompetenza e gran boria erano! ). Tra i

medici degli ospedali ho continuato a trovare gli uomini migliori, i lavoratori più instancabili e disinteressati. Sono per

giunta pieni di genialità. Ne ho conosciuti a centinaia e so quel che mi dico. Esistono tuttavia serie deficienze, sprechi,

tristi lacune nel sistema delle provvigioni, dei contributi, e in generale in tutto il corpo infermieri, sia volontari che

governativi, come anche nel reparto cibi, medicinali, provviste, ecc. (non parlo qui dell'assistenza medica, perché i

medici non possono fare più di quanto la resistenza umana consenta).

Questa è la verità dei fatti, checché raccontino i giornali di New York nei loro ampollosi resoconti. Nessuna

preparazione accurata, niente organizzazione, previsione o genialità. Scorte sempre in gran copia, indubbiamente, ma

mai dove ce n'è veramente bisogno e mai che se ne faccia l'uso appropriato. Nessuna esperienza è più angosciosa di

quella dei giorni che seguono una grossa battaglia. Decine, centinaia di uomini, i migliori del mondo, giacciono

abbandonati, senza un lamento, mutilati, debolissimi, soli, e finiscono per morire dissanguati, o di sfinimento - non li

hanno magari nemmeno toccati, o giusto stesi da una parte e lasciati lì - quando ci dovrebbero assolutamente essere dei

mezzi, un sistema organizzato per salvarli.

"GIUBBE AZZURRE" DAPPERTUTTO

La città, i sobborghi, il Campidoglio, lo spazio davanti la Casa Bianca, i luoghi di divertimento, l'Avenue e

tutte le strade principali quest'inverno brulicano di soldati, come non s'era mai visto. Alcuni sono usciti di ospedale, altri

vengono dai campi nelle vicinanze. Quale che sia la provenienza, si riversano qui in gran copia e costituiscono direi

l'elemento caratteristico del movimento e del costume della nostra capitale. Quei pantaloni e quei pastrani azzurri sono

un po' dappertutto. Per le scale dell'ufficio dell'ufficiale pagatore si sente il ticchettio delle grucce, alcuni si assembrano

alle porte, formando dei gruppi caratteristici, e lì aspettano, spesso a lungo nella stanchezza e nel freddo. Nel tardo

pomeriggio si vedono i congedati avviarsi alla stazione di Baltimora, soli o in piccole squadre. Tutto il giorno tranne la

mattina presto, ma soprattutto nelle prime ore della sera, ci sono in giro pattuglie di polizia che esaminano i permessi e

arrestano tutti quei soldati che vengono trovati senza. Non lo richiedono agli invalidi, a quelli che hanno perso una

gamba, ai mutilati gravi - ma tutti gli altri vengono fermati. A sera si aggirano anche per gli auditori dei teatri chiedendo

a tutti, anche agli ufficiali, di esibire il permesso che giustifichi la loro presenza in quel luogo.

UN OSPEDALE MODELLO

Domenica 29 gennaio 1865. Sono andato questo pomeriggio in Piazza dell'Armeria. I padiglioni si presentano

molto bene, pavimenti nuovi e pareti imbiancate a calce, un modello di ordine e pulizia. Credo proprio che, dopo tutto,

questo sia un ospedale modello, per molti e importanti rispetti. Mi sono imbattuto qui in diversi casi tristi, ferite che si

trascinavano a lungo. Un soldato del Delaware, William H. Millis di Bridgeville, con cui avevo passato delle ore nel

maggio scorso, dopo le battaglie del Deserto in cui aveva riportato una brutta ferita al petto e un'altra al braccio sinistro

(il suo stato, per sopraggiunta polmonite, si era mantenuto assai grave per tutto giugno e luglio dello scorso anno) sta

ora molto meglio, tanto da poter fare qualche lavoruccio. Per tre settimane, in quel periodo che ho appena ricordato, era

rimasto sospeso tra la vita e la morte.

RAGAZZI NELL'ESERCITO

Tornando a casa verso il tramonto ho visto nella Quattordicesima strada un soldato giovanissimo, vestito con

abiti leggieri, proprio vicino all'edificio dove stavo per entrare. Mi fermai un momento di fronte alla porta e lo chiamai.

Sapevo che un vecchio reggimento del Tennessee e uno dell'Indiana erano provvisoriamente accampati in certe caserme

di nuova costruzione nei pressi della Quattordicesima. Questo ragazzo, come scoprii, apparteneva al reggimento del

Tennessee. Ma non capivo come facesse a portare un moschetto. Non aveva che quindici anni, e con tutto ciò era in

servizio da dodici mesi e aveva avuto la sua brava parte in diverse battaglie, alcune di importanza storica. Gli chiesi se

non soffriva il freddo, se non aveva un pastrano. No, non soffriva il freddo e non aveva un pastrano, ma poteva

procurarsene uno quando voleva. Suo padre era morto, sua madre viveva in qualche parte nell'est del Tennessee: nel suo

reggimento venivano tutti da quella regione. Il mattino dopo vidi i reggimenti dell'Indiana e del Tennessee percorrere

l'Avenue a passo di marcia. Il mio ragazzo, nel secondo, allungava il passo con gli altri. Ce n'erano molti non più

anziani di lui. Rimasi a guardarli mentre sfilavano a passi lenti, forti, pesanti, regolari. Sembrava non ci fosse un sol

uomo sopra i trent'anni, in gran parte andavano dai 15 ai 22, forse 23 anni. E tutti avevano l'aria di veterani, logori,

sporchi, impassibili e una certa andatura rilassata e indolente; molti, in aggiunta alle armi e allo zaino regolamentare,

portavano una padella, una scopa, ecc. Avevano tutti una fisionomia gradevole, niente raffinatezze, né pallori da.31

intellettuali: così come mi balzarono agli occhi mentre avanzavano una fila dopo l'altra, non mi sembrò esservi tra loro

un solo viso repellente, o brutale, o risolutamente stupido.

FUNERALE DI UN'INFERMIERA

È appena accaduto in uno degli ospedali. Una donna, certa signora o signorina Billings, che per lungo tempo

era stata una compagna attiva dei soldati e infermiera presso l'esercito, affezionandovisi in un modo concepibile solo da

chi ne abbia avuto esperienza, uomo o donna, cadde malata all'inizio di questo inverno, rimase in condizioni stazionarie

per un certo tempo, e alla fine morì in ospedale. Era stato suo desiderio essere seppellita tra i soldati e secondo il

costume militare. Questo desiderio venne soddisfatto punto per punto. La bara fu trasportata da un gruppo di soldati

fino alla tomba con la scorta d'uso, e calata nella fossa: sopra di essa i fucili spararono a salve. È accaduto a Annapolis,

pochi giorni fa.

INFERMIERE TRA I SOLDATI

Si trovano molte donne con varie occupazioni negli ospedali, soprattutto come infermiere qui a Washington, e

nelle postazioni militari; in buona parte giovani che prestano servizio volontario. Sono d'aiuto in certi casi, e meritano di

essere menzionate con rispetto; resta comunque da notare che ben poche o punte di queste giovani donne, sotto

l'irresistibile peso delle convenzioni sociali, rispondono in pratica ai requisiti indispensabili a una buona infermiera per

soldati. Donne di mezza età o anche più anziane, sane e di buon carattere, madri di famiglia, sono sempre preferibili. Si

presentano di necessità centinaia di cose cui non ci si può rifiutare e che devono essere fatte. La presenza di una buona

signora attempata o di mezza età, il magnetico tocco e i lineamenti espressivi della madre, il tacito potere rasserenante

della sua presenza e delle sue parole, i privilegi di una conoscenza conseguita solo attraverso i figli, sono qualifiche

preziose e determinanti. È una facoltà naturale quella che si richiede qui; non si tratta soltanto di avere una ragazza

beneducata seduta dietro un tavolo nel padiglione. Una delle migliori infermiere che io abbia mai incontrato era

un'analfabeta, una vecchia irlandese dal viso rossiccio: l'ho vista prendere tra le braccia con una tale tenerezza quei

poveri ragazzi martoriati e nudi. V'è inoltre una quantità di ottime donne di colore, anziane e linde, che sarebbero

certamente infermiere di prim'ordine.

SUDISTI FUGGIASCHI

23 febbraio '65. Ho visto una lunga processione di giovani dell'esercito ribelle (disertori, li chiamano, ma il

termine non si può riferire a costoro nel senso usuale) sfilare oggi per la Avenue. Ce n'erano circa duecento, arrivati ieri

in battello dal fiume James. Mi sono fermato a guardarli mentre si trascinavano in una sorta di logora marcia, lenta e

stanca; moltissimi ragazzi dai capelli chiari o biondi, gli occhi grigio-chiaro. Le divise avevano l'uniformità della

sporcizia; dovevano essere state in massima parte grigie; certuni indossavano pezzi della nostra uniforme, chi i

pantaloni, chi la giacca o il pastrano; credo che fossero per lo più della Georgia o della Carolina del Nord. Destavano

poca o punta curiosità. Io mi trovavo piuttosto vicino a loro, e parecchi giovani, piuttosto belli (ma quale storia di

disperazione narrava la loro persona!) mi facevano passando un cenno col capo o mi rivolgevano una parola, leggendo

di certo nel mio viso pietà e affetto paterno, ché il mio cuore ne era gonfio. Molti nella fila si trascinavano tenendosi

abbracciati al compagno, fratelli forse, quasi temendo che qualcosa potesse separarli. Sembravano quasi tutti quel che si

direbbe gente semplice, ma anche intelligente. Taluni avevano sulle spalle pezzi di vecchi tappeti, altri coperte, altri

ancora vecchie bisacce. Sebbene si notassero qua e là dei bei volti, era sempre una processione miserabile. I duecento

erano accompagnati da una mezza dozzina di guardie armate. In questa settimana ho veduto ogni giorno di codeste

processioni, poco più o poco meno numerose, che il battello sbarcava regolarmente. Il governo fa per loro quanto è

possibile, e li smista verso Nord e a Ovest.

27 febbraio. Altri tre o quattrocento fuggiaschi dell'esercito confederato sono arrivati col battello. Data la

giornata davvero bella (dopo un lungo periodo di maltempo), ho gironzolato un bel po', senz'altro scopo che quello di

stare all'aria aperta e godermela; e ho incontrato questi fuggiaschi in tutte le direzioni. Il loro abbigliamento è quello già

descritto, cencioso, logoro e eterogeneo. Ho parlato con parecchi di loro. Alcuni sembrano intelligenti, e hanno anche

un certo stile, a dispetto dei loro abiti miserevoli - un certo sussiego nel camminare, col vecchio copricapo buttato da

una parte, alla sbarazzina. Trovo confermate in loro, come già durante questi quattro anni, le vecchie e inconfutabili

prove della tirannia priva di scrupoli esercitata dal governo secessionista nell'arruolare, a forza e ovunque, la gente

comune, senza mai chiedersi se il loro periodo fosse scaduto - e continuando a tenerli egualmente in servizio. Un

gigantesco ragazzo della Georgia, alto non meno di sei piedi e tre pollici, di struttura massiccia, coperto dagli stracci più.32

luridi, bisunti e incolori, tenuti su con pezzi di spago, i calzoni tutti filacce e brandelli all'altezza del ginocchio, se ne

stava fermo da una parte con aria compiaciuta mangiando pane e carne. Sembrava abbastanza soddisfatto. Qualche

minuto dopo lo vidi marciare lentamente con gli altri. Era chiaro che nulla gli stava più a cuore.

28 febbraio. Passando di fronte al quartier generale delle truppe della città, non lontano dalla casa del

Presidente, mi sono fermato a parlare con qualcuno dei fuggiaschi che si ammassavano oziosamente là intorno.

Nell'aspetto non differivano da quelli che ho già descritto. Con due di questi, uno sui diciassette, l'altro sui venticinque,

forse ventisei anni, ho chiacchierato per un poco. Erano ambedue nati e cresciuti nella Carolina del Nord, dove avevano

anche le famiglie. Il più grande aveva militato con i secessionisti per quattro anni. Lo avevano arruolato dapprima per

due anni; poi era stato mantenuto arbitrariamente in servizio. Questo è il caso di una gran parte dell'esercito sudista. Nei

modi di questi giovani non c'era alcun segno di svilimento; il più giovane aveva prestato servizio per circa un anno; era

stato arruolato obbligatoriamente; erano sei fratelli nell'esercito (tutti i maschi della famiglia), quale coscritto, quale

volontario; tre erano stati uccisi; un quarto si era imboscato circa quattro mesi prima; ora era toccato a lui: era un

ragazzo simpatico, parlava bene, con quell'accento particolare della Carolina del Nord (per nulla spiacevole ai miei

orecchi). Erano della medesima compagnia, lui e l'altro, erano fuggiti insieme - e desideravano rimanere insieme.

Pensavano di trovare un mezzo di trasporto fino al Missouri, e di lavorare lì; non erano tuttavia sicuri che fosse la cosa

più giudiziosa da farsi. Io gli consigliai di andarsene piuttosto in qualcuno degli Stati più propriamente a Nord e di

trovarsi per il momento un lavoro in qualche fattoria. Il più giovane aveva ricavato, sul battello, sei dollari da un po' di

tabacco che aveva con sé, e gliene restavano tre e mezzo. Il maggiore non ne aveva neanche uno; io gli diedi qualcosa.

Poco dopo ho incontrato John Wormley, del 9° Alabama, un ragazzo cresciuto nel Tennessee occidentale - i genitori

morti tutti e due - aveva l'aria di chi ha vissuto a lungo di razioni ridotte - parlava assai poco - masticava tabacco a una

velocità spaventosa, sputando in proporzione - grandi e limpidi occhi bruni, molto belli - non sapeva che farsene, di me

- alla fine mi disse che desiderava molto avere della biancheria pulita e un paio di pantaloni decenti. Non gli

interessavano pastrani o berretti. Voleva solo lavarsi bene e indossare la sua biancheria. Ebbi il grande piacere di

aiutarlo ad attuare quei sani propositi.

1 marzo. Ancora sciami di fuggiaschi color nocciola o argilla, tutti i giorni. Oggi ne sono arrivati circa 160,

gran parte sono della Carolina del Sud. In genere prestano giuramento di fedeltà e vengono mandati a Nord, o a Ovest, o

nell'estremo Sud-Ovest quando lo desiderano. Molti di loro mi hanno riferito che nell'esercito sudista i casi di uomini

che se ne tornano a casa, permesso o non permesso, sono assai più numerosi delle diserzioni vere e proprie al campo

nemico. Oggi nel tardo pomeriggio ne ho visto un drappello di circa un centinaio, dall'aria molto abbattuta, diretti alla

stazione di Baltimora.

IL CAMPIDOGLIO ALLA LUCE DEI LAMPIONI

Stasera ho passeggiato un poco per il Campidoglio, che è tutto illuminato. La rotonda sotto la luce è molto

bella. Mi piace fermarmi in disparte, alzare lo sguardo alla cupola e contemplarla a lungo: mi dà una specie di conforto.

Il Senato e la Camera sono rimasti in seduta fino a tardi. Ho sbirciato dentro, ma solo per pochi minuti: lavoravano

intensamente intorno a certe leggi sulle tasse e l'appropriazione. Ho girovagato per i lunghi e fastosi corridoi e

appartamenti situati sotto il Senato: vecchia abitudine degli inverni passati, ora più gradita di sempre. Non molte

persone lì attorno - di quando in quando una figura in distanza, subito scomparsa.

L'INAUGURAZIONE

4 marzo. Il Presidente si è recato silenziosamente al Campidoglio con la sua carrozza personale, da solo, al

trotto, verso mezzogiorno, volendo forse trovarsi lì a disposizione per firmare leggi, o piuttosto per evitare di sfilare con

l'assurda processione di oggi, il tempio di mussola della libertà e il monitore di cartapesta. L'ho visto mentre ritornava

alle tre, a cerimonia finita. Viaggiava nel suo semplice calesse a due cavalli, e appariva tirato, stanchissimo: i segni di

enormi responsabilità, di questioni intricate e problemi di vita o di morte incisi più profondamente che mai nel suo volto

bruno - e tuttavia, sotto i solchi, tutta l'antica bontà, la tenerezza, la tristezza, la sapiente abilità che gli sono proprie (non

posso vedere quest'uomo senza avvertire in lui uno di quegli esseri cui ci si attacca in modo personale, per quella sua

combinazione di purissima e generosa tenerezza con il coraggio che è proprio del West). Gli sedeva al fianco il

figlioletto, di dieci anni. Non c'erano soldati, solo un gruppo di borghesi a cavallo intorno al calesse, con grandi

fazzoletti gialli sulle spalle (alla inaugurazione di quattro anni fa, egli era andato e tornato in mezzo a una fitta massa di

cavalleggeri armati, otto per fila, con le sciabole sguainate; e lungo il percorso c'erano tiratori scelti stazionati a ogni

angolo di strada). Ma voglio accennare all'udienza di chiusura di domenica sera. Non s'era mai vista una calca così

compatta di fronte alla Casa Bianca - tutto il parco gremito, fin fuori sugli ampi marciapiedi. C'ero anch'io, m'era venuta

l'idea di andarci - mi trovai dentro, nella ressa, insieme alla folla - dilagai con questa per i corridoi, nella sala Azzurra e.33

nelle altre, fino al salone dell'ala orientale. Masse di gente di campagna, taluni molto buffi. Echi di buona musica

eseguita dalla banda della Marina, in qualche luogo appartato. Vidi il signor Lincoln, vestito interamente di nero, con

guanti bianchi di capretto e abito a code, ricevere la gente come per dovere, e stringer mani con un'espressione

sconsolata in viso come colui che darebbe qualsiasi cosa pur di trovarsi altrove.

ATTEGGIAMENTI DEI GOVERNI STRANIERI DURANTE LA GUERRA

Sfogliando i miei sparsi appunti trovo quanto segue, scritto nel 1864. Ciò che sta accadendo alla nostra

America, all'estero come all'interno, in questi anni, è veramente stranissimo. La repubblica democratica le ha fatto oggi

un terribile e luminoso complimento, il desiderio univoco, cioè, di tutte le nazioni del mondo di vedere infranta la sua

unione, eliminato il suo futuro, ed essa stessa costretta a scendere al livello di qualsiasi altro grande regno o impero.

Non v'è certo oggi in Europa un solo governo che non stia guardando alla guerra in questo paese con l'ardente preghiera

che gli Stati Uniti ne escano divisi, paralizzati e smembrati. Non ve n'è uno solo che, se appena osasse, non

contribuirebbe a questo smembramento. Tale, vi dico, è oggi l'ardente desiderio dei governi di Inghilterra e di Francia e

di tutte le nazioni, o meglio, i governi europei. Credo anzi che esso sia il reale, il sentito desiderio di tutte le nazioni del

mondo, con la sola eccezione del Messico - il Messico, l'unico a cui abbiamo fatto veramente del male, e adesso l'unico

che preghi per noi e il nostro trionfo con preghiera genuina. Non è strano? L'America, fatta di tutti, e che a tutti ha

gioiosamente aperto le braccia fin dall'inizio, - il risultato e la giustificazione di tutti, Inghilterra, Germania, Francia e

Spagna - tutti qui - l'accoglitrice, l'amica, la speranza, l'ultima risorsa e la casa universale di tutti - lei che non ha

nuociuto a nessuno ma è stata generosa con tanti, con milioni, madre di stranieri e di esuli di ogni paese - proprio adesso

doveva, dico, ricevere questo terribile ringraziamento di odio e di paura generale da parte dei vari governi. Siamo forse

indignati? allarmati per questo? ci sentiamo minacciati? No; aiutati, uniti, concentrati, piuttosto. Siamo tutti troppo

propensi a straniarci da noi stessi, a voler impressionare l'Europa, a studiarne cipigli e sorrisi. Questa bruciante lezione

di odio generale ci è anzi necessaria, e d'ora in poi non dovremo mai dimenticarla. Mai più da questo momento ci

fideremo del senso morale e dell'astratta simpatia di un solo governo del vecchio mondo.

CHE LA STAGIONE SIMPATIZZI COI TEMPI?

Se le piogge, il caldo e il freddo e quanto li determina siano influenzati da ciò che colpisce l'uomo in massa e

seguano il giuoco della sua azione appassionata, in una tensione più forte del solito, e su scala più vasta del solito, è

dubbio - ma è indubbio che, in questa parte settentrionale del continente americano, si stanno avendo adesso e si sono

avute in questi ultimi venti mesi se non più, molte e copiose manifestazioni, davvero senza precedenti, del sottile mondo

d'aria che ci sovrasta e circonda. Sin dall'inizio della guerra e della vasta e profonda agitazione nazionale, ecco strane

analogie, combinazioni nuove, il sole ha una luce diversa, o non ne ha affatto, persino dalla terra nascono prodotti

diversi. Dopo ogni grande battaglia, ecco una grande tempesta. E lo stesso per gli eventi civili. Domenica scorsa, una

mattinata come un turbine di demoni, buia, rabbiosa, con raffiche oblique di pioggia; e poi un pomeriggio di una tale

calma, tutto intriso del dilagante splendore del più fantastico sole, da lasciar trasparire le stelle molto, molto prima del

tempo. Quando il Presidente uscì sul portico del Campidoglio, una strana nuvoletta bianca, l'unica in quella parte del

cielo, si librò proprio sopra di lui come un uccello ad ali tese.

Effettivamente i cieli, tutte le potenze metereologiche, si sono abbandonate nelle ultime settimane a eccessi

d'ogni genere. Non avevo mai visto simili capricci, un tal fulmineo alternarsi di corruccio e bellezza. È impressione

generale (specialmente dopo i periodi di intensa calura che hanno differenziato la scorsa estate da qualsiasi altra) che

l'inverno appena finito sia stato senza precedenti; e così si è mantenuto fino ad oggi, fino al momento in cui sto

scrivendo. Le giornate del mese scorso sono state in gran parte cupe, con una pesantezza plumbea, nebbia, intervalli di

freddo pungente e qualche folle uragano. Vi sono stati tuttavia motivi per ben altre descrizioni. La terra e il cielo non

hanno mai conosciuto spettacoli di più superba bellezza di alcune delle ultime notti qui. La stella d'occidente, Venere,

non è mai stata così chiara nelle prime ore della sera; era come se volesse significare qualcosa, come se intrattenesse un

rapporto d'indulgenza con l'umanità, con noi americani. Cinque o sei sere fa era sospesa a fianco della luna, allora

appena uscita dal suo primo quarto. La stella era meravigliosa, la luna come una giovane madre. Il cielo, d'un azzurro

cupo, la notte trasparente, i pianeti, il venticello di ponente, la temperatura elastica, il miracolo di quella grande stella, e

la giovane luna rigonfia che nuotava nel cielo occidentale, mi pervasero l'anima. Poi udii, lente e chiare, le note precise

di una tromba levarsi dal silenzio, così squisite nel mistero della notte, senza fretta, fiduciose e ferme, ora fluttuanti, ora

impennate, ora in agile decrescendo, con a tratti una nota più sostenuta: la brava tromba che suonava il silenzio in uno

degli ospedali militari nelle vicinanze, nei cui lettucci giacevano i feriti (alcuni dei quali a me personalmente cari) e

molti poveri ragazzi precipitati nella guerra dall'Illinois, dal Michigan, dal Wisconsin, dallo Iowa e dalle altre regioni.

IL BALLO DELL'INAUGURAZIONE.34

6 marzo. Sono salito al Palazzo dei Brevetti a dare uno sguardo alla sala da ballo e a quella dei banchetti in

occasione del ballo dell'Inaugurazione; e non potei fare a meno di pensare quanto fosse diversa la scena che esse

avevano esibito ai miei occhi non molto tempo prima, stipate com'erano di masse di feriti, i più gravi di tutta la guerra,

arrivati lì dalla seconda Bull Run, da Antietam e da Fredericksburg. Ma stasera, belle donne, profumi, il dolce suono dei

violini, il valzer e la polka; e allora, l'amputazione, il viso bluastro, il gemito, lo sguardo vitreo del morente, lo straccio

insanguinato, l'odore delle ferite e del sangue, e molti poveri figli perduti tra gente forestiera, che si spegnevano senza

nemmeno un po' di cure (ché grande era la massa dei feriti gravi, e enorme il da fare degli infermieri e dei chirurghi).

UNA SCENA AL CAMPIDOGLIO

Non posso non accennare a una strana scena avvenuta al Campidoglio, Camera dei Rappresentanti, il mattino

di sabato scorso 4 marzo. Il giorno sbiancava appena, ma ancora in una semioscurità in cui le cose apparivano fosche,

pesanti, fradice. In quella luce opaca i membri della Camera, innervositi dal lavoro protratto, apparivano esausti, chi

assopito, chi addormentato del tutto. La luce delle lampade a gas, mista alla sporca luce dell'alba, produceva un effetto

irreale. I poveri valletti che incespicavano insonnoliti, l'odore particolare della sala, i Rappresentanti con la testa

reclinata sui banchi, la voce degli oratori carica di inflessioni insolite - la tipica atmosfera morale, inoltre, alla chiusura

di una seduta importante come questa - la forte speranza che la guerra si stia ormai approssimando alla fine - la sottile

paura che tale speranza possa rivelarsi falsa - la solennità della sala, l'effetto delle grandi ombre slungate in alto verso i

pannelli e gli spazi sopra le gallerie - tutto ciò si fondeva in un insieme affatto particolare.

Nel bel mezzo di tutto questo, con la repentinità di un fulmine, scoppiò una delle più violente e fragorose

tempeste di pioggia e grandine che si siano mai udite. Venne giù come un diluvio sbattendo sul pesante tetto di vetro

dell'aula, il vento ululava e ruggiva nel senso letterale della parola. Per un attimo i Rappresentanti, nervosi e assonnati,

si fecero travolgere dalla confusione. Quelli che sonnecchiavano si destarono per la paura, qualcuno si diresse con un

balzo verso la porta, altri levarono gli occhi al tetto con le guance e le labbra sbiancate, mentre i valletti cominciarono a

piangere; era davvero uno spettacolo. Ma tutto finì non appena quegli uomini inebetiti dalla stanchezza furono

completamente svegli. Si ripresero; la tempesta continuò a infuriare sferzando impetuosa, talora con grande fragore; ma

la Camera procedette con i suoi lavori, esibendo in quel momento tanta calma e deliberazione quanta, credo, mai prima

nella sua carriera. Forse la scossa era stata utile. (Si ha dopotutto l'impressione, trovandosi tra i membri del Congresso

di ambedue le Camere, che se la piatta routine dei lavori fosse bruscamente interrotta da una circostanza grave che

implicasse vero pericolo e richiedesse qualità personali di prim'ordine, codeste qualità non tarderebbero a emergere, e in

uomini che ora non ne sono ritenuti dotati).

UNO YANKEE DI STAMPO ANTICO

27 marzo 1865. Sergente Calvin F. Harlowe, compagnia C 29° Massachusetts, 3a brigata, 9° corpo - un

notevole esempio di eroismo, una splendida morte (c'è chi dice bravata, io dico eroismo, e del più grande, di stampo

antico) - è stato durante l'ultimo attacco delle truppe ribelli contro Forte Steadman e la temporanea caduta di questo,

nottetempo. Il Forte era stato sorpreso nel cuore della notte. Strappati violentemente al sonno e precipitatisi fuori dalle

tende, Harlowe e gli altri si trovarono nelle mani dei secessionisti - gli fu chiesto di arrendersi - rispose, Mai, finché vivo

(era inutile, naturalmente. Gli altri si arresero. C'era troppa disparità). Di nuovo gli dissero di arrendersi, un capitano

questa volta. Perfettamente calmo benché già circondato, egli rifiutò ancora, e prese anzi a esortare vigorosamente i

compagni perché continuassero a combattere, mentre egli stesso vi si provava. Allora il capitano dei ribelli gli sparò

contro ma in quell'attimo egli sparò sul capitano - caddero entrambi feriti a morte. Harlowe spirò quasi all'istante. In

brevissimo tempo i ribelli furono ricacciati. Il corpo di Harlowe fu sepolto il giorno dopo, ma ben presto venne

disseppellito e mandato a casa (contea di Plymouth, Massachusetts).

Harlowe aveva solo 22 anni - era un ragazzo alto, snello, bruno di capelli, occhi azzurri - aveva cominciato a

distinguersi nel 29° Mass., e fu in questo modo che incontrò la morte dopo quattro anni di campagne. Aveva preso parte

alla battaglia dei Sette Giorni di fronte a Richmond, alla seconda Bull Run, a Antietam, alla prima Fredericksburg, a

Vicksburg, Jackson, agli scontri del Deserto e a quelli che seguirono - era il miglior soldato che mai avesse indossato la

giubba azzurra, e ogni ufficiale del suo reggimento potrà testimoniarlo. Benché tanto giovane, e soldato semplice, aveva

uno spirito coraggioso e risoluto al pari di qualsiasi eroe, antico o moderno, di cui si parli nei libri - troppo nobile per

pronunciare le parole Mi arrendo - e per questo morì. (Quando penso a cose simili, che conosco tanto bene, cadono in

secondo piano tutti i vasti e complicati eventi bellici su cui la storia si sofferma e di cui nutre i suoi volumi, e per un

poco almeno io non vedo altro che la figura del giovane Calvin Harlowe ritta nella notte, che sdegnosamente rifiuta la

resa)..35

MALATTIE E FERITE

La guerra è finita, ma gli ospedali sono più pieni che mai, pazienti vecchi e nuovi. In larga percentuale si tratta

di ferite alle braccia e alle gambe. Ma ve n'è di ogni genere, per ogni parte del corpo. Da quanto ho potuto osservare,

direi che le malattie prevalenti sono la febbre tifoidea e le febbri da campo in genere, come diarrea, affezioni catarrali e

bronchiali, reumatismi e polmonite. Queste sono le forme di malattia che predominano; tutte le altre seguono. Il numero

dei malati è doppio di quello dei feriti. Tra i pazienti sotto cura, la mortalità va dal sette al dieci per cento.*

* Nell'Ufficio Generale dei medici militari, i casi formalmente registrati di feriti trattati da medici governativi

sono 253.142. Ma quale sarà il numero non ufficiale, indiretto - per non parlare degli eserciti sudisti? (N.d.A.).

MORTE DEL PRESIDENTE LINCOLN

16 aprile 1865. Tra i miei appunti di quel periodo trovo queste righe sulla morte di Abramo Lincoln: Alla

storia e alla biografia americana egli lascia non solo il ricordo più drammatico, sino ad oggi - ma lascia a mio avviso la

più nobile, la migliore, la più caratteristica personalità artistica e morale. Non che non avesse difetti (e li mostrò durante

la Presidenza); ma onestà, bontà, abilità, coscienza e (virtù nuova questa, sconosciuta ad altre nazioni e ancora malnota

qui, e tuttavia fondamento e legame di ogni altra, come grandiosamente rivelerà il futuro) unionismo, nel senso più vero

e ampio della parola, formavano il nucleo del suo carattere. Queste virtù egli suggellò con la vita. Il tragico splendore

della sua morte, purgando e illuminando tutto il resto, disegna intorno alla sua figura, al suo capo, una aureola che

durerà e si farà più fulgida col tempo, finché viva la storia e duri l'amor di patria. Molti hanno collaborato a questa

Unione; ma se deve scegliersi un solo nome, un solo uomo, egli più di qualsiasi altro ne sarà il depositario presso il

futuro. È stato assassinato - ma l'Unione non è assassinata - ça ira! Il primo cade, il secondo cade - il soldato crolla a

terra, è inghiottito come un'onda - ma le file oceaniche eternamente incalzano. La morte compie il suo lavoro, ne

oblitera cento, mille - presidente, generale, capitano, soldato semplice - ma la Nazione è immortale.

IL GIUBILO DELL'ARMATA DI SHERMAN, E COME FU SUBITO SPENTO

Durante la marcia delle armate di Sherman attraverso la Carolina del Sud e del Nord, parecchio dopo aver

lasciata Atlanta, non fu percorso un miglio senza che da una parte o dall'altra delle linee (le nuove della capitolazione di

Lee erano giunte passata Savannah) si levassero continue, entusiastiche grida. La musica selvaggia di queste tipiche

grida soldatesche risuonò, a intervalli, per tutto il giorno. Partivano da un reggimento o da una brigata e venivano

immediatamente riprese da altri, sicché alla fine erano interi corpi di battaglioni a prender parte a quei selvaggi cori di

trionfo.

Era, questa, una caratteristica espressione delle truppe dell'Ovest, e divenne in breve un'abitudine che per i

soldati significava sollievo e sfogo - effusione di sentimenti di vittoria, ritorno alla pace, ecc. Al mattino, a

mezzogiorno, nel pomeriggio, con o senza un motivo, spontaneamente, queste immense grida, diverse da qualsiasi altra,

la cui eco si spargeva nell'aria libera per molte miglia, e in cui si esprimevano giovinezza, gioia, ebbrezza, forza

irreprimibile e idee di avanzata e conquista, risuonavano per le paludi e le alture del Sud, invadendo il cielo. ("Non si

sono mai visti uomini che mantenessero uno spirito migliore nel pericolo o nella sconfitta, - mi disse in seguito uno del

15° corpo. - Che cosa dunque non dovevano fare nella vittoria?"). Questa esuberanza continuò finché le truppe

arrivarono a Raleigh. Qui si seppe la notizia dell'assassinio del Presidente. Allora non più grida né urli, per una

settimana. La marcia ne risultò come soffocata. E fu molto significativo - a malapena una parola ad alta voce, o una

risata, in molti reggimenti. Ovunque uno zittìo, un silenzio.

NESSUN BUON RITRATTO DI LINCOLN

Al lettore sarà capitato di vedere certe fisionomie (spesso vecchi contadini, lupi di mare e tipi simili) che sotto

la loro semplicità o magari bruttezza celano dei tratti più nobili, così sottili e un tempo così palpabili, che rendono

pressocché impossibile dipingere la vita reale di quei volti non più che un aroma selvatico, il sapore di un frutto o il

tono appassionato di una viva voce. Tale era il volto di Lincoln, con quel colore particolare' quei solchi, quegli occhi, la

bocca, l'espressione. Bellezza, in senso tecnico, non ne aveva - ma all'occhio di un grande artista offriva un raro studio,

diletto e fascino. I ritratti che ne abbiamo sono tutti fallimenti - la maggior parte anzi caricature..36

PRIGIONIERI UNIONISTI DI RITORNO DAL SUD

I prigionieri di guerra che sono stati rilasciati stanno ora arrivando dalle prigioni del Sud. Ne ho veduti

parecchi. È uno spettacolo peggiore di qualsiasi campo di battaglia, di qualsiasi assembramento di feriti, anche il più

sanguinoso. Ve n'è stato (per citare un esempio) un grande carico di diverse centinaia, arrivati in battello a Annapolis

intorno al 25; ebbene, solo tre, di tutta quella massa, furono in grado di scendere da soli dal battello. Gli altri furono

trasportati a riva e sistemati a terra in un posto o nell'altro. Saranno uomini costoro - questi nani d'un color bruno livido,

sporchi di cenere, simili a scimmie? - o non saranno in realtà cadaveri raggrinziti, mummificati? Stanno qui distesi,

calmi per lo più, ma con una luce di orrore negli occhi, le labbra ridotte a pelle (spesso senza neanche carne abbastanza

per coprire i denti). Forse sulla terra non si è mai visto nulla di più orrendo. Esistono azioni, crimini, che si possono

dimenticare: ma non questo. Questo sprofonda coloro che l'hanno perpetrato, nella dannazione più nera, senza speranza

e senza fine. Più di 50.000 sono stati costretti alla morte per fame - (hai mai provato, lettore, a immaginarti cosa sia

veramente la fame? - in quelle prigioni - e in una terra d'abbondanza). Indescrivibile bassezza, tirannia, con l'aggravante

di offese quotidiane quasi incredibili - questa è stata evidentemente la norma in tutte le prigioni militari del Sud. Non

tanto i morti saranno da commiserare, quanto alcuni dei vivi che ne sono usciti - se pure puoi chiamarli vivi - molti di

loro mentalmente deficienti, né si riprenderanno mai più.*

* Da una recensione del volume Andersonville. Storia delle prigioni militari del Sud, apparso in un primo

momento a puntate, nel 1879, ne "La lama di Toledo" (N.d.A.):

"C'è un fascino profondo nel tema "Andersonville" - poiché quel Golgota in cui giacciono le biancheggianti

ossa di 13.000 gagliardi giovani, rappresenta il più caro, il più costoso sacrificio della guerra per la preservazione della

nostra unità nazionale; ed è anche un prototipo della sua specie. Le ecatombi ivi avvenute, più di un centinaio,

rappresentano, se moltiplicate in proporzione, quelle di tutti gli altri fratelli per i quali le prigioni di Belle Isle, Danville,

Salisbury, Florence, Columbia e Cahaba hanno aperto i cancelli dell'eternità. Vi sono poche famiglie nel Nord che non

abbiano almeno un congiunto o un amico tra quei 60.000 la cui triste sorte fu di chiudere il servizio per l'Unione

languendo e morendo per essa in uno dei recinti per prigionieri del Sud. Il modo della loro morte, gli orrori che

affollarono ogni minuto della loro esistenza, la fedele e incrollabile fermezza con cui essi sopportavano quel che il fato

aveva loro offerto, tutto ciò non è mai stato adeguatamente descritto. Non fu come per i loro compagni di campo, le cui

azioni si svolsero tutte alla presenza di coloro che avevano appunto come compito quello di osservarle e riferirle al

mondo. Celati com'erano allo sguardo dei loro amici del Nord dall'impenetrabile velario che le operazioni militari dei

ribelli tiravano attorno alla cosiddetta Confederazione, la gente seppe poco o nulla del loro modo di vivere e delle loro

sofferenze. In quei recinti ne morirono migliaia, seguiti con assai minore attenzione che non le centinaia che perivano

sui campi di battaglia. Grant non lasciò tanti uomini sul campo nella terribile campagna del Deserto al fiume James - 43

giorni di lotta disperata - quanti ne perirono tra luglio e agosto a Andersonville. E dal giorno in cui Grant passò il

Rapidan fino a quando mise le trincee di fronte a Petersburg, ne morì quasi il doppio. Morti dell'Unione giacciono sotto

il solenne mormorio dei pini intorno a quel dimenticato villaggio della Georgia del Sud in numero quattro volte

maggiore, se non più, di quelli che punteggiano il percorso di Sherman da Chattanooga a Atlanta. La nazione guarda

atterrita allo spreco di vite umane che accompagnò le due cruente campagne del '64 da cui la Confederazione uscì

praticamente frantumata, ma nessuno ricorda che dietro le linee sudiste perirono più soldati dell'Unione di quanti ne

vennero uccisi di fronte a quelle linee. I grandi eventi militari che spazzarono via la rivolta finirono per distogliere

l'attenzione dal triste dramma che la fame e la malattia andavano rappresentando in quei cupi recinti, nei più remoti

recessi delle oscure foreste del Sud".

* Da una lettera di Johnny Bouquet, nel "N. Y. Tribune" del 27 marzo 1881:

"A Salisbury, Carolina del Nord, ho visitato il recinto dei prigionieri; o meglio l'area da cui erano state avviate

alla sepoltura circa 12.000 vittime della politica sudista, rimaste confina" te entro uno steccato senza ripari di sorta

esposte a tutti i capricci degli elementi, a tutte le malattie che possono scoppiare ammassando delle bestie una sull'altra,

a tutte le forme di crudeltà e di fame che un governo incompetente e profondamente vigliacco riesce a mettere in opera.

Questo luogo è ormai decaduto dalla conversazione e forse anche dal ricordo della gente del Nord, ma non certo dai

discorsi della popolazione di Salisbury, quasi tutta concorde nel sostenere che una buona metà dei fatti non è mai stata

raccontata; e che la natura degli oltraggi inflitti qui era tale che quando qualcuno dei prigionieri federali riusciva a

fuggire, la gente del luogo dava loro rifugio nei granai, temendo che la vendetta divina sarebbe ricaduta su di loro se

avessero restituito degli esseri viventi, anche se nemici a simili crudeltà. Diceva un vecchio che era entrato nella

conversazione alla Boyden House: "Spesso fuori di quel recinto si seppellivano uomini ancora vivi. Ho la testimonianza

di un medico che li vide tirar fuori dalla carretta dei morti con gli occhi aperti, coscienti ma troppo deboli per alzare un

dito. Non esisteva la minima giustificazione per un comportamento del genere, dal momento che la Confederazione si

era impadronita di tutte le segherie della regione e poteva benissimo metter su dei ripari per i prigionieri, data la grande

abbondanza di legno da queste parti. Sarà comunque difficile sentire un qualsiasi onest'uomo di Salisbury sostenere che

vi fosse la benché minima necessità di far vivere quei prigionieri in vecchie tende, in caverne o buche semipiene

d'acqua. Furon fatte anche delle rimostranze al governo Davis contro gli ufficiali in carica, ma non vennero neanche.37

prese in considerazione. Lì la crudeltà era punita con la promozione. I detenuti erano scheletri. L'inferno non aveva

terrori per chi moriva qui, se non per gli inumani padroni del campo". (N.d.A.).

MORTE DI UN SOLDATO DELLA PENNSYLVANIA

Frank H. Irwin, compagnia E, 93° Penn. - morto il 1° maggio '65 - Lettera da me scritta alla madre. Cara

signora: senza dubbio voi e gli amici di Frank avrete già appresa la triste nuova della sua morte, avvenuta qui in

ospedale, dallo zio o dalla signora di Baltimora che si è incaricata dei suoi effetti personali (io non ho conosciuto né

l'uno né l'altra, sapevo solo che venivano a visitare Frank). Vi scriverò poche righe - nella mia veste di amico casuale

che gli è stato accanto sul letto di morte. Vostro figlio, il caporale Frank H. Irwin, fu ferito presso il Forte Fisher,

Virginia, il 25 marzo 1865 - la ferita era al ginocchio sinistro, piuttosto brutta. Fu portato a Washington, e ricoverato nel

padiglione C dell'Ospedale dell'Armeria il 28 marzo - la ferita peggiorò e il 4 aprile gli fu amputata la gamba un po'

sopra il ginocchio - l'operazione fu eseguita dal Dr. Bliss, uno dei migliori chirurghi dell'esercito - fece tutto con le sue

mani - c'era un brutto grumo di pus - la pallottola fu trovata nel ginocchio. Per un paio di settimane sembrò che le cose

andassero benino. Andavo spesso a visitarlo e gli restavo vicino, dacché egli amava avermi con sé. Gli ultimi dieci o

dodici giorni di aprile mi accorsi che la situazione era critica. Precedentemente aveva avuto febbri accompagnate da

freddo. Passò l'ultima settimana di aprile per lo più in delirio - ma pur sempre mansueto e gentile. Morì il primo

maggio. Causa determinante della sua morte fu la piemia, (l'assorbimento cioè del pus nell'organismo in luogo dello

spurgo). Frank, a quel che ho potuto vedere, ha avuto tutto il necessario, come trattamento chirurgico, assistenza, ecc.

C'era sempre chi lo vegliava, la maggior parte del tempo. Era così buono, beneducato e affettuoso, che anch'io non potei

non amarlo intensamente. Avevo l'abitudine di andarci nel pomeriggio, e sedermi accanto a lui, cercando di

rasserenarlo, e a lui faceva molto piacere - gli piaceva tirar fuori il braccio e posare la mano sul mio ginocchio - la

teneva così a lungo. Verso la fine, la notte cominciò a farsi più smanioso, delirava - spesso si credeva ancora nel suo

reggimento - dal modo di parlare a volte sembrava che fosse offeso nei suoi sentimenti da un rimprovero degli ufficiali

per qualcosa di cui era affatto innocente - diceva, "Mai in vita mia mi si è creduto capace di una cosa simile, né lo sono

mai stato!". Altre volte fantasticava di star parlando a dei bambini, pareva, o qualcosa del genere, suoi congiunti credo,

e dava buoni consigli, e chiacchierava con loro a lungo. Per tutto il tempo in cui rimase fuori di senno, mai gli sfuggì

una brutta parola o una sola idea cattiva. Qualcuno ebbe a notare che uomini in pieno possesso delle loro facoltà non

mostravano, nei loro discorsi, metà del senno di Frank nel delirio. Sembrava ormai disposto a morire - era assai

indebolito, povero ragazzo. Io non conosco la sua vita passata; ma sento che deve essere stata una vita onesta. In ogni

caso, per come l'ho conosciuto qui, nelle circostanze più dure, con una ferita dolorosa e tra gente ignota, posso ben dire

che si è comportato in modo davvero superiore, sempre così coraggioso e composto, così dolce e affettuoso. E ora come

tanti altri uomini nobili e onesti, dopo aver servito da soldato il suo paese, egli ha ceduto la sua giovane vita proprio

quando cominciava a sbocciare. Queste sono cose di grande tristezza - pure vi è un passo nelle scritture, "Dio fa bene

ogni cosa", il cui significato più tardi si svelerà all'anima.

Ho pensato che forse poche parole su vostro figlio, anche se da parte di uno sconosciuto, qualcuno che è stato

con lui nei suoi ultimi istanti, avrebbero potuto servire a qualcosa -perché io ho amato questo ragazzo, sebbene l'abbia

conosciuto solo per perderlo. Sono semplicemente un amico che di tanto in tanto visita gli ospedali per portare conforto

a feriti e malati.

W.W.

LE TRUPPE RITORNANO

7 maggio. Domenica. Oggi mentre camminavo, circa un miglio o due a sud di Alexandria, mi sono imbattuto

in parecchi grossi squadroni dell'armata del West (uomini di Sherman, si fanno chiamare), in tutto circa un migliaio di

soldati, per lo più malaticci o convalescenti, diretti a un ospedale da campo. Codesti scaglioni frammentari che si

snodavano lentamente - le inconfondibili fisionomie e i tipici dialetti del West - questi uomini sbattuti quaggiù, fuori

latitudine, per così dire, dopo una grande campagna - m'incuriosirono, e mi misi a chiacchierare con loro, con qualche

interruzione, per più di un'ora. Qualcuno era molto malato; ma tutti potevano camminare, eccetto forse certi nelle ultime

file, che avevano ceduto e se ne stavan seduti per terra, spossati e avviliti. A questi io mi rivolsi, cercando di

incoraggiarli, gli dicevo che il campo dov'erano diretti era appena un poco più su sulla collina, e così riuscii a farli

alzare e riprendere il cammino, accompagnando bensì per un tratto di strada quelli in condizioni peggiori, aiutandoli io

stesso o affidandoli a qualche camerata più forte per sostegno.

21 maggio. Visto oggi il generale Sheridan con il suo corpo di cavalleggeri - uno spettacolo forte e attraente.

Erano in gran parte giovani (pochissimi di mezza età), ragazzi superbi, abbronzati, asciutti, tesi, con gli abiti logori,

parecchi con pezzi di impermeabile che pendevano dalle spalle. Sfilarono a passo sostenuto, in lunghe file serrate, tutti

schizzati di fango, una brigata dopo l'altra, certo non soldatini da giuoco. Sarei rimasto a guardarli per una settimana..38

Sheridan stava in piedi su un balcone, sotto un grosso albero, fumando freddamente un sigaro. La sua figura e i suoi

modi mi impressionarono favorevolmente.

22 maggio. Passeggiata per Penusylvania Avenue e il tratto nord della Settima strada. La città è piena di soldati che

corrono da tutte le parti. Ovunque ufficiali, d'ogni grado. Tutti con quell'aria logorata dalla vita all'aperto, tipica di chi è

in servizio attivo. È uno spettacolo di cui non mi stanco mai. Tutte le truppe (o gran parte di esse) sono ormai qui, per la

parata di domani. Le vedi sciamare per ogni dove, come api.

LA GRANDE PARATA

Da due giorni ormai gli ampi tratti di Pennsylvania Avenue fino a Treasury Hill e, seguendo la curva, intorno

alla casa del Presidente e poi su fino a Georgetown e al ponte dell'acquedotto, sono ravvivati da un magnifico

spettacolo, il ritorno delle truppe. Per due giorni interi resto qui a guardarli mentre passano a piedi o a cavallo con le

grandi file che si snodano nitide per il viale, a passo sostenuto -fanteria, cavalleria, artiglieria, - qualcosa come 200.000

uomini. Qualche giorno dopo, un altro corpo d'armata, due; e ancora più tardi una gran parte dell'immensa armata di

Sherman, risalita da Charleston, Savannah, ecc.

SOLDATI DEL WEST

26-27 maggio. Le strade, gli edifici pubblici e i parchi di Washington brulicano ancora di soldati dell'Illinois,

dell'Indiana, dell'Ohio, del Missouri, dello Iowa e di tutti gli Stati del West. Continuo a incontrarne, a parlare con loro.

Spesso sono loro a parlarmi per primi, e sembrano sempre assai socievoli, felici di fare una bella chiacchierata. Questi

soldati del West sono in genere più lenti degli altri, nei movimenti e anche intellettualmente: non hanno alcuna vivacità

che possa dirsi spiccata. Sono di struttura più massiccia ed hanno una fisionomia più seria, vi guardano sempre quando

passano per la strada. Sono esseri prevalentemente animali, ma in modo bello. Durante la guerra mi sono trovato varie

volte con il 14° corpo, il 15°, il 17° e il 20°. Mi sento sempre attratto da questi uomini, e mi piace il loro contatto

personale quando ci si trova raggruppati insieme, come accade sovente in questi giorni nelle carrozze pubbliche. Del

generale Sherman pensano tutti un gran bene, lo chiamano "vecchio Bill" e talvolta "zio Billy".

OPINIONE DI UN SOLDATO SU A. LINCOLN

28 maggio. Oggi in ospedale, mentre vegliavo un soldato malato, del Michigan, un convalescente si alzò dal

letto accanto, si avvicinò, e cominciammo subito a conversare. Era un uomo di mezza età; apparteneva al 2° reggimento

della Virginia ma viveva a Racine, Ohio, dove aveva famiglia. Parlando del Presidente Lincoln disse: "La guerra è

finita, molti sono scomparsi; e ora abbiamo perduto anche il più onesto, il più gentile, il più leale uomo d'America.

Prendetelo nell'insieme, era l'uomo migliore che questo paese abbia mai prodotto. Per un po' la mia opinione è stata

assai diversa; ma qualche tempo prima dell'assassinio, cominciai a pensarla proprio così". C'era, in questo soldato, una

grande serietà (scoprii poi, continuando a parlare, che aveva conosciuto il signor Lincoln di persona, e piuttosto bene,

anni prima). Era un veterano, questo era il suo quinto anno di servizio; cavalleggere, aveva preso parte a un gran

numero di battaglie assai dure.

DUE FRATELLI, UNO DEL SUD L'ALTRO DEL NORD

28-29 maggio. Sono rimasto a lungo stasera al capezzale di un nuovo paziente, un giovane di Baltimora sui 19

anni, W. S. P. (2° Maryland, sudista) - debolissimo, gamba destra amputata, non riesce quasi a dormire - ha preso

grandi dosi di morfina, che come sempre si dimostra più costosa che efficace. Evidentemente molto intelligente e bene

educato - affettuosissimo - si teneva attaccato alla mia mano, se l'accostava al viso, non voleva lasciarmi andare. Io

indugiavo, confortandolo nella sua sofferenza, quand'egli a un tratto mi dice, "Non posso credere che voi sappiate chi

sono io - né vi voglio ingannare - sono un soldato ribelle". Risposi che non lo sapevo, ma che non faceva alcuna

differenza. Nelle visite quotidiane che gli feci dopo d'allora per circa due settimane, finché visse (ché la morte lo aveva

segnato, ed era molto solo) imparai ad amarlteneramente, lo baciavo sempre, ed egli baciava me. In un padiglione

vicino trovai suo fratello - ufficiale di alto grado, combattente dell'Unione, uomo religioso e di grande coraggio

(colonnello K. Prentiss, 6° fanteria Maryland, 6° corpo, ferito il 2 aprile in uno degli scontri di Petersburg - tirò avanti

per un poco, soffrì molto, morì a Brooklyn il 20 agosto '65). Erano rimasti colpiti ambedue nella stessa battaglia. Uno.39

era unionista convinto, l'altro secessionista; ognuno combatté per la sua parte - feriti ambedue gravemente - riuniti qui

dopo una separazione di quattro anni. Morirono ciascuno per la propria causa.

ANCORA QUALCHE CASO TRISTE

31 maggio. James H. Williams, 21 anni, 3° cavalleria Virginia - il caso più notevole da me osservato di uomo

robusto messo a terra da complicazioni di malattie (laringite, febbre, astenia e diarrea) - ha un fisico superbo, il colorito

è rimasto bruno, ma arrossato e acceso dalla febbre - è in preda al delirio - la carne del gran petto e delle grandi braccia

percorsa da tremiti, il polso che galoppa a una velocità tripla del normale-è immerso la più gran parte del tempo in una

parvenza di sonno, ma con borbottii sordi e gemiti - un sonno senza riposo. Per quanto di fisico poderoso e così

giovane, non sarà certo in grado di sopportare per molti giorni ancora lo sforzo e la temperatura divorante di ieri e oggi.

La gola è mal ridotta, la lingua e le labbra riarse. Quando gli chiedo come si senta, riesce appena ad articolare un

"sempre maluccio, vecchio mio", e mi guarda coi grandi occhi lucidi. Il padre è John Williams di Millensport, Ohio.

9-10 giugno. Sono rimasto stasera fino a tardi al capezzale di un capitano ferito, mio caro amico, ricoverato in

uno di questi ospedali con una dolorosa frattura alla gamba sinistra, in un padiglione parzialmente vuoto. Le luci erano

tutte spente, eccetto una piccola candela, lontana da noi. La luna piena entrava dalle finestre proiettando sul pavimento

oblique chiazze d'argento. Tutto era immobile, anche il mio amico, silenzioso benché non potesse dormire; e io stavo lì

seduto accanto a lui, muovendo lentamente il ventaglio, preso dalle meditazioni cui la scena invitava, il lungo

padiglione pieno d'ombre, la bella e spettrale luce della luna sul pavimento, il candore dei letti, e qua e là la forma

confusa di qualche paziente, le coperte gettate da un canto. Dopo le riviste militari dei giorni scorsi gli ospedali ospitano

parecchi casi di insolazione e astenia da calore, molti del 6° corpo, a seguito della parata nel gran caldo dell'altro ieri

(queste manifestazioni costano talora la vita a decine e decine di uomini).

10 settembre, domenica. Visitati gli ospedali Douglas e Stanton. Sono gremiti. Molti casi gravi, ferite che non

voglion risolversi, vecchie malattie. Si nota più disperazione del solito nei visi di molti: la speranza li ha abbandonati.

Sono passato da un padiglione all'altro, chiacchierando come sempre. Vi sono molti ricoverati provenienti dall'esercito

secessionista, che ho già visti in altri ospedali, e mi hanno riconosciuto. Due di questi erano ormai prossimi a morire.

IL VERO MONUMENTO A CALHOUN

Oggi mentre ero intento a bendare una nuova amputazione, in una delle tende riservate ai casi speciali, ho udito

due soldati che si parlavano da un lettino all'altro. Uno, prostrato dalla febbre ma già in via di miglioramento, era stato

trasferito qui da poco, da Charleston; l'altro era quello che ora si usa definire "un vecchio veterano" (vale a dire, era un

giovanotto del Connecticut, probabilmente sotto i venticinque, ma che aveva trascorso gli ultimi quattro anni in servizio

attivo di guerra in ogni parte del paese). I due chiacchieravano del più e del meno. Il soldato con la febbre parlava del

monumento a .Tohn C. Calhoun, descrivendolo (lo aveva visto). Allora il veterano disse "Anch'io ho visto il

monumento a Calhoun. Quello che hai visto tu non è il vero monumento. Ma io l'ho visto. Ed è il Sud, nella sua

desolazione e rovina un'intera generazione di giovani dai diciassette ai trent'anni quasi completamente distrutta o

storpiata; le vecchie famiglie insultate - i ricchi impoveriti, le piantagioni coperte d'erbacce, gli schiavi lasciati liberi e

divenuti i padroni, e il nome "sudista" insozzato d'ogni infamia - questo è il vero monumento a Calhoun".

GLI OSPEDALI CHIUDONO

3 ottobre. Ormai rimangono solo due ospedali militari. Mi sono recato oggi nel più grande di questi (il

Douglas), vi ho trascorso il pomeriggio e la serata. Vi si trovano molti casi tristi, ferite di vecchia data, malattie

incurabili, e alcuni feriti degli scontri di marzo e aprile di fronte a Richmond. Pochi si rendono conto di quanto aspre e

sanguinose siano state queste battaglie di chiusura: i nostri si esposero più del solito, continuando a incalzare anche

senza vera necessità. Allora i sudisti lottarono con una disperazione straordinaria. Ambo le parti sapevano bene che una

volta cacciata da Richmond la cricca dei ribelli, e occupata la città dalle truppe federali, il giuoco avrebbe avuto fine. I

morti e i feriti furono insolitamente numerosi. Gli ultimi gruppetti di feriti sono stati portati qui in ospedale. Trovo molti

ribelli, e oggi mi sono dato molto da fare per prendermi cura, insieme agli altri, dei più gravi fra questi.

Domeniche di ottobre, novembre e dicembre. In questi mesi mi sono recato ogni domenica in visita all'ospedale

Harewood, situato fuori città, tra i boschi - un luogo piacevole e appartato, un due o tre miglia a nord della collina del

Campidoglio. La posizione è salubre, e il terreno intorno assai ineguale, pendii erbosi e boschetti di querce dai grandi.40

alberi, belli a vedersi. Questo era uno degli ospedali più capaci, ora ridotto a quattro o cinque padiglioni occupati solo in

parte, vuoti tutti gli altri, che sono un buon numero. A novembre, era l'unico tenuto aperto dal governo - tutti gli altri

chiusi. Qui trovate le ferite peggiori, incurabili, malattie ostinate, e poveri ragazzi che non hanno una casa dove andare.

10 dic., domenica. Di nuovo una giornata dedicata in gran parte a Harewood. Manca circa un'ora al tramonto,

mentre scrivo. Ho camminato per qualche minuto fino al margine del bosco per trovare conforto nel paesaggio e

nell'ora. È un pomeriggio immobile, glorioso, tiepido, dorato dal sole. Unico rumore un gracchiar di cornacchie

aggruppate su qualche albero a un trecento iarde di distanza. Sciami di moscerini che nuotano e danzano nell'aria in

ogni direzione. Il fogliame delle querce è fitto sotto i tronchi nudi, e manda un aspro, delizioso profumo. All'interno dei

padiglioni tutto è cupo. Vi abita la morte. Me la sono trovata subito dinanzi, appena entrato: il cadavere di un povero

soldato, morto di febbre tifoidea. Gli inservienti ne avevano appena disteso le membra e coperto gli occhi con monete di

rame, e ora lo stavano portando fuori.

Le strade. Motivi di grande distrazione durante i tre anni passati sono state le lunghe passeggiate fuori

Washington - cinque, sette, anche dieci miglia di cammino, più il ritorno; in genere insieme al mio amico Peter Doyle,

che ama queste cose come me. Belle notti di luna, sulle perfette strade militari, solide e levigate - o qualche domenica -

passeggiate deliziose, da non dimenticare mai più. Le strade che collegano Washington con i numerosi forti sparsi

intorno alla città, nate dalla guerra, hanno avuto se non altro almeno un uso positivo.

SOLDATI ESEMPLARI

Anche a considerare solo quei soldati esemplari con cui ho avuto rapporti personali d'amicizia, credo che se

dovessi compilarne una lista ne sortirebbe qualcosa di simile a un elenco municipale. Solo un numero esiguo è stato

ricordato nelle pagine precedenti - i più sono morti - qualcuno vive ancora. C'è Reuben Farwell del Michigan (little

Mitch); Benton H. Wilson, portabandiera, 185° New York; Wm. Stransberry, Manwill Winterstein, Ohio; Bethuel

Smith; il capitano Simms, del 51° New York (ucciso dalle mine di Petersburgh); capitano Sam. Pooley e tenente

Frederic Mc Ready, stesso reggimento. Nello stesso anche mio fratello George W. Whitman - in servizio attivo per tutti

i quattro anni, riarruolatosi due volte - promosso (sovente subito dopo una battaglia) gradualmente a tenente, capitano,

maggiore e tenente colonnello - prese parte alle azioni di Roanoke, Newbern, 2a Bull Run, Chantilly, South Mountain,

Antietam, Fredericksburg, Vicksburg, Jackson, ai sanguinosi scontri del Deserto, Spottsylvania, Cold Harbor, e, più

tardi, agli scontri attorno Petersburg; in uno di questi ultimi fu fatto prigioniero, e trascorse quattro o cinque mesi nelle

prigioni militari sudiste, riuscendone a malapena vivo dopo una violenta febbre, e la fame e il freddo che v'aveva

sofferto, seminudo, nell'inverno. (Che storia ha avuto quel 51° New York! Tra i primi a partire - marciando e

combattendo ovunque - si trovò in mare, tra le tempeste, rischiando il naufragio - all'assalto di forti - batté in lungo e in

largo la Virginia, di giorno e di notte, nell'estate '62 - poi il Kentucky e il Mississippi - quindi secondo arruolamento - e

tutte le azioni e le campagne menzionate prima). Io trovo forza e conforto nella certezza che la capacità di produrre

reggimenti come questo (ma centinaia, migliaia) è inesauribile negli Stati Uniti, e che in tutta la repubblica non esiste

una sola contea o giurisdizione cittadina - né una sola strada, in qualsiasi città - che non possa e all'occasione non voglia

tirar fuori un numero infinito di codesti soldati esemplari, se solo ve ne fosse bisogno.

«CONVULSIONE»

Riguardando le bozze delle pagine precedenti, ho provato una o due volte il timore che il mio diario non si

riducesse, nel migliore dei casi, che a una infornata di reminiscenze redatte in modo convulso. Ebbene, sia pur così.

Anch'esse non sono che particole della disperazione, del clima arroventato, del fumo e dell'eccitazione di quei giorni. La

guerra stessa d'altronde, e lo stato d'animo che la precedette nell'opinione pubblica, non potrebbero descriversi meglio

che con quella parola, convulsione.

TRE ANNI: RICAPITOLAZIONE

Durante questi tre anni negli ospedali, negli attendamenti o sui campi di battaglia, ho compiuto più di seicento

visite o giri, e penso di aver assistito, calcolando tutto, dagli ottanta ai centomila tra malati e feriti, passando tra loro in

veste per così dire di consolatore dello spirito e del corpo, nel momento di maggior bisogno. Tali visite variavano da

un'ora o due a un intero giorno o nottata; ero solito infatti vegliare tutta la notte quando c'era un caso a me caro o

particolarmente critico. Qualche volta finivo per stabilirmi direttamente in ospedale, e lì dormivo o vegliavo per

parecchie notti di seguito. Quei tre anni (malgrado tutte le eccitazioni febbrili, le privazioni fisiche e i pietosi spettacoli).41

io li considero come il più gran privilegio, la maggior soddisfazione e, naturalmente, la lezione più profonda della mia

vita. Posso dire che, nella mia opera di assistenza, furono compresi tutti, chiunque si trovasse sulla mia via, del Nord o

del Sud, e che nessuno fu escluso. Tutto ciò ha risvegliato, portato alla superficie e chiarito impensate profondità di

emozioni. Mi ha fornito le più fervide immagini del vero ensemble e della reale portata degli Stati. Mentre mi dedicavo

a malati e feriti (e son stati migliaia di casi) del New England, New York, New Jersey e Pennsylvania, o del Michigan,

Wisconsin, Ohio, Indiana, Illinois e di tutti gli Stati dell'Ovest, mi son trovato più o meno con gente di tutti gli Stati,

Nord e Sud, senza eccezioni. Fui anche con molti che venivano dagli Stati di confine, soprattutto Maryland e Virginia, e

in quei cupi anni 1862 e '63 scoprii nelle file dell'Unione molta più gente del Sud, specialmente Tennessiani, di quanto

generalmente non si creda. Ho trovato tra i nostri feriti molti ufficiali e soldati secessionisti, e ho sempre dato loro tutto

ciò che avevo, e cercato di confortarli, proprio come tutti gli altri. Ho anche passato parecchio tempo con i carrettieri

dell'esercito, e in verità mi sono sempre sentito attratto verso di loro. Anche dai soldati di colore, malati o feriti, o nei

campi dei profughi, mi recai sempre ogni qualvolta mi trovavo nelle vicinanze, e sempre feci per loro quanto potevo.

RICAPITOLAZIONE ANCHE DEL MILIONE DI MORTI

I morti di questa guerra - eccoli, disseminati sui campi e i boschi e le vallate e i campi di battaglia del Sud - la

Virginia, la Penisola - la collina di Malvern e Fair Oaks - le rive del Chickahominy - le terrazze di Fredericksburg: - il

ponte di Antietam - i sinistri dirupi del Manassas-la sanguinosa passeggiata del Deserto - la moltitudine di morti

introvabili (il bollettino del Ministero della Guerra dà 25.000 soldati federali uccisi in battaglia e mai sepolti, 5.000

annegati -15.000 inumati da estranei, o durante le marce, frettolosamente, in località rimaste ignote - 2.000 tombe

sepolte sotto la sabbia e il fango dalle piene del Mississippi -3.000 spazzati via da argini franati, ecc.) - Gettysburg,

l'Ovest, il Sudovest - Vicksburg - Chettanooga - le trincee di Petersburg - il raccolto mietuto da quei possenti mietitori

che sono il tifo, la dissenteria, le infiammazioni-e, più nere e più infami di tutto il resto, le fosse dei morti e dei vivi, i

campi di Andersonville, Salisbury, Belle Isle, ecc. (nemmeno l'inferno descritto da Dante, con tutte le sue sofferenze, le

sue degradazioni e sozzi tormenti, supera queste prigioni) - i morti, i morti, i morti, i morti - i nostri morti - nostri tutti,

del Sud o del Nord, (e tutti, tutti, tutti, finalmente cari al mio cuore) - dell'Est o dell'Ovest - costa atlantica o valle del

Mississippi - si sono trascinati a morire da soli in qualche luogo tra i cespugli, in burroni profondi, sui fianchi delle

colline - (e lì, in angoli sperduti, ancora si scoprono ogni tanto i loro scheletri, ossa sbiancate, ciuffi di capelli, bottoni

pezzi di vestiario) - i nostri ragazzi, una volta così belli, così allegri, che ci sono stati strappati - il figlio alla madre, il

marito alla moglie, l'amico all'amico più caro - i gruppi di tombe sui campi della Georgia, delle Caroline, del Tennessee

- le tombe abbandonate nei boschi o lungo la strada (centinaia, migliaia, obliterate) - i cadaveri trascinati a valle dai

fiumi, ripresi, tumulati (a dozzine, a ventine, galleggiarono e scesero per il Potomac superiore dopo gli scontri di

cavalleria e l'inseguimento di Lee che seguì Gettysburg) - alcuni giacciono in fondo al mare - il milione di morti d'ambo

le parti, e i cimiteri speciali in quasi tutti gli Stati - gl'infiniti morti - (l'intero paese saturato, profumato dall'esalazione

delle loro ceneri impalpabili distillate dalla chimica della Natura, e così per sempre, in ogni futuro chicco di frumento,

in ogni pannocchia di granturco, e in ogni fiore che cresce e ogni respiro che respiriamo) - non soltanto morti del Nord

che lievitano il suolo del Sud - ma migliaia, anzi decine di migliaia del Sud si sfanno oggi nella terra del Nord.

E ovunque tra queste tombe senza fine - nei molti cimiteri militari della nazione (oggi ve ne sono, credo, più di

settanta) - come allora nelle vaste trincee, deposito degli uccisi, Nord e Sud insieme, dopo le grandi battaglie - non solo

dove in quegli anni passò la tempesta distruggitrice, ma irradiandosi da quel momento per tutte le contrade del paese

rimaste intatte - noi vediamo, e le età a venire potranno ancora vedere, sui monumenti e sulle pietre tombali, isolate o in

massa, per migliaia e decine di migliaia, la significativa parola IGNOTO.

(Vi sono cimiteri dove quasi tutti i morti sono ignoti. A Salisbury, Carolina del Nord, per esempio, quelli noti

sono solo 85 e gli ignoti 12.027, 11.700 dei quali sepolti nelle trincee. Un monumento nazionale è stato innalzato qui

per volontà del Congresso, a contrassegnare il luogo - ma quale monumento visibile, materiale, potrà mai commemorare

debitamente quel luogo?).

LA GUERRA VERA NON ENTRERÀ MAI NEI LIBRI

E così addio alla guerra. Non so che cosa sia stata o cosa possa essere per gli altri - per me, l'interesse

principale l'ho trovato (e lo trovo ancora, rievocando) nella semplice truppa d'ambo gli eserciti, nei tipi incontrati negli

ospedali, e persino nei morti sul campo. Per me, i punti che illustrano il carattere personale e le capacità latenti di questi

Stati in quei due o tre milioni di americani, giovani e di mezza età, del Nord e del Sud, incorporati negli eserciti - e

specialmente in quella parte di loro, un terzo o un quarto, che in un qualche momento del conflitto fu colpita da ferite o

malattie - ebbero più importanza degli stessi interessi politici coinvolti nella guerra (dacché tanto, nel carattere di una

razza, dipende da come essa sa affrontare la morte, dal modo in cui sopporta l'angoscia personale e la malattia. Così,

negli sprazzi di emozione in certe situazioni critiche, nei tocchi indiretti e negli "a parte" di Plutarco, scopriamo una

chiave interpretativa del mondo antico assai più penetrante di tutte quelle forniteci dalla storia più convenzionale)..42

Gli anni a venire non sapranno mai la ribollente bolgia e il nero sfondo infernale di infinite scene e interni

minori (non l'ufficiale cortesia, tutta di superficie, dei generali, non le poche battaglie famose) della Guerra di

Secessione; ed è meglio che non lo sappiano - la guerra vera non entrerà mai nei libri. Nell'infrollito clima dei tempi che

corrono, inoltre, la fervida atmosfera e gli eventi tipici di quegli anni rischiano di essere totalmente dimenticati. In

ospedale io ho vegliato di notte al capezzale di un malato, uno che non aveva molte ore da vivere. Ho visto i suoi occhi

lampeggiare e bruciare mentre si drizzava sul letto ricordando le crudeltà perpetrate sul fratello che si era arreso e, poi,

le mutilazioni al cadavere. (Confrontate, nelle pagine precedenti, l'episodio di Upperville - i diciassette, uccisi come ho

descritto, furono lasciati per terra. Poi che caddero morti, nessuno li toccò più - tutti, comunque, vollero accertarsene. I

cadaveri vennero lasciati ai cittadini che li seppellissero o meno, a piacer loro).

Questa è stata la guerra. Non una quadriglia in una sala da ballo. La sua storia interiore non sarà scritta mai -

non solo, ma il suo aspetto pratico e quotidiano, i dettagli di azioni e passioni non saranno mai neppure suggeriti. Il vero

soldato del 1862-65, Nord o Sud, coi suoi modi, il suo incredibile coraggio, le sue abitudini, azioni, gusti e linguaggio,

la sua fiera amicizia, il suo appetito, la sua rozzezza, la sua superba forza animale, il suo passo ardito, e centinaia di luci

e ombre della vita di campo, non mai precisate, tutto questo, dico, non sarà mai scritto - né forse deve né dovrebbe

esserlo.

Le note che precedono possono forse fornire qualche sprazzo fugace di quella vita, di quegli interni cupi che

non saranno mai interamente trasmessi al futuro. La parte rappresentata dagli ospedali nel dramma del '61-65 merita

invero di essere ricordata. In quel dramma dal molteplice intreccio, con le sue subitanee e strane sorprese, le profezie

smentite, i momenti di disperazione, il terrore di interferenze straniere, le campagne interminabili, le battaglie

sanguinose, gli eserciti possenti ma poco maneggevoli e inesperti, le coscrizioni e i premi - l'immensa spesa di denaro,

una pioggia pesante e interminabile - e per tutto il paese, gli ultimi tre anni del conflitto, un'incessante, universale

lamentazione funebre di mogli, genitori, orfani - il midollo della tragedia concentrato in quegli Ospedali Militari

(sembrava talora che tutto l'interesse della nazione, Nord e Sud, non fosse che un solo, enorme ospedale centrale, e tutto

il resto meri accessori) - là tutta la storia non narrata né scritta della guerra - infinitamente più grande (come la vita

stessa) delle poche briciole e deformazioni che sempre si scrivono e si narrano. Pensate a quanto, e di che importanza,

rimarrà - a quanto, sia civile che militare, è già rimasto - sepolto nella tomba, in un buio eterno.

PARAGRAFO PER UN INTERREGNO

Passano adesso molti anni prima che io riprenda il mio diario. Continuai a lavorare a Washington, al Ministero

della Giustizia, per tutto il 66-67 e per qualche tempo dopo. Nel febbraio 1873 fui colpito da paralisi, lasciai il posto e

emigrai a Camden, New Jersey, dove passai il '74 e il '75, piuttosto male in salute - ma poi cominciò a andar meglio; me

ne andavo per settimane, a volte per mesi, in campagna, in una località deliziosamente rustica e solitaria nei pressi di

Timber Creek, a dodici o tredici miglia dal punto in cui questo si versa nel Delaware. Alloggiando nella fattoria dei miei

amici Stafford, appunto da quelle parti, passavo una buona metà del mio tempo lungo il torrente, nei campi e pei sentieri

lì intorno. Ed è forse alla vita in codesto luogo che io devo la mia parziale ripresa (una sorta di seconda vita, o quasi - un

rinnovo del contratto vitale) dalla prostrazione del '74-'75. Se solo, lettore caro, i miei appunti di quella vita all'aria

aperta potessero avere per te la stessa sfolgorante luminosità che la diretta esperienza ebbe per me! Nel corso di quanto

segue, il fattore infermità farà indubbiamente capolino qua e là, tra le righe (io mi definisco un semi-paralitico in questo

periodo, e ringrazio umilmente il Signore che non vada peggio) - ma anch'io ho la mia parte di gioia, le mie ore di

salute, e cercherò di metterle in evidenza (il trucco sta, ho scoperto, nell'abbassare di una buona misura il tono dei

propri gusti e desideri; e trarre il massimo da cose negative, e apprezzare la semplice luce del giorno, e il cielo).

NUOVI ARGOMENTI

1876-77. Scopro che i boschi a metà maggio e agli inizi di giugno sono il luogo migliore per scrivere.* Qui ho

buttato giù quasi tutti gli appunti che seguono, seduto sui tronchi, su ceppi d'albero o appoggiato a una staccionata.

Dovunque io vada infatti, estate o inverno, città o campagna, solo a casa o viaggiando, io devo prendere appunti (la mia

passione dominante, tuttora forte malgrado l'età e la malattia, e persino l'approssimarsi della...- ma non bisogna ancora

dirlo). E poi, sotto i brani che seguono - mentre taglio le t e metto i puntini sulle i di certo moderato vivere degli ultimi

anni - mi piace immaginare le fondamenta di una profonda lezione ormai appresa. Dopo aver esaurito quel che t'offrono

affari, politica, allegri simposi, amore e così via - e aver scoperto che niente di tutto ciò alla fine soddisfa o dura in

eterno - che cosa ti resta? Resta la Natura; portar fuori dai loro torpidi recessi le affinità tra un uomo o una donna e l'aria

aperta, gli alberi, i campi, il volgere delle stagioni - il sole di giorno e le stelle del firmamento la notte. Noi prenderemo

l'avvio da queste convinzioni. La letteratura ha voli sì alti ed è condita di spezie così piccanti che le nostre note non

potranno sembrare più che semplici boccate d'aria, sorsate d'acqua fresca. Ma questo fa parte della nostra lezione.

Care, rasserenanti, salubri ore di ristoro - dopo tre anni di paralisi, immobilizzato - dopo il lungo spasmo della

guerra, con le sue ferite e la sua morte..43

* Senza scusarmi per il brusco mutamento di scena e di atmosfera - dopo quel che ho raccontato nelle

cinquanta o sessanta pagine che precedono - episodi transitori, grazie al cielo! - riporto il mio libro al solido e

corroborante equilibrio della Natura concreta e aperta unica e permanente salvaguardia della sanità dei libri e della vita

umana.

Chissà (è un sogno, un'ambizione che porto in me) che le pagine seguenti non portino un raggio di sole, o

odore d'erba e di granturco, o voce d'uccello, o splendore notturno di stelle, o mistica e fresca pioggia di fiocchi di neve,

agli ospiti di accaldate case di città, a un operaio o a un'operaia stanchi dal lavoro? - o magari nella stanza di un malato

o in una cella di prigione - quasi brezza rinfrescante, aroma della Natura, per una bocca arsa dalla febbre o un polso

affievolito (N.d.A.).

UN LUNGO VIOTTOLO DI CAMPAGNA

Ognuno ha la sua piccola passione; io ce l'ho per un viottolo di campagna, chiuso ai lati da vecchie staccionate

di castagno che muschi e licheni picchiettano di macchie verde-grigio, con cespi d'erbe e rovi che crescono

lussureggianti negli spazi tra un mucchietto di pietre e l'altro, alla base dello steccato-nel mezzo, viottoli irregolari,

tracciati dall'uso, e piste di cavalli e mucche - e poi tutto quel seguito di elementi caratteristici che, nella loro stagione,

danno una nota o un profumo tipico al paesaggio - fiori di melo nel tardo aprile - suini, pollame - un campo di grano

saraceno agostano - in un altro, le lunghe barbe pendole del granturco - e ancora lo stagno, lo slargo del ruscello, il bel

solitario, con alberi vecchi e giovani, e altri recessi e scenari del genere.

VERSO LA SORGENTE E IL RUSCELLO

Così, sempre vagabondando, fino alla sorgente sotto i salici - musicale come tintinnio delicato di bicchieri - il

getto d'acqua piuttosto consistente, della grossezza del mio collo, puro e cristallino, che sgorga dalla sua bocca laddove

la sponda s'inarca come un gran sopracciglio cespuglioso e bruno, o un palato - gorgogliando, gorgogliando senza fine -

che vuol dire e dice anzi, certamente, qualcosa (se solo si potesse tradurlo) - gorgogliando perennemente laggiù, in ogni

momento dell'anno - senza chetarsi mai -oceani di menta e more l'estate - varietà di luce e di ombra - proprio il posto

adatto ai miei bagni di luglio, di sole e anche d'acqua - ma soprattutto l'inimitabile dolcezza dei suoi gorgoglii, mentre

resto seduto lì accanto, nei pomeriggi di caldo. Come quel suono, e tutto il resto, diviene parte di me giorno per giorno -

tutto in armonia - l'aroma selvatico appena avvertibile, l'ombra screziata del fogliame, e tutte le influenze del luogo, una

medicina della natura, una morale elementare.

Continua a mormorare, ruscello, con quella tua inconfondibile voce! Anch'io esprimerò quanto di nativo, di

sotterraneo, di passato, ho raccolto nel corso dei miei giorni-e ora anche te. Segui il tuo corso capriolando e

serpeggiando - io con te, per un poco almeno. Mentre io vengo a trovarti stagione per stagione, tu non mi conosci né ti

curi di me (ma perché esserne così certo? chi può dirlo?) - ma io imparerò da te, ti studierò - per ricevere, copiare,

prendere la tua impronta.

SVEGLIA DI PRIMA ESTATE

Via dunque a sciogliere, slegare l'arco divino, così lungo e teso. Via da tende, tappeti, sofà, libri - dalla

"società" - dalle case della città, dalle sue strade, da tutti i ritrovati e i conforti moderni - via verso il primitivo

serpeggiante ruscello tra i boschi di cui ho parlato, con i suoi cespugli non cimati, le sue sponde erbose - via da legacci,

stivali stretti, bottoni e tutto il ferreo sistema della vita civile - tutto quell'entourage artificiale, di negozi, macchine,

studio, ufficio, salotto - via dal regno del sarto o dell'abito alla moda - e possibilmente da qualsiasi abito, per il

momento, con la canicola che incalza, laggiù tra quelle ombrose solitudini d'acque. Via dunque anima mia (e tu lascia,

lettore caro, che ti prenda da parte da solo e ti parli in perfetta libertà, senza badare alla forma, confidenzialmente) per

un giorno e una notte almeno, per tornare alla nuda fonte di vita di tutti noi - al seno della grande, silenziosa e selvaggia

Madre che tutto accoglie. Ahimé, quanti di noi sono ormai così saturi - quanti hanno deviato, allontanandosi tanto che il

ritorno è quasi impossibile.

Ma torniamo alle mie note, prendiamole come vengono, così a caso dal mucchio, senza una selezione

particolare. C'è poco ordine nelle date: coprono confusamente un periodo di circa cinque o sei anni. Sono state buttate

giù a matita sul momento e sul luogo, senza attenzione. I tipografi lo impareranno a loro spese, probabilmente, dato che

un buon numero delle copie in mano loro deriva da quelle prime note vergate frettolosamente.

UCCELLI MIGRANTI A MEZZANOTTE.44

Vi è mai capitato di udire a metà notte il volo di uccelli che passano, eserciti sterminati, alti nell'aria e nel buio,

mutando la loro sede all'inizio o alla fine dell'estate? È qualcosa che non si dimentica. Un amico mi ha svegliato la notte

scorsa poco dopo le dodici perché udissi anch'io il particolare rumore di stormi insolitamente immensi che migravano

verso nord (piuttosto tardi quest'anno). Nel silenzio, nell'ombra e nel delizioso odore di quell'ora (il profumo naturale

che appartiene soltanto alla notte) mi parve rara musica. Si poteva sentire il loro movimento caratteristico - e una volta

o due «l'impeto di ali possenti», ma più spesso un fruscìo vellutato, sostenuto - talora piuttosto vicino - tra un fischiare

continuo, un cinguettare, e qualche nota di canto. Durò dalle 12 sin dopo le tre. A tratti era possibile distinguere

chiaramente le varie specie di uccelli; riuscii a riconoscere il bobolinco, la tanagra, il tordo di Wilson, il passero testa-bianca,

e di tanto in tanto dall'alto venivano le note del piviere.

CALABRONI

Maggio - mese di uccelli che sciamano, cantano, si accoppiano - il mese dei calabroni - mese del lillà in fiore -

(e infine il mese della mia nascita). Sto prendendo queste note fuori all'aperto, poco dopo l'aurora, dalle parti del

ruscello. Luci, profumi, melodie - pettazzurri, beccafichi e pettirossi ovunque - il loro concerto naturale, il chiasso, i

vocalizzi. Come sottofondo, un picchio nelle vicinanze che tamburella il suo albero e, in distanza, la buccina di un

gallo. Poi i freschi profumi della terra - i colori, i delicati beige e gli azzurri sfumati della prospettiva. Il verde lucente

dell'erba ha acquistato, in questi due ultimi giorni di temperatura mite e di umidità, una tonalità nuova. Come si leva

silenziosamente il sole nel gran cielo limpido, per il suo viaggio quotidiano! Come inondano ogni cosa i suoi tiepidi

raggi, come fluiscono carezzevoli, quasi ardenti sul mio viso!

Poco fa, ecco il gracidìo delle rane dello stagno, e il primo biancore del corniolo fiorito. E ora la bocca-di-leone,

dorata, che in infinita profusione chiazza ovunque il terreno. Le bianche masse fiorite del ciliegio e del pero - le

viole selvatiche coi loro occhi azzurri levati a salutare i miei com'io passo gironzolando al bordo del bosco - la vampa

rosata dei meli in boccio - la luminosa sfumatura smeraldina dei campi di frumento - il verde più cupo della segala - una

tiepida elasticità diffusa nell'aria - le macchie di cedro ricoperte da una profusione di piccoli frutti bruni - l'estate in

pieno risveglio - i convegni di merli radunati in garruli stormi su qualche albero non lontano da dove io sto seduto, che

riempiono del loro chiasso il luogo e l'ora.

Più tardi. La Natura sfila in parata, a scaglioni, come i corpi d'armata d'un esercito. E tutti hanno fatto, e fanno

ancora, molto per me. Ma negli ultimi due giorni è stata soprattutto la grossa ape selvatica, il calabrone o «bombo»,

come lo chiamano i bambini. Quando percorro passeggiando, o meglio claudicando, il tratto tra la casa e il ruscello, io

attraverso di solito il viottolo cui ho già fatto cenno, fiancheggiato dalla vecchia staccionata tutta spaccature, schegge,

interruzioni, buchi, ecc., che è la sede preferita di quegli insetti rombanti e pelosi. Su e giù lungo lo steccato e intorno e

in mezzo essi sciamano e sfrecciano e volano a miriadi infinite. Spesso, mentre mi trascino lentamente, mi seguono in

una mobile nuvola. Hanno un ruolo centrale nei miei vagabondaggi mattutini, meridiani o vespertini, e riescono talora a

dominare il paesaggio in un modo per me incredibile, invadendo il sentiero in tutta la sua lunghezza - non dozzine, né

centinaia, bensì migliaia. Grossi e vivaci e veloci, con fantastici slanci e quel ronzìo in perenne crescendo variato a tratti

da qualcosa come uno strido, saettano in rapidi lampi, avanti e indietro, dandosi la caccia, e (sebbene così piccoli) mi

comunicano un nuovo e spiccato senso di forza, di bellezza, vitalità e movimento. È questa forse la stagione degli

amori? o qual'è allora il significato di tutta questa pienezza, vivacità, tensione, sfoggio? Camminando, pensavo di essere

seguito da un unico sciame, ma osservando vidi che si trattava di una rapida successione di sciami che si alternavano,

uno dopo l'altro.

Scrivo seduto sotto un gran ciliegio selvatico - il calore del giorno temperato da qualche nuvola sparsa e da una

fresca brezza, non troppo forte né troppo lieve - e qui resto seduto per un lungo, lunghissimo tempo, avviluppato nel

profondo, musicale ronzìo di questi calabroni che a centinaia volteggiano, si librano, sfrecciano avanti, indietro, intorno

a me - grossi insetti in giacchetta giallo chiaro, gran corpi rigonfi e lustri, testa tozza e ali di garza - vibrando quel loro

perenne, ricco, pastoso ronzìo (non v'è qui forse lo spunto di una composizione musicale di cui esso dovrebbe costituire

il sottofondo? una qualche «sinfonia del calabrone»?). Come tutto ciò mi nutre, mi culla, nel modo che più mi è

necessario - l'aria aperta, i campi di segala, i pometi. Gli ultimi due giorni sono stati perfetti quanto a sole, brezza,

temperatura, tutto; mai viste due giornate più perfette, e ne ho goduto immensamente. La mia salute va un pochino

meglio, il mio spirito è in pace (e tuttavia si avvicina a gran passi l'anniversario della perdita più triste, del dolore più

grande della mia vita).

Altre note, altro giorno perfetto: in mattinata, dalle 7 alle 9, due ore immerso nei suoni dei calabroni e nella

musica degli uccelli. Tra i meli e su un cedro qui accanto c'erano tre o quattro tordi dal dorso color ruggine, cantavano,

ognuno dando il meglio di sé, e con gorgheggi di cui non ho mai udito l'eguale. Per due ore mi sono abbandonato a loro,

ascoltandoli, assorbendo indolente la scena. Quasi ogni uccello da me osservato ha un suo periodo particolare ogni anno

- limitato talora a pochi giorni - in cui dà il meglio del suo canto; e adesso è appunto il periodo di codesti tordi. Intanto,.45

da una parte all'altra del sentiero, sfrecciano musicali, ronzanti, i calabroni. Ecco un altro grande sciame che mi fa da

scorta mentre torno a casa, seguendomi al passo, come prima.

Due o tre settimane più tardi - scrivo seduto presso il ruscello, sotto un liriodendro alto 70 piedi, tutto gonfio

della fresca verzura della sua prima maturità - una cosa bella - perfetto in ogni ramo, ogni foglia. Brulica da capo a piedi

di miriadi di queste api selvatiche alla ricerca del dolce succo dei fiori, e il cui sonoro e persistente ronzìo fa da

contrappunto alla scena, al mio stato d'animo e all'ora. A chiusura del tutto citerò alcuni versi dal volumetto di Henry A.

Beers:

Mentre ero steso nell'erba alta

passò un calabrone ubriaco,

inebriato di succo di miele.

La cinta d'oro intorno al corpo

riusciva appena a tenergli la pancia

gonfia d'umor di caprifoglio.

Liquor di rosa e linfa di pisello

gli avean colmato l'anima di canti;

molto aveva bevuto nella tèpida notte,

le cosce pelose eran umide di rugiada,

e a che giochi bizzarri s'era dato

mentre il mondo ruotava nell'ombra e nel sonno.

Quante volte era sceso con labbra assetate

a sugger di un fiore le nettàree dolcezze;

e o scivolava sui petali vellutati

o in stami intricati s'invischiava

o, a capofitto nel polline caduto,

ne usciva tutto spolverato d'oro;

o inciampava con le grosse zampe

sopra una gemma, e capitombolava

in mezzo all'erba - e lì restava, in quel suo tono

dolce di basso a brontolare - povero

bombo, querulo beone!

COCCOLE DI CEDRO

Girando oggi in calesse per la campagna - una gitarella di dieci o dodici miglia - il piacere più grande m'è

venuto proprio da questi frutti affatto particolari, la loro bellezza modesta e nuova (non li avevo mai visti così bene, o

non li avevo mai notati prima), - quella profusione di seriche frange, o filacce giallo-chiaro, lunghe un pollice, che in

numero infinito picchiettavano il verde cupo dei piccoli cedri - un ottimo contrasto col color bronzo delle zolle - le

masse dei cespugli tutte ricoperte dai filamenti spumosi, come matasse di capelli arruffati su teste di elfo. Più tardi,

passeggiando presso il ruscello, ne spiccai una dal suo cespuglio, che voglio conservare. Queste coccole di cedro durano

tuttavia solo un breve spazio di tempo, poi subito si crepano e sfanno.

SCENE ESTIVE, INDOLENZA

10 giugno. Sono qui presso il ruscello, a scrivere - 5 e mezzo pomeridiane - niente può eguagliare il quieto

splendore e la freschezza che mi circondano. A metà giornata s'è avuto un violento acquazzone, con tuoni e lampi, ma

breve; e dopo, alto sopra di noi, uno di quei cieli non rari, forse, ma indescrivibili (per qualità, non nelle forme o nei

dettagli) - di un azzurro terso con cumuli roteanti di nubi dalle frange argentate, e la pura luce di un sole abbagliante.

Per sottofondo, alberi nella pienezza di teneri fogliami - e liquide, sottili, strascicate note d'uccelli, cui fan da supporto

lo smanioso miagolio di una querula dumetella, e i deliziosi gridolìi e trilli di due martin-pescatori. Ho trascorso

quest'ultima mezz'ora a osservarli nei loro giuochi d'ogni sera, dentro e sopra il pelo dell'acqua: evidentemente in una

delle loro baldorie più vivaci. Si inseguono volteggiando in cerchi e mulinelli, tuffandosi d'un tratto con un guizzo

gioioso, schizzando diamantine gocce di spuma - e poi via in un'impennata, le ali inclinate in voli pieni di grazia,

talvolta così vicini a me ch'io posso agevolmente distinguerne il corpo piumato grigio-scuro e il collo d'un bianco latteo.

PROFUMO DEL TRAMONTO, LE NOTE DELLA QUAGLIA, IL TORDO EREMITA.46

19 giugno, dalle 4 alle 6.30 pomeridiane. Seduto presso il ruscello, da solo - solitudine intorno, ma il

paesaggio abbastanza vivido e luminoso - c'è il sole, e un vento piuttosto fresco (violenti sgrulloni di pioggia ieri notte),

erba e alberi nella loro veste migliore - il chiaroscuro dei molti verdi, ombre e penombre, e negli interstizi il lampeggiar

dell'acqua, con variegati effetti di luce - le note di flauto silvestre di una quaglia vicina - e, proprio ora, lo sciacquio di

qualche raganella laggiù nello stagno - cornacchie che crocidano in distanza - un branco di maialini che grufola nella

terra morbida presso la quercia dov'io sono seduto - alcuni mi si accostano, mi annusano, e sgambettano via subito,

grugnendo. E sempre le limpide note della quaglia - il tremolìo dell'ombra delle foglie sulla carta mentre scrivo - il cielo

altissimo, con nuvole bianche, e il sole che già scende a ponente - rondini riparie, molte, che sfrecciano veloci, vanno e

vengono, i nidi scavati in un costone di marna qui vicino - l'aroma del cedro e della quercia, sempre più acuto come

avanza la sera - profumo, colore, il bronzo-oro del grano ormai quasi maturo - campi di trifoglio dall'odore di miele - il

granturco ormai alto, con le lunghe foglie fruscianti - le grandi chiazze verde cupo delle patate in pieno rigoglio, tutte

picchiettate di bianco, i fiori - l'antica, verrucosa, venerabile quercia sopra di me - e sempre, commisto alla duplice nota

della quaglia, il sospiro del vento tra un gruppo di pini qui accanto.

Mi alzo per ritornare, ma indugio ancora a un delizioso canto d'epilogo (è il tordo eremita?) che viene da

qualche angolo cespuglioso laggiù nella chiana, ripetuto più volte, lentamente, pensosamente. E questo tra le girandole

delle rondini che volano a dozzine in anelli concentrici negli ultimi barbagli del tramonto, quasi scintille di un'aerea

ruota.

POMERIGGIO DI LUGLIO ALLO STAGNO

Caldo rovente, ma tanto più sopportabile in quest'aria pura - i fiori rosa e bianco delle piante acquatiche, con

grandi foglie a forma di cuore; la superficie di vetro dello stagno, le sponde fitte di cespugli, e i faggi pittoreschi, e

l'ombra e il tappeto dell'erba; il fischio esile, tremulo, di un uccello che da qualche angolo nascosto viene a rompere

questo silenzio caldo, indolente, quasi voluttuoso; di tanto in tanto una vespa) un calabrone, una pecchia o un bombo

(mi ronzano attorno alle mani e al viso, ma non mi disturbano, come io non disturbo loro, dacché vengono, sembra, a

esaminarmi, e non trovando nulla di interessante se ne vanno) - in alto, l'ampio spazio del cielo, così limpido, e lassù la

poiana che spiega le sue lente ruote in un solenne intreccio di cerchi e spirali; quasi a fior d'acqua sullo stagno, due

grandi libellule color ardesia, ali di merletto, che ruotano e sfrecciano e a tratti si librano immobili, le ali sempre

frementi (non staran forse dando spettacolo per mio godimento?) - e lo stagno poi, coi suoi calami a forma di spada; le

bisce d'acqua - talora il trasvolar veloce d'un merlo, il dorso picchiettato di rosso, di sbieco - i suoni che fanno più

spiccata la solitudine, il caldo, la luce e l'ombra - lo starnazzare di un'anitra - (cavallette e grilli sono muti nella calura

meridiana, ma già sento il canto delle prime cicale); - poi, a una certa distanza, lo sbacchiare e il frullare di una

mietitrice che i cavalli tirano a passo veloce per un campo di segale dall'altra parte del ruscello - (ma che cos'era

quell'uccello giallo o color ocra, grosso come una pollanca, il collo tozzo e le zampe distese, che ho appena visto

svolazzare goffamente laggiù tra gli alberi?) - il profumo dominante, così delicato, eppur nettamente percepibile,

pungente, d'erba e di trifoglio che ho nelle nari; e su tutto, in un grande abbraccio, il libero spazio del cielo, per i miei

occhi e per la mia anima, trasparente e azzurro - e, librata laggiù ad occidente, una massa di quelle nuvole lanose tra il

bianco e il grigio che i marinai chiamano «banchi di maccarelli» - il cielo con bioccoli argentei come riccioli di una

capigliatura scomposta, che si espande e protende - un vasto simulacro senza voce, senza forma - e tuttavia forse la

realtà più reale, quella in cui si formulano tutte le cose - chissà?

CATIDI E LOCUSTE

22 agosto. Acute monodie di locuste, o suoni di catidi - odo questi a sera, le altre sia di giorno che di notte. Ho

sempre ritenuto incantevole il gorgheggio mattutino degli uccelli, o quello della sera; ma sto scoprendo ora di poter

ascoltare con altrettanto gusto questi strani insetti. Si sente adesso mentre scrivo un'unica locusta, poco prima di

mezzogiorno, da un albero a un duecento piedi di distanza - un frullìo lungo, sostenuto, piuttosto forte, che si scandisce

gradatamente in mulinelli e giri ritmati, crescendo in forza e velocità fino a un certo punto - poi una caduta palpitante,

che va a smorzarsi quieta. Codesti slanci si protraggono per uno o due minuti. Il canto della locusta è molto appropriato

alla scena - vien fuori a fiotti, ha un senso suo, è virile, è come un buon vino vecchio, non dolce, ma assai meglio che se

fosse dolce.

Ma la catide - come descrivere le sue frasi mordenti? Ce n'è una che canta su un salice proprio di fronte alla

finestra aperta della mia camera da letto, a venti iarde di distanza; in queste ultime due settimane è stata lei a cullarmi al

sonno quando la notte era bella. L'altra sera ho percorso in calesse un tratto di bosco di un cinquecento iarde, e ho udito

catidi a miriadi - molto interessante, per una volta; ma io preferisco la mia solitaria vicina del salice.

Ma lasciatemi dire ancora qualcosa sul canto della locusta, anche a costo di ripetermi: quel crescendo

cromatico, prolungato e tremulo, simile a un disco d'ottone che turbini su se stesso emettendo ondate di note,.47

principiando con un certo ritmo o misura che direi moderati, aumentando quindi rapidamente velocità ed enfasi fino a

raggiungere un punto di grande energia e suggestione, per poi decrescere velocemente e con grazia fino a spegnersi del

tutto. Non la canora melodia dell'uccello - nulla di simile - un musicista grossolano potrebbe anzi trovarlo affatto privo

di melodia - ma un canto che certo svela a un orecchio più raffinato un'armonia tutta particolare; monotono - ma che

ritmo in quel basso, ondulato ronzio come d'ottone, o cembali - o piuttosto dischi di rame che ruotino vorticosamente.

LA LEZIONE DI UN ALBERO

1 settembre. Non ricorrerò all'albero più grande né al più pittoresco per illustrarla. Ecco di fronte a me uno dei

miei preferiti, un bel pioppo giallo, dritto come un fuso, forse 90 piedi di altezza e quattro di spessore alla base. Come è

forte, vitale, paziente! come eloquente nel suo silenzio! E come sa suggerirvi imperturbabilità e essenza, in contrasto

con la caratteristica tutta umana della mera parvenza. E poi le qualità, quasi emotive, visibilmente artistiche, e eroiche,

proprie dell'albero: così innocente e innocuo, e tuttavia così selvaggio. Esiste, e non dice verbo. Ma con la sua solida e

inalterabile serenità come si fa beffe delle stagioni e di quel moscerino ventoso che è l'uomo, che al primo sbruffo di

pioggia o di neve si precipita dentro casa. La scienza (o meglio la mezza scienza) deride ogni memoria di driadi e

amadriadi e alberi parlanti. Ma, se non parlano, gli alberi si esprimono altrettanto bene della maggior parte dei discorsi,

libri, poesie e sermoni - o piuttosto assai meglio. Direi anzi che quelle antiche reminiscenze driudiche sono quanto mai

veritiere, e più profonde della maggior parte delle nostre reminiscenze. («Ritagliate l'avviso», come dicono i medicastri,

potrebbe servirvi). Vai a sederti in una macchia o nei boschi, con uno o più di quei muti compagni, leggi quanto si è

appena detto, e medita.

Una delle lezioni che derivano dalla comunanza con un albero - forse la più grande lezione morale che ci venga

comunque dalla terra, dalle rocce e dagli animali - è appunto questa medesima lezione di sostanza, di ciò che la cosa è

senza riguardo alcuno per quel che l'osservatore (il critico) possa supporre o dire, o se gli piaccia o meno. Quale

malattia peggiore - quale più generalmente diffusa tra noi, tutti e ciascuno, nella nostra letteratura, cultura,

atteggiamenti dell'uno verso gli altri (e anche verso noi stessi), di quella morbosa preoccupazione per le apparenze (e in

genere apparenze del momento), accompagnata dall'assenza totale o quasi di qualsiasi preoccupazione per i lati sani, di

lenta maturazione, duraturi, reali del carattere umano, dei libri, dell'amicizia, del matrimonio - le fondamenta invisibili e

il tessuto connettivo dell'umanità? (giacché la base del tutto, il nerbo, il gran simpatico, il solido nucleo interno

dell'umanità, quello che dà l'impronta a ogni cosa, è necessariamente invisibile).

4 agosto, 6 pom. Luci e ombre, effetti prodigiosi sul fogliame degli alberi e l'erba - trasparenze di verdi, grigi, ecc., il

tutto nella screziata pompa del tramonto. I vividi raggi cadono ora in molti luoghi inusi, sulla parte inferiore degli

alberi, inclinata, scalfita, d'un color bronzo slavato, sempre in ombra tranne a quest'ora - ne investono adesso con forte

luce l'antica eppure giovane rugosità colonnare, dispiegando ai miei sensi nuove e stupefacenti fattezze d'un fascino

silenzioso e ispido, la solida corteccia, l'espressione di innocua impassibilità, le molte protuberanze e i nodi mai notati

prima. Tra le rivelazioni di questa luce, di questa ora eccezionale e di questo stato d'animo, non ci si stupisce più delle

favole antiche (dopo tutto, perché favole?) in cui gli uomini erano presi d'amore per gli alberi, rapiti in estasi dal mistico

realismo della forza in essi racchiusa, tacita e irresistibile - forza, che dopo tutto è forse l'estrema, la più completa, la più

alta forma di bellezza.

Alberi che conosco bene qui.

Querce (molte varietà - un quercione antico pieno di vita, verde, frondoso, cinque piedi di spessore alla base,

sotto il quale vado a sedermi ogni giorno).

Cedri, in quantità.

Tulipiferi (il Liriodendro, della famiglia delle magnoglie - nel Michigan e nell'Illinois del Sud ne ho visti di alti

140 piedi, 8 di spessore alla base;* trapianto difficile; viene su meglio dal seme - i boscaioli lo chiamano pioppo giallo).

Sicomori.

Alberi della gomma, dolce e amara.

Faggi

Noci neri.

Sassafrassi.

Salici

Catalpe

Ebani

Sorbo selvatico

Noci americani

Aceri, molti tipi

Carrubi.

Betulle.48

Corniolo

Pino

L'olmo

Castagno

Tiglio

Pioppo tremulo

Abete rosso

Carpine

Alloro

Agrifoglio

* C'è, a un tiro di schioppo da Woodstown, un liriodendro la cui circonferenza misura venti piedi a tre piedi da

terra, e il diametro quattro piedi a circa diciotto di altezza del tronco, che è spezzato tre o quattro piedi più su. Dal

fianco volto a mezzogiorno è spuntato un braccio da cui s'alzano due rami, ambedue fino a novantuno, novantadue piedi

circa dal suolo. Venticinque anni fa (o più) la cavità alla base del tronco era tanto ampia che nove uomini potevano

pranzarci dentro, tutti insieme. Si crede che oggi potrebbero starvi in piedi da dodici a quindici uomini alla volta.

Sembra che i terribili vènti del 1877 e '78 non gli abbiano arrecato danno, e i due rami metton fuori ogni anno i loro

bocci, diffondendo subito nell'aria intorno il loro soave profumo. Si trova su una collina, completamente privo della

protezione di altri alberi - Woodstown, N. Y. «Gazzetta», 15 Aprile '79 (N. d. A.).

SCORCI AUTUNNALI

20 settembre. Sotto una vecchia quercia nera, lucida e verde, che alita aromi - in un boschetto che avrebbe

potuto ospitare i druidi d'Albione - ravvolto nel tepore e nella luce del sole meridiano, e sfreccianti sciami d'insetti - tra

il roco crocidio di molte cornacchie a un cinquecento iarde di distanza - eccomi seduto in solitudine, assorbendo,

godendo ogni cosa. Il granturco ammassato in covoni conici d'un colore tra il ruggine e il giallo vizzo - un gran campo

tutto picchiettato di zucche oro-scarlatto - e un altro, confinante, di cavoli, che fan bella mostra nel loro verde perlaceo

screziato dalla luce e dall'ombra copiose - campi di meloni coi loro ovali rigonfi e le grandi foglie striate d'argento,

ricciute, slabbrate - e molte altre immagini e suoni d'autunno - lo strido lontano d'un branco di faraone - e profusa su

tutto la brezza settembrina, col suo ritmo pensoso tra le vette degli alberi.

Un altro giorno. Il suolo tutto disseminato dei relitti d'una tempesta. Percorro lentamente la sponda del Timber,

il torrente s'è abbassato, e mostra i segni della piena turbolenta dell'ultimo equinozio. Mi guardo intorno e faccio

l'inventario - erbe e arbusti, dossi, viottoli, qua e là ceppi d'albero, alcuni levigati in cima (parecchi mi fanno da sedile

quando mi riposo ora in un posto ora nell'altro, è da uno di questi che ora sto prendendo appunti) - molti fiori selvatici,

macchioline bianche a forma di stella, o il rosso cardinalizio della lobelia, e i semi rotondi simili a ciliegie della rosa

perenne, o le viti dai molti viticci che s'arrampicano avviluppandosi intorno agli alberi.

1, 2 e 3 ottobre. Ogni giorno di nuovo nella solitudine del ruscello. Sereno sole autunnale e brezza di ponente oggi (il 3)

mentre sto qui seduto e dinanzi a me la superficie dell'acqua s'increspa con grazia al vento. Sopra un vecchio enorme

faggio sul ciglio dell'acqua, imputridito e pencolante, quasi caduto nel ruscello, ma con le membra muschiose ancora

ricche di vita e di foglie, scorrazza uno scoiattolo grigio in esplorazione, sventaglia la coda, balza a terra, al vedermi si

ferma ritto sulle cosce (un indizio darwiniano?) e risale precipitosamente sull'albero.

4 ottobre. Nuvolo, ha rinfrescato; segni dell'inverno incipiente. Eppure bello qui, con le foglie che cadono fitte

e la terra che ne è già fatta bruna; sfarzo di colori, tutti i toni del giallo, verdi pallidi e cupi, gradazioni di rosso dal più

tenue al più carico - tutti incorniciati e smorzati dal bruno dominante della terra e dal grigio del cielo. Dunque sta

venendo l'inverno, e io sono sempre malato. Rimango qui seduto tra queste visioni incantevoli e queste influenze vitali,

e mi abbandono a quel pensiero, con tutto il suo errabondo corteo di meditazioni.

IL CIELO - GIORNI E NOTTI - FELICITÀ

20 ottobre. Giorno terso, frizzante - aria asciutta e ricca d'ossigeno, un po' di brezza. Tra i salubri, silenziosi e

splendidi miracoli che mi avvolgono e mi commuovono - alberi, acqua, erba, sole e prime brine - quello che oggi sto

osservando di più è il cielo. Ha l'azzurro delicato e trasparente proprio dell'autunno, le sue uniche nuvole sono candide,

piccole o poco più grandi, e trasmettono alla gran conca il loro movimento calmo e spirituale. Durante la prima parte

del giorno (diciamo dalle 7 alle 11) si mantiene d'un azzurro puro ma vivido. Ma approssimandosi mezzogiorno il

colore sbiadisce, si fa grigio per due o tre ore - poi ancora più pallido per un breve periodo, fino al tramonto -.49

quest'ultimo mi fermo a contemplarlo mentre sfiamma tra gli interstizi di un poggio fitto di grossi alberi - dardi di fuoco

e fantastico sfoggio di giallo-chiaro, rosso-bruno e scarlatto, con un disteso lucore argenteo obliquo sull'acqua - ombre

diafane, frecciate di luce, sfavillìo, e colori vividi come nei quadri non si son mai visti.

Non so perché né come, ma mi sembra che proprio grazie a codesti cieli (talora penso che pur avendoli

naturalmente visti ogni giorno della mia vita, in realtà io non abbia mai visto i cieli prima d'ora) ho goduto

quest'autunno alcune ore di meravigliosa contentezza - o non potrei forse dire di felicità perfetta? Ho letto che Ryron in

punto di morte disse a un amico di non aver conosciuto in tutta la sua vita che tre ore di felicità. Sullo stesso argomento

v'è anche l'antica leggenda tedesca della campana del re. Mentre mi trovavo lassù presso il bosco, con quel bel tramonto

tra gli alberi, ripensavo a Byron e alla storia della campana, e si fece strada in me, di colpo, la consapevolezza che stavo

vivendo un'ora di felicità. (Sebbene forse dei momenti migliori io non riesca mai a prender nota: quando giungono non

posso permettermi di spezzare l'incanto redigendo memorie; mi abbandono allo spirito del momento, null'altro, e lo

lascio fluire e trascinarmi nella sua placida estasi).

Che cos'è, in fondo, la felicità? È questa un'ora di felicità, o qualcosa che le somiglia? - così impalpabile - solo

un soffio, una sfumatura evanescente? Non saprei dirlo - mi lascerò il beneficio del dubbio. Forse nelle Tue profondità

azzurrine, Tu sommamente luminoso, hai un rimedio per casi come il mio? (ah, lo sfacelo fisico e lo spirito tormentato

di questi miei tre anni!) Non starai Tu ora distillandolo sottilmente, misticamente nell'aria, che piova invisibile su di

me?

Notte del 28 ott. I cieli di una trasparenza insolita - le stelle fuori a miriadi - il gran sentiero della Via Lattea

con tutte le sue diramazioni, visibili solo in notti limpidissime - Giove, che sta tramontando a ponente, sembra un

enorme schizzo lanciato a caso, e ha una piccola stella per compagna.

Vestito dei suoi abiti bianchi

Lentamente nella tonda arena deserta entrò il bramino,

Conducendo un bimbo per la mano

Come la luna Giove in un cielo notturno senza nubi.

(Antico poema indù)

Primi di novembre. All'altra estremità, la terra che ho descritto s'apre in un ampio pianoro erboso di più di

venti acri, che declina leggermente dalla parte sud. Qui vengo solitamente a passeggiare quando voglio godermi la vista

del cielo o alcuni effetti particolari, sia al mattino che al tramonto. Su questi campi oggi la mia anima è in pace e

dilatata oltre ogni possibile descrizione, dopo l'intera mattinata trascorsa qui, grazie alla gran cupola di limpido azzurro,

senza nubi, senza nulla di speciale, solo cielo e luce. Come dolce accompagnamento, foglie d'autunno, l'aria secca e

frizzante, il lieve aroma - corvi che gracchiano in distanza - due grandi poiane che ruotano lente e aggraziate lassù - di

quando in quando il murmure del vento, talora delicatissimo, - poi minaccioso tra gli alberi - un gruppo di contadini che

caricano covoni in un campo di granturco non distante, e i cavalli che attendono pazienti.

COLORI - UN CONTRASTO

Un tal giuoco di colori e di luci, come variano le stagioni, le ore del giorno - le linee del lontano orizzonte dove

l'orlo sfocato del paesaggio si perde nel cielo.

Mentre ripercorro zoppicando il sentiero, al morire del giorno, ecco scoppia un tramonto incomparabile, zaffiro

e oro liquefatti, pioggia di dardi tra i filari del granturco dalle lunghe foglie, a mezza via tra me e l'occidente.

Un altro giorno. Il sontuoso verde-cupo dei magnoli e delle querce, il grigio dei salici d'acquitrino, i toni spenti

dei sicomori e dei noci americani, lo smeraldo dei cedri (dopo la pioggia), e il giallo delicato dei faggi.

8 NOVEMBRE 1876

Mattinata plumbea, nuvolosa, non proprio freddo né umido, ma preludio dell'uno e dell'altro. Scendo quaggiù

zoppicando, mi siedo presso lo stagno silenzioso - quanto lontana l'eccitazione con cui oggi milioni di persone nelle

città attendono notizie dell'elezione del Presidente, avvenuta ieri, ne ricevono e discutono i risultati - in questo luogo

tagliato fuori dal mondo, di cui nessuno si cura e che nessuno conosce.

CORNACCHIE A STORMI.50

14 novembre. Un tiepido languore di sole mi inonda, mentre sto qui seduto presso il ruscello a riposare, dopo la

mia passeggiata. Non suoni se non un gracidar di cornacchie, non movimenti se non le loro nere forme in volo riflesse

dall'alto nello specchio dello stagno sottostante. Invero uno dei lineamenti essenziali della scena di oggi sono proprio

queste cornacchie, il loro gracchiare incessante, vicino o lontano, e i loro innumerevoli stormi, processioni trasmigranti

da un luogo all'altro, miriadi d'uccelli, che a volte quasi abbuiano l'aria. Mentre mi siedo un attimo sulla sponda a

scrivere queste note, riflesse giù nello stagno scorgo le loro nere, nitide forme trasvolare lo specchio dell'acqua a una, a

due, o in lunghe file. Tutta notte ho udito il chiasso del loro gran nido in un bosco vicino.

GIORNATA D'INVERNO SULLA SPIAGGIA

Un luminoso meriggio di dicembre ho trascorso recentemente sulla spiaggia del New Jersey, raggiunta in poco

più di un'ora di treno sulla vecchia linea Camden-Atlantic. Ero partito per tempo, rinfrancato da un bel caffè forte e da

una buona colazione (preparata dalle mani che amo, quelle della mia cara sorella Lou - come migliora allora il gusto

delle vivande, come si assimilano facilmente, e vi dan forza, rendendo magari più piacevole l'intera giornata che viene).

A cinque o sei miglia dal termine, la strada ferrata entrò in una vasta regione di prati salati, intersecati da lagune e

frastagliati per ogni dove da corsi d'acqua. Il profumo dei caríci, delizioso alle mie narici, mi ricorda il mash, e la baia

meridionale della mia isola nativa. Avrei potuto continuare a viaggiare felice fino a notte in quelle praterie marine piatte

e odorose. Dalle undici e mezzo alle due rimasi quasi ininterrottamente sulla spiaggia, o in vista dell'oceano,

ascoltandone il mormorìo roco e respirando a pieni polmoni le sue brezze tonificanti e gradite. Dapprima una corsa

veloce di cinque miglia sulla sabbia dura - le ruote della nostra carrozza quasi non vi lasciavano segno. Poi, dopo

pranzo (c'erano circa due ore libere), mi incamminai in un'altra direzione (direi di non aver visto né incontrato anima

viva), e insediatomi in quella che all'apparenza sembrava la sala di ritrovo di un vecchio stabilimento di bagni, ebbi

tutta per me la vista di un'ampia distesa di paesaggio - strano, aperto, vivificante - un'asciutta area di carici e d'erba

indiana immediatamente di fronte e tutt'intorno a me - spazio, semplice spazio disadorno. Vascelli in distanza, e il

remoto e appena visibile filo di fumo di un vapore diretto a terra; più chiari in vista, bastimenti, brigantini, golette, i più

con tutte le vele spiegate al vento, che era robusto e costante.

L'attrazione, il fascino del mare e della costa! Come ci si perde nella loro semplicità, vacuità persino! Che cosa

c'è in noi, che viene risvegliato da quei suggerimenti diretti e indiretti? Quella distesa d'onde e di rena bianco-grigia,

salata, monotona, ottusa - un'assenza così totale d'arte, libri, conversazioni, eleganza - così indescrivibilmente

rasserenante persino in questa giornata d'inverno - austera, ma con un che di delicato, così spirituale - capace di

smuovere impalpabili abissi di emozione, più sottili di qualsiasi poesia, pittura o musica ch'io abbia mai letto, visto o

udito. (Ma a esser sinceri, non sarà proprio perché ho letto quelle poesie e ascoltato quella musica?)

FANTASIE DELLA SPIAGGIA

Sin da bambino avevo la fantasia, il desiderio di scrivere qualcosa, forse una poesia, sulla spiaggia marina -

quella linea divisoria e allusiva, contatto, unione, il solido che sposa il liquido - quella cosa inafferrabile e strana (al

modo che, immancabilmente, ogni forma oggettiva finisce per apparire allo spirito soggettivo), che significa molto di

più di quanto non sembri a prima vista, per grandiosa che sia - fusione di reale e ideale, e l'uno fatto parte dell'altro. Ore

e giorni ho passato, durante la mia giovinezza e prima virilità a Long Island, vagabondando per le spiagge di RocLaway

e Coney Island o, più a est, fino agli Hamptons o Montauk. In quest'ultimo posto una volta (presso il vecchio faro,

senz'altro in vista che lo scavallar del mare in ogni direzione, fin dove giungeva lo sguardo) sentii, ricordo bene, di

dover un giorno scrivere un libro che desse forma a questo liquido, mistico tema. E rammento come venne in seguito

l'intuizione che, anziché il tema di un particolare tentativo lirico, epico o letterario, la riva del mare dovesse costituire

una influenza invisibile, la pervasiva presenza, nella mia composizione, di una misura e di un controllo. (Permettete che

io dia qui un suggerimento ai giovani scrittori. Non so se, inconsciamente, io non abbia seguito la stessa norma con altre

potenze naturali, oltre al mare e alla spiaggia - evitandole, evitando cioè ogni aprioristica intenzione di farne poesia, in

quanto troppo vaste per un trattamento formale - ben contento se solo riuscissi indirettamente a suggerire che ci siamo

incontrati e fusi, anche una volta sola, ma a sufficienza - che ci siamo realmente assorbiti a vicenda e ci comprendiamo).

V'è un sogno, un'immagine, che per anni, a intervalli (molto lunghi a volte, ma sempre con la certezza del

ritorno a tempo dovuto) mi si è silenziosamente ripresentata, e che io veramente credo, pur se mera finzione, entrata in

larga misura nella mia vita d'ogni giorno - nei miei scritti senza dubbio, cui ha dato forma e colori. Questa è null'altro

che un'interminabile distesa di sabbia bianco-sporco, dura e liscia e larga, con l'oceano che perennemente,

maestosamente, vi si rovescia sopra con ritmo lento e misurato, e fruscìi e fischi e schiuma, e molti colpi sordi come di

timpani scuri. Questa scena, quest'immagine, dico, mi si è ripresentata a volte per anni. Talora svegliandomi la notte

posso udirne il suono e vederla nitidamente..51

IN MEMORIA DI THOMAS PAINE

Conferenza tenuta alla Lincoln Hall di Filadelfia domenica 28 genn. '77, per il 140° anniversario della nascita

di T. P.

Circa trentacinque anni fa, a New York, alla Tammany Hall, di cui ero a quel tempo un frequentatore, conobbi

casualmente e presi a praticare l'amico forse più intimo di Thomas Paine, e per certo il compagno più fedele dei suoi

ultimi anni, il colonnello Fellows, un vecchio signore assai distinto che forse qualcuno degli sparsi superstiti di quel

tempo e di quel luogo ricorda ancora. Se me lo permettete, vorrei prima descrivervi il Colonnello in persona. Era alto,

portamento militare, direi sui 78 anni, capelli bianchi come neve, faccia ben rasata, molto accurato nel vestire, marsina

azzurra con bottoni di metallo, panciotto di pelle scamosciata, pantaloni color beige, e il collo, il petto e i polsi su cui

spiccava la biancheria più candida della terra. Bei modi in qualsiasi circostanza; buon parlatore ma non verboso,

pienamente padrone di sé, equilibrato, vivace e limpido quant'altri mai. Godeva di ottima salute sebbene così anziano.

Come impiego - era povero infatti - aveva un posto di usciere in qualche tribunale superiore: io usavo immaginarmelo ai

bordi di una folla, molto pittoresco, con una lunga mazza in mano, con quella sua statura eretta e quella splendida testa

scoperta, coi fitti capelli tagliati cortissimi. I giudici e i giovani avvocati, che lo avevano sempre in gran simpatia e

rispetto, lo chiamavano Aristide. Era opinione generale tra questi che, se mai esisteva ancora, tra il municipio di New

York e la Tammany, qualche residuo vitale di virile rettitudine e istinti di giustizia assoluta, questi erano da ricercarsi

nel Col. Fellows. Egli amava i giovani, e gli piaceva intrattenersi con loro dopo una giornata di lavoro a chiacchierare a

bell'agio tra un bicchiere di ponce e l'altro (tuttavia in queste occasioni egli non ne beveva mai più d'uno); e fu proprio

nelle frequenti riunioni di questo genere, nella vecchia saletta interna della Tammany Hall di allora, che egli mi parlò a

lungo di Thomas Paine. Durante uno di quei nostri incontri mi fece un resoconto dettagliato della malattia e della morte

di Paine. In breve, da quei colloqui io uscii convinto, e lo sono ancora, che il mio vecchio amico, grazie ai suoi notevoli

vantaggi, avesse ben calibrato mentalmente, moralmente e emotivamente l'autore di Common Sense e che, oltre a

offrirmi un ritratto soddisfacente della sua persona e dei suoi modi, avesse colto con esattezza la misura interiore della

sua personalità.

L'atteggiamento pratico di Paine, come gran parte del suo credo teorico, era un misto della scuola francese e di

quella inglese di un secolo fa, e il meglio di ambedue. Come molta gente dei tempi andati, beveva un bicchiere o due al

giorno, ma non era né un bevitore né un intemperante, e men che mai un ubriacone. Viveva in modo semplice e sobrio,

ma piuttosto bene - sempre allegro e cortese, forse ogni tanto un po' brusco, come chi ha idee perentorie e sue sulla

politica, la religione eccetera. Che egli abbia svolto bene e saggiamente il suo lavoro per gli Stati nel difficile periodo

della loro gestazione e durante la germinazione profonda del loro carattere, mi sembra fuori dubbio. Non saprei dire

quanto di ciò che la nostra Unione oggi possiede e di cui usufruisce - l'indipendenza - l'ardente fede nei diritti

fondamentali dell'uomo e il loro riconoscimento pratico - la separazione del governo da ogni potere ecclesiastico e dalle

superstizioni - non saprei dire quanto di tutto ciò sia dovuto a Thomas Paine, ma sono propenso a credere che in buona

parte decisamente lo sia.

Non era tuttavia mia intenzione addentrarmi in una analisi o in un elogio dell'uomo Paine. Volevo riportarvi

indietro di una generazione o due, e darvi per via indiretta la visione di un momento - e ventilarvi anche un'opinione, o

meglio convinzione di quel tempo, molto onesta e credo autentica, frutto dei colloqui cui ho fatto cenno, di inchieste e

contraddittòri, e confermata in seguito dal meglio delle mie informazioni - l'opinione cioè che Thomas Paine possedesse

una nobile personalità, riconoscibile nella sua stessa persona fisica, viso, voce, abiti e modi, e in quel che potrebbe

definirsi la sua atmosfera personale, il suo magnetismo; specialmente negli ultimi anni. Su questo io non ho dubbi.

Quanto alle storie false e assurde che ancora circolano sulle circostanze del suo decesso, la cosa assolutamente fuor di

dubbio si è che, com'egli visse una buona vita nel suo genere, così serenamente e filosoficamente trapassò, secondo che

a lui si addiceva. Egli servì l'Unione, ancora in stato embrionale, con preziosissimo servigio - un servigio di cui ogni

uomo, donna o bambino dei nostri trentotto stati sta oggi ricevendo in qualche misura i benefici; e quanto a me, con

animo gioioso e reverente ecco io depongo il mio ciottolo sul tumulo della sua memoria. Come tutti sappiamo, questo

momento richiede - ma ci sarà mai un momento che non lo richieda? - che l'America apprenda a soffermarsi con più

attenzione su ciò che di più eletto possiede, il lascito dei suoi uomini più onesti e fedeli - che ne preservi debitamente la

fama, se questa è riconosciuta - o che, se necessario, provveda a sgombrare le eventuali nubi che su tale fama si siano

addensate e, lustrandola, la renda perennemente più nuova, più rispondente a verità, più luminosa.

DUE ORE DI NAVIGAZIONE TRA I GHIACCI

3 febb. '77. Dalle 4 alle 6 del pomeriggio tra i ghiacci, durante la traversata del Delaware (di ritorno alla mia

casa di Camden) senza riuscire a prender terra.

Un battello solido e robusto il nostro, e abilmente pilotato, ma vecchio e bizzoso, e poco disposto a seguire il

timone. (La forza, così importante in poesia e in guerra, è anche il primo requisito di un vapore che batta acque

invernali, con lunghi banchi di ghiaccio da combattere). Vagammo per più di due ore, sballottati di qua e di là;

l'invisibile flusso della marea ci trascinava spesso contro la nostra volontà per tratti lunghissimi, lenta ma irresistibile..52

Guardandomi intorno, mentre baluginava ormai il crepuscolo, pensai che scena più agghiacciante, artica, deprimente

nella sua sinistra vastità non potesse presentarsi. Ci si vedeva ancora chiaramente: per miglia e miglia a nord e a sud,

ghiaccio e ghiaccio e ghiaccio, spezzettato per lo più, ma con qua e là un grosso blocco isolato, e l'acqua che sembrava

scomparsa. La costa, i moli, spiazzi, tetti, imbarcazioni, tutto ammantato di neve. Un sottile vapore invernale si librava

intorno e sopra il paesaggio, acconcio accompagnamento a quella sterminata distesa bianchiccia, dandole appena una

sfumatura tra il metallico e il bruno.

6 Febb. Di nuovo sul battello delle 6 pom., diretto a casa; la trasparenza delle ombre viene man mano riempita

ovunque da fiocchi di neve curiosamente radi, ma grossissimi, che scendono piano, leggermente di sbieco. Sulle coste,

vicino o lontano, l'intermittente bagliore dei lampioni a gas appena accesi. Ghiaccio ora in blocchi crestati, ora in

banchiglie galleggianti, tra cui il nostro battello procede scricchiolando. La luce tutta permeata di quella particolare

foschia vespertina, subito dopo il tramonto, che rende talora distintissimi oggetti molto lontani.

OUVERTURES PRIMAVERILI - RICREAZIONI

10 febb. Oggi il primo ciangottìo di un uccello, già quasi canto. Ho notato poi una coppia di pecchie che

piroettavano ronzando intorno alla finestra aperta, nel sole.

11 febbr. Nel rosa smorzato e oro pallido della luce che smuore, questa bella sera, ho udito il primo brusìo, la

preparazione della primavera al risveglio - debolissimo - nella terra forse, o nelle radici, o era lo smuoversi degli insetti,

non so - ma lo potevo sentire, mentre me ne stavo appoggiato a una staccionata (sono tornato per un poco alla mia

dimora di campagna) con lo sguardo fisso sull'orizzonte, a ponente. Volgendomi a est, come s'infittirono le ombre, vidi

Sirio balzar fuori in accecante splendore. E il grande Orione; e poco più a nord-est, il Gran Carro a pernio sull'asse.

20 febb. Un'ora solitaria e piacevole trascorsa al calar del sole presso lo stagno, esercitando braccia e torace e

tutto il corpo su un gagliardo rampollo di quercia non più spesso del mio polso, alto dodici piedi - tirando e spingendo, e

aspirando l'aria buona. Dopo aver lottato per un poco con l'albero, sento zampillare dal suolo la sua giovane linfa e il

suo valore, e spandermisi brucianti per il corpo dalla testa ai piedi, come un vino di salute. Allora, come completamento

e diversivo, mi tuffo nei miei vocalizzi: urlo brani declamatori, sentimenti, dolore, ira ecc. da poeti e drammi di

repertorio - oppure mi riempio i polmoni e attacco i motivi e i ritornelli selvaggi che ho udito dai negri nel Sud, o i canti

patriottici imparati nell'esercito. E ne sveglio di echi, parola mia! Al calar del crepuscolo, durante una pausa di queste

mie ebollizioni, da qualche parte sull'altra riva del ruscello un gufo lanciò un tuù-tuù basso e pensoso (e anche un

tantino sarcastico, a parer mio) che ripeté poi quattro, cinque volte. Forse un applauso per i canti negri - o forse un

ironico commento al dolore, all'ira e allo stile dei miei poeti.

UNA UMANA STRANEZZA

Come avviene che nonostante la serenità e l'isolamento della solitudine, quaggiù nel silenzio della foresta o,

come ho notato, nella desolazione della prateria o nella immobilità della montagna, soli, non ci si libera mai

completamente dell'istinto di guardarsi attorno (io mai, e neppure altri, a quanto mi confidano), come se da un istante

all'altro dovesse comparire qualcuno, balzando magari dalla terra, o da dietro un albero o una roccia? È forse un residuo

ereditario, persistente, della primitiva sospettosità dell'uomo, avvezzo agli animali selvatici? O dei suoi selvaggi

antenati addietro nel tempo? Non è affatto nervosismo, o paura. È come se qualcosa di ignoto fosse davvero in agguato

tra quei cespugli, in quei luoghi deserti. Anzi, direi che sicuramente c'è - qualche non vista presenza vitale.

PAESAGGIO POMERIDIANO

22 febb. Ieri e oggi, cielo pesante e pioggia fino a metà pomeriggio quando, mutato il vento, le nubi

velocemente si ritrassero come un sipario, e il sereno apparve, e con esso il più bello, il più superbo e fantastico

arcobaleno che io abbia mai visto, completo, smagliante alle estremità, che effondeva per tutto il cielo vaste irradiazioni

di vapore luminescente, violetto, giallo, verdastro, tra cui dardeggiava il sole - un profluvio indescrivibile di colore e di

luce, così sfarzoso e a un tempo delicato quale non avevo mai contemplato prima. E poi la durata: un'ora buona

trascorse prima che l'ultima delle sue falde sparisse completamente. Il cielo dietro era tutto soffuso d'un traslucido

azzurro, con molte nuvolette e creste bianche. A tanto si aggiunse un tramonto che, sontuoso, pieno, venne a saziare e a

dominare ogni senso estetico e ogni facoltà dell'anima. Termino questo appunto presso lo stagno, luce appena quanto.53

basta per discernere, tra le ombre della sera, i riflessi del cielo a ponente nello specchio dell'acqua. A tratti il flap di un

luccio che balza increspando la superficie.

S'APRONO I CANCELLI

6 apr. Primavera tangibile ormai, o almeno i suoi sintomi. Sono seduto in pieno sole, sul ciglio del ruscello, la

superficie appena increspata dal vento. Tutto è solitudine, frescura mattutina, abbandono. Unica compagnia i miei due

martin-pescatori che planano, piroettano, sfrecciano, si tuffano, separandosi a volte capricciosamente per poi tornare a

volare appaiati. Ascolto, ripetuto innumerevoli volte, il loro gutturale zufolio; per un poco non v'è altro suono al di fuori

di questo così particolare. Approssimandosi mezzogiorno altri uccelli cominciano a scaldarsi. Ecco le note esili del

pettirosso, e un passaggio musicale in due parti, di cui una un gorgheggio limpido, delizioso, insieme alle voci di

parecchi altri uccelli che non riesco a distinguere. A queste si unisce (eccolo, proprio ora) l'ansimare roco, intermittente,

di certe raganelle smaniose al bordo dell'acqua. Di quando in quando il mormorio di una brezzolina vigorosa sibilante

fra gli alberi. Poi, una povera fogliolina morta, gelata ormai da tempo, scende a spirale da chissà dove lassù

riguadagnando in un selvaggio tripudio di libertà lo spazio e la luce, e precipita quindi nell'acqua, che l'afferra tenendola

sospesa e subito l'ingoia sottraendola alla vista. Alberi e arbusti sono ancora nudi, ma i faggi han conservato dall'ultima

fioritura molte delle loro foglie gialle e grinzose, molti cedri e pini sono tuttavia verdi, e l'erba non senza indizi della

pienezza vicina. E su tutto una meravigliosa cupola di limpido azzurro, il giuoco della luce che viene e va, e immensi

velli di nuvole candide che nuotano silenziosamente.

LA SEMPLICE TERRA, IL SUOLO

Anche il suolo - che altri tratteggino in punta di penna il mare, l'aria (lo faccio anch'io talvolta) - ma in questo

momento io mi sento di scegliere come tema il semplice suolo, e null'altro. Questa terra bruna, qui (proprio tra la fine

dell'inverno e gl'inizi della primavera e della vegetazione) - il rovescio di pioggia la notte e il fresco odore la mattina

dopo - i lombrichi che sbucano contorcendosi dal terreno - le foglie morte, l'erba nascente, e la vita che urge sotto - lo

sforzo per dare inizio a qualcosa - già qualche fiorellino negli angoli più riparati - in distanza la pompa smeraldina del

grano invernale e dei campi di segale - gli alberi ancora nudi, con dei vuoti netti che lasciano intravvedere prospettive

nascoste poi in estate - il duro maggese e i cavalli all'aratro, con il ragazzotto robusto che li incita fischiando - e intorno

la grassa terra scura, rivoltata in lunghe strisce oblique.

UCCELLI, UCCELLI, UCCELLI

Un po' più tardi - tempo splendido. Un'insolita atmosfera melodica, in questi giorni (ultimi d'aprile e primi di

maggio) dovuta ai merli; o meglio a tutte le possibili specie di uccelli, che svolano e fischiano e saltellano o se ne

stanno posati sui rami. Mai dianzi ne ho visti e uditi e avuti intorno in sì gran numero, a farmi sommergere a saturare

dai loro concerti, come in questo mese. Una vera marea, un'ondata dopo l'altra. Permettete che vi faccia la lista di quelli

che trovo qui:

Merli (moltissimi)

Allodole (moltissime)

Palombelle

Dumetelle (moltissime)

Civette

Cuculi

Picchi

Beccaccini (in quantità)

Paradisee

Pipili

Cornacchie (in quantità)

Aironi notturni

Scriccioli

Pettirossi

Martin-pescatori

Corvi

Quaglie.54

Grigie

Poiane

Aquile

Falchi

Picchi verdi

Cardellini

Aironi

Tordi

Cince

Doliconici

Piccioni selvatici

I primi a venire sono stati:

Pettazzurro

Allodola

Piviere

Rondone a petto bianco

Vanello

Piovanello

Pettirosso

Tordo di Wilson

Beccaccia

Picchio americano

NOTTI STELLATE

21 maggio. Di nuovo a Camden. Ecco spuntare una di quelle notti d'insolita trasparenza, brulicanti di stelle, di

un blu quasi nero, come a provare che esiste, nel non-giorno, qualcosa capace di umiliare il giorno più lussureggiante e

fastoso. Dal tramonto fino alle 9 di sera, i più belli, i più rari esempi di chiaroscuro prolungato che si sian mai visti.

Sono sceso al Delaware e ho compiuto la traversata più volte. Venere alta a occidente, come infocato argento. La gran

felce sottile e pallida della nuova luna, sorta già da mezz'ora, affonda languida dietro una banda di vapori riaffiorandone

subito dopo. Da sud folate leggiere di fragranza marina. Il crepuscolo, la delicata frescura, ogni particolare della scena

così indicibilmente tonico e rasserenante - è questa una di quelle ore ricche di suggerimenti per l'anima che è

impossibile chiudere in una definizione. (Ah, dove mai si troverebbe cibo per lo spirito, senza la notte e le stelle?) La

vacua spaziosità dell'aria e l'azzurro velato dei cieli sembravano già miracoli bastanti.

La notte, avanzando, assunse spirito e abiti di più distesa solennità. Io avevo quasi la consapevolezza di una

presenza ben precisa, la Natura silenziosamente vicina. La grande costellazione dell'Idra protendeva i suoi tentacoli per

più di metà della volta celeste. Il Cigno scendeva ad ali spiegate per la Via Lattea. La Corona Boreale, l'Aquila, la Lira,

tutte su al loro posto. Da tutta la gran cupola, attraverso il nero-blu degli spazi, piovevano punte di luce, comunicazione

con il mio essere. Il normale senso del moto e ogni concetto di vita animale sembravano rifiutati, apparivano frutti

dell'immaginazione; subentrò invece uno strano potere, simile al placido riposo delle divinità egizie, ma non meno

possente di quelle per essere così impalpabile. Poco prima avevo visto molti pipistrelli sospesi nel luminoso crepuscolo,

le piccole forme nere che guizzavano qua e là sul fiume; ma ora erano completamente scomparsi. Andate anche la stella

della sera e la luna. Tensione e pace giacevano quietamente assieme nelle fluide ombre dell'universo.

26 ag. La giornata è stata bella, e il mio morale in continuo forzando. Ed ecco viene la notte, diversa,

ineffabilmente pensosa, con quello splendore tenero e moderato che le è proprio. Venere indugia a occidente in un

voluttuoso fulgore mai esibito ancora questa estate. Marte si leva per tempo, e con lui il rosso broncio della luna che due

giorni fa era piena; Giove sul meridiano della notte, e a sud la lunga spirale inclinata dello Scorpione con Aretusa

incastonata sul collo. Marte incede adesso per gli spazi, signore assoluto; ogni sera, per tutto questo mese, sono uscito a

cercarlo, alzandomi talora a mezzanotte per dare un altro sguardo a quella sua impareggiabile lucentezza. (Mi consta

che un astronomo ha accertato poco tempo fa, con il nuovo telescopio di Washington, che Marte possiede per certo una

luna, e forse due). Pallido e distante, ma vicino nel cielo, lo precede Saturno.

VERBASCO A PROFUSIONE.55

Grandi, placidi verbaschi, come avanza l'estate, fibra di velluto, delicato color verde smorto, sempre più fitti

ovunque nei campi - aggruppati dapprima, quasi grosse coccarde della terra, in quei bassi cespi di grandi foglie, otto,

dieci, venti foglie per pianta - rigogliosi sul terreno incolto di una ventina d'acri alla fine del sentiero, e in ispecie sulle

spallette di terra a ridosso delle palizzate - per un poco vicini al suolo, ma poi subito scattanti verso l'alto - foglie larghe

quanto la mia mano e, le più basse, lunghe il doppio - così fresche e rugiadose al mattino - gli steli adesso già alti

quattro o cinque piedi, a volte anche sette o otto. I contadini, mi dicono, stimano il verbasco erba umile e disutile, ma io

ho preso ad amarlo teneramente. Ogni oggetto racchiude in sé la sua lezione, in cui è implicita l'allusione a tutte le altre

cose - e io ultimamente ho cominciato a pensare che tutto sia concentrato, per me, in queste erbacce gagliarde dai fiori

gialli. Al mattino presto, quando esco e percorro il vialetto, mi fermo di fronte a quei soffici fiocchi lanuginosi e steli e

grandi foglie su cui scintillano innumerevoli diamanti. Da un anno all'altro, e sono ormai due o tre estati, ci siamo dati

silenziosamente convegno: e a intervalli sì lunghi di tempo io torno a sedermi o semplicemente a stare tra loro,

meditando, insieme a tutto il resto, sulle molte ore e stati d'animo di parziale ripresa, sui momenti di salute o di

squilibrio del mio spirito - qui veramente vicino alla pace.

SUONI LONTANI

L'ascia del boscaiolo, i tonfi misurati di un'unica trebbiatrice, il canto di un gallo nell'aia (con le immancabili

risposte da altre aie) e il mugghiare delle mandrie - ma più di ogni altra cosa, vicino o lontano, il vento - tra gli alti

vertici degli alberi o i bassi cespugli, quando ti lambisce leggiero mani e viso, in questo profumato meriggio di luce, il

più fresco da molto tempo a questa parte (2 sett.) - Non voglio chiamarlo sospiro , per me rimane sempre un'espressione

definita, sana, gioiosa, anche se monotona, e capace di molte variazioni, ora lente ora veloci, delicate o intense. Il vento

nella pineta laggiù, come sibila! O sul mare, posso immaginarmelo in questo momento squassar le onde, con spruzzi di

spuma che volano lontano, e il libero fischio, e l'odore del sale - e il grandioso paradosso per cui, nonostante tutto

quell'agitarsi e quella irrequietezza, vi comunica in qualche modo un senso di infinito riposo.

Altre note. Ma il sole e la luna, qui e in questa stagione! Mai più splendido in pieno giorno, il fantastico orbe

imperiale, così vasto, così ardentemente e amorevolmente prodigo di calore - e mai più gloriosa luna, specialmente in

queste ultime tre o quattro notti. E anche i pianeti maggiori - Marte mai visto così fiammeggiante, un globo di luce, con

pallide sfumature gialle (dicono gli astronomi - sarà poi vero? - che da un secolo a questa parte non è mai stato così

vicino alla terra) - e, ormai alto, padre Giove, che solo poco fa era vicinissimo alla luna - e a occidente, sparito il sole, la

voluttuosa Venere, languida adesso e spoglia di raggi, come per un qualche divino eccesso.

UN BAGNO DI SOLE - NUDITÀ

Domenica 27 agosto. Un altro giorno libero da prostrazione e da sofferenze degne di nota. È anzi come se dal

cielo sottilmente filtrassero in me nutrimento e pace, mentre mi trascino claudicando per questi viottoli di campagna e

per i campi, nell'aria buona - quando sono qui seduto in solitudine con la Natura - aperta, muta, mistica, remota, ma

palpabile ed eloquente Natura. Mi immergo nella scena, nel giorno perfetto. Chinandomi sulle limpide acque del

ruscello, ecco, qui mi conforta il suo gorgoglìo sommesso, lì il murmure più roco della sua cascatella alta tre piedi.

Venite, voi sconsolati, cui sia rimasta ancora qualche possibilità, sia pur latente - venite a godere le sicure virtù della

sponda, del bosco e del campo. Per due mesi (luglio e agosto '77) io le ho assorbite, e ora esse cominciano a fare di me

un uomo nuovo. Tutti i giorni completa solitudine - tutti i giorni almeno due o tre ore di libertà, bagni, niente

chiacchiere, niente ingombri, niente abiti, libri, belle maniere.

Debbo dirti, lettore, a che cosa io attribuisco la mia salute già tanto ristabilita? All'esser stato più o meno due

anni senza decotti né medicine, e sempre, ogni giorno, all'aria aperta. La scorsa estate scoprii, un po' discosta dal mio

ruscello, una valletta singolarmente solitaria, originariamente una grossa cava di marna, poi abbandonata, e riempita ora

da cespugli, alberi, erba, un gruppetto di salici, uno spallone scosceso di terra e una polla di acqua deliziosa che la taglia

giusto nel centro, con due o tre cascatelle. Qui usavo rifugiarmi nei giorni di gran caldo, e continuo a farlo questa estate.

Qui acquista un senso il discorso del buon vecchio che asseriva di sentirsi raramente meno solo di quando era solo. Mai

prima ero giunto così vicino alla Natura, e mai prima ella s'era tanto avvicinata a me. Seguendo un'antica abitudine, di

tanto in tanto annotavo, lì per lì e quasi automaticamente, stati d'animo e paesaggi, ore, sfumature e contorni. In modo

particolare vorrei oggi fermare sulla carta il senso di pienezza di questa mattinata, così serena e primitiva, così

convenzionalmente straordinaria, naturale.

Circa un'ora dopo colazione m'incamminai verso gli angoli solitari di codesta valletta, che io e certi tordi e

dumetelle ecc. avevamo tutta per noi. Tra le cime degli alberi spirava un leggero vento di sud-ovest. Erano proprio il

luogo e l'ora del mio bagno d'aria adamitico e delle mie frizioni da capo a piedi. Così, appesi gli abiti a una staccionata

lì presso, ma tenendomi in capo la mia vecchia paglia a larghe tese e ai piedi un paio di scarpe da strapazzo, che

divertimento queste ultime due ore! Dapprima a sfregar braccia, petto e fianchi con setole elastiche e dure finché non.56

furon scarlatti - poi un mezzo bagno nelle limpide acque del ruscello - prendendo tutto con comodo, tra pause e riposi -

andandomene di tanto in tanto a sguazzar scalzo in qualche gora nerastra lì intorno per ristorarmi i piedi con un untuoso

bagno di fango - poi una seconda e una terza risciacquatura veloce nell'acqua cristallina del rivo - una strofinata con

l'asciugamano di bucato - lente passeggiatine neghittose sull'erba, su e giù nel sole, variate da occasionali riposi e

ulteriori frizioni con la spazzola - a volte tirandomi dietro da un posto all'altro la mia sedia pieghevole, dacché il mio

raggio d'azione qui è piuttosto ampio, un centinaio circa di pertiche in cui mi sento completamente al sicuro da ogni

intrusione (la qual cosa peraltro non mi innervosirebbe affatto, anche se dovesse incidentalmente accadere).

Mentre camminavo lentamente sull'erba, il sole facendosi più vivido mise in risalto l'ombra che si muoveva

con me. Parvemi allora che in qualche modo io mi stessi identificando con ognuna e tutte le cose intorno a me, nella

loro condizione naturale. La Natura era nuda, e così ero io. Era una sensazione di troppo pigra, distesa e placida gioia

per specularci su. Tuttavia i miei pensieri avrebbero potuto avere un'intonazione di questa sorta: Forse quell'intimo e

mai perduto rapporto che noi conserviamo con la terra, la luce, l'aria, gli alberi, ecc., non dev'essere verificato solo

attraverso gli occhi e la mente, bensì con tutto il corpo, che non mi lascerò accecare o bendare più che non gli occhi.

Dolce, sana, tranquilla nudità della Natura! - oh, se la povera, malata, pruriginosa umanità cittadina potesse realmente

tornare a conoscerti! Allora non è indecente la nudità? No, non in sé. Sono i vostri pensieri, la vostra sofisticazione,

paura, rispettabilità, che sono indecenti. Vengono per noi dei momenti in cui queste nostre vesti divengono non solo

troppo fastidiose a portarsi, ma indecenti in sé. Forse anzi colui o colei che non ha mai gustato la libera, esilarante estasi

della nudità in seno alla Natura (e quante migliaia ve ne sono!) non ha mai realmente saputo che cosa sia la purezza - né

che cosa siano in realtà fede, arte o salute. (Probabilmente l'intero complesso di altissima filosofia, bellezza, eroismo e

forma illustrato dall'antica razza ellenica - il vertice più alto e la massima profondità che la civiltà abbia toccato in quei

settori - procedette dalla loro concezione naturale e religiosa della nudità).

Molte ore simili, sparse nelle due ultime estati - ad esse io attribuisco in gran parte la mia parziale ripresa.

Qualche benpensante potrà ritenere insulso, se non proprio pazzoide, questo modo di impiegare il proprio tempo e i

propri pensieri. Può anche darsi che lo sia.

LE QUERCE E IO

5 sett. '77. Scrivo (sono le 11 del mattino) sotto una folta quercia nei pressi del ruscello, dove ho trovato riparo

da un acquazzone improvviso. Ero sceso quaggiù (alla prima schiarita, un'ora fa, dopo un'intera mattinata di tetra

acquerugiola) per praticare il semplice esercizio quotidiano di cui ho parlato e che tanto mi piace - tirare quel giovane

rampollo di noce lassù - barcollando per poi arrendermi al suo fusto eretto, a un tempo flessibile e duro - forse perché

parte della sua fibra elastica e della sua limpida linfa passi nei miei muscoli invecchiati. In piedi sull'erba, mi

sottopongo per circa un'ora a queste sferzate di salute, ma con moderazione e a intervalli inalando l'aria fresca a grandi

sorsate. Per riposarmi durante i miei vagabondaggi lungo il ruscello, ho sempre tre o quattro posticini naturalmente

ospitali - a parte la sedia che mi trascino dietro e che uso soltanto in determinate occasioni. In altri luoghi appropriati ho

scelto come attrezzi della mia palestra naturale, oltre al noce già menzionato, certi rami di faggio o caprifoglio, robusti

ed elastici e facilmente raggiungibili, per esercitar braccia, torace e i muscoli del busto. Subito posso sentirne il vigore e

la linfa montare in me come mercurio al calore. Mi afferro con carezzevole presa ai rami e agli alberelli sottili

nell'intrico di sole e d'ombra, lotto per un poco contro la loro gagliardia innocente - e in quello so che la loro virtù si

trasfonde in me. (O forse è un vicendevole scambio - forse gli alberi ne sono più consapevoli di quanto io abbia mai

pensato).

Ma adesso, piacevolmente imprigionato qui sotto la grande quercia - la pioggia che stilla e il cielo coperto di

nuvole plumbee - solo lo stagno da un lato, e dall'altro una chiazza d'erba punteggiata dai lattei fiori delle carote

selvatiche - il suono di un'ascia che picchia su una catasta di legna lontana - in questo paesaggio monotono (come lo

definirebbe molta gente), come avviene che io sia tanto (quasi completamente) felice e solo? Perché qualsiasi

intrusione, anche di persone a me care, spezzerebbe l'incanto? Ma sono poi solo? Certo giunge per tutti un momento - e

forse è già giunto per me - in cui si sente con tutto il proprio essere, e in ispecie con la parte emotiva di esso, quella

identità tra l'io soggettivo e la Natura oggettiva che Schelling e Fichte amano tanto sottolineare. Come avvenga non so,

ma spesso io percepisco qui una presenza - nei momenti di chiarezza ne sono anzi certo, e né chimica né logica né

estetica sapranno mai darmene la benché minima spiegazione. Per tutto il tempo delle due scorse estati essa ha

corroborato e nutrito come non mai dianzi il mio corpo e la mia anima malati. Ti ringrazio, invisibile medico, per il tuo

dolcissimo farmaco silenzioso, per i tuoi giorni e le tue notti, per le acque e l'aria, le rive, l'erba, gli alberi e, perché no,

la gramigna!

CINQUE VERSI.57

Mentre la pioggia mi costringeva sotto il riparo della mia gran quercia (perfettamente all'asciutto e a mio agio,

e tutt'intorno il ticchettio delle gocce), ho annotato il sentimento di quest'ora in una piccola strofa di cinque versi, che

ora voglio leggervi:

Oziando con la Natura

Ricettivo e a mio agio

Distillo l'ora presente

Quale e dove che sia -

E sul passato, l'oblio.

Mi segui, caro lettore? e ad ogni modo, ti piace?

PRIMA GELATA (APP.)

Ho visto la prima brina vera nel luogo dove mi son fermato durante la mia solita passeggiata mattutina, all'alba

del 6 ottobre: su tutto il prato ancora verde, un velo leggiero, grigiazzurro, che conferiva all'intero paesaggio una nuova

magnificenza. Non ebbi per osservarla che pochi minuti, ché il sole sorse senza nubi e con ricco tepore, sicché quando

ritornai per il sentiero s'era già mutata in scintillanti chiazze d'umido. Camminando, notò le turgide capsule del cotone

selvatico (canapa indiana, la chiamano qui) che scoppiando rivelano il loro contenuto serico e spumoso e i semi scuri,

d'un marrone rossiccio: ecco un coniglio che trasalisce; io strappo una manciata di balsamico semprevivo e me la infilo

nella tasca dei pantaloni per profumarmene.

MORTE DI TRE GIOVANI

20 dicembre. Non so perché oggi ho cominciato a pensare a come muoiono i giovani - non con tristezza o

sentimentalismo, ma gravemente, realisticamente, e forse un po' come scrittore. Lasciate ch'io vi esponga i tre casi

seguenti, tolti da un fascio di appunti personali che in questo pomeriggio di pioggia, solo nella mia stanza, ho preso a

rovistare, tirando le fila e meditando. Chi è che non viene toccato nel vivo da questo argomento? Non so veramente

come sia per gli altri, ma per me non solo non esiste nulla di triste o di deprimente in casi come questi - al contrario,

come reminiscenze le trovo dolci, fortificanti, salutari.

ERASTUS HASKELL. [Mi limito qui a trascrivere parola per parola una lettera scritta di mio pugno in un

ospedale militare, sedici anni fa, durante la guerra di secessione].

Washington, 28 luglio 1863. - Cara M., - Scrivo queste righe in ospedale, dal letto di un soldato cui non credo

siano rimaste molte ore di vita. Il suo destino è stato duro - sembra abbia solo 19 o 20 anni - Erastus Haskell, compagnia

K, 141° N. Y. - in servizio per circa un anno, e infermo o seminfermo per una buona metà - è stato sulla penisola - poi

fu distaccato per entrare nella banda come suonatore di piffero.

Quando era già malato, il medico gli disse di non farsi lasciare indietro dagli altri - (probabilmente continuò a

lavorare e a marciare per troppo tempo). È un ragazzo timido e, mi sembra, assai sensibile - modi gentili - non si

lamenta mai - sulla penisola, malato, restò in un vecchio magazzino - febbre tifoidea. Lo hanno portato qui la prima

settimana di luglio - viaggio pessimo, senza comodità né nutrimento, soltanto duri sbalzi e freddo quanto bastava per far

ammalare un uomo sano (è quel che succede a molti in questi spaventosi viaggi) - arrivato qui l'11 luglio - giovane

silenzioso, carnagione bruna, tipo spagnolo, con grandi occhi blu-scuro, un'aria un po' strana. Il Dr. F. di qui diede poco

peso alla malattia - disse che si sarebbe rimesso presto, ecc.; ma io la pensavo assai diversamente, e lo dissi a F., tante e

tante volte (rischiai di litigare con lui a questo proposito, sin dal primo momento) - ma lui rideva, e non mi dava ascolto.

Circa quattro giorni fa dissi al dottore che a mio avviso ormai quel ragazzo non lo avrebbe salvato più - ma ancora una

volta F. rise di me. Mutò parere il giorno dopo - io avevo fatto venire il capochirurgo della postazione - questi disse che

il giovane probabilmente sarebbe morto, ma che avrebbero lottato per lui con tutte le forze.

Gli ultimi due giorni è rimasto disteso respirando a fatica, ansimando - uno spettacolo penoso. Io gli sono stato

vicino forse ogni giorno e ogni notte da quando è arrivato. Il caldo lo fa soffrire molto - dice poco o nulla - da tre giorni

ogni tanto sragiona - tuttavia mi riconosce sempre - mi chiama «Walter» (talora ripete questo nome più e più e più

volte, a se stesso, in modo assorto e distaccato). Suo padre vive a Breesport, contea di Chemung, N. Y., è un operaio,

con una famiglia numerosa, un uomo solido e religioso; anche la madre è ancora in vita. Ho già mandato loro una

lettera, e oggi scriverò ancora - sono mesi che Erastus non riceve una parola da casa.

Vorrei ora, mentre sono qui seduto a scriverti, che vedessi l'intero quadro, M. Questo ragazzo è disteso supino

a un passo da me, le mani avvinghiate sul petto, i neri capelli tagliati corti; è immerso nel sopore, respira faticosamente,

ogni respiro uno spasmo - tutto ciò è troppo crudele. È un nobile ragazzo - io lo considero ormai al di là di ogni

speranza. Spesso rimane a lungo senza nessuno vicino. Io sto qui quanto più mi è possibile..58

WILLIAM ALCOTT, pompiere. Camden, Novembre 1874. Lunedì scorso, nel pomeriggio, al funerale di

questo giovane cresciuto qui e conosciuto da tutti, si radunarono la vedova, la madre, i parenti, i compagni della

caserma dei vigili del fuoco e altri amici (io ero uno di questi, da poco tempo, è vero, ma il nostro affetto era divenuto

intimo e profondo in quelle otto settimane passate notte e giorno accanto alla sedia dove iniziò il suo rapido declino, e al

letto di morte). Sebbene non vi sia forse nulla degno di speciale nota, vorrei dedicare qualche parola alla sua memoria.

Per carattere e qualità, egli m'appariva un esemplare non inappropriato di quella vena perenne della buona razza media

americana che fluisce e scorre sotto questa schiuma di superficie. Di maniere sempre assai quiete, pulito nella persona e

negli abiti, di buon carattere, puntuale e industrioso nel lavoro fino al giorno in cui non poté più lavorare, egli non fece

che vivere la sua vita disciplinata, quadrata, discreta, nell'umile ambito che le era proprio, e certo assolutamente

spontanea (benché credo esistessero in lui profonde, inarticolate correnti di emozioni di vita intellettuale, non sospettate

da chi lo conosceva - e tanto meno da lui stesso). Non era un parlatore. I suoi problemi, quando ne aveva, li teneva per

sé. Come in vita era stato sempre alieno da querimonie, così non si lamentò mai durante la malattia finale. Era una di

quelle persone, Billy Alcott, alle quali coloro che ne dividono la vita non si sognano mai di attribuire alcun particolare

talento, o grazia - eppure tutti, inconsciamente, concretamente, lo amavano.

Anch'io lo amavo. All'ultimo, dopo un lungo periodo passato con lui - dopo ore e giorni di respirazione penosa,

ansimante, la maggior parte del tempo in stato di incoscienza (benché invero il mal sottile che covava da tempo nel suo

organismo, una volta scoppiato, avesse fatto rapidi progressi, c'era ancora in lui una grande vitalità, e rimase difatti in

coma quattro o cinque giorni prima della fine) - a tarda notte mercoledì 4 novembre, mentre eravamo intorno al suo

letto in silenzio, vi fu una sospensione improvvisa - un respiro più profondo, una pausa, un fievole sospiro - un altro -

un respiro più fioco, un altro sospiro - un'altra pausa infine e appena un tremito - e il volto del povero giovane divorato

dal male (aveva solo 26 anni) scivolò piano sulla mia mano sopra il cuscino, nella morte.

CHARLES CASWELL [Estraggo quanto segue, fedelmente, da una lettera speditami in data 29 settembre dal

mio amico John Burronghs da Esopus-on-Hudson, Stato di New York]. Quando ci giunse il vostro quadro S. non c'era -

si trovava al capezzale del fratello malato, Charles, che morì, evento questo che mi ha rattristato molto. Charlie era più

piccolo di S., e un giovane oltremodo attraente. Lavorava con mio padre, ormai da due anni. Era, direi, il miglior

esemplare di giovane bracciante che io abbia mai conosciuto. Voi lo avreste amato. Era come una delle vostre poesie.

Con la sua gran forza, i suoi capelli biondi, la sua allegria e il suo spirito di adattamento, la sua generale buona volontà,

i modi virili e silenziosi, era un giovane difficilmente eguagliabile. È stato assassinato da un vecchio dottore. Aveva una

febbre tifoidea e il vecchio pazzo lo salassò per ben due volte. Visse fino a debellare la febbre, ma gli mancò la forza di

lottare. Era quasi sempre in stato di delirio. Al mattino (morì poi nel pomeriggio), mentre S. era in piedi chino su di lui,

lo baciò. S. disse poi di aver compreso in quel momento che la fine era prossima (non lo abbandonò un istante, giorno e

notte, fino all'ultimo). Quando mi trovavo a casa in agosto e Charlie era sulla collina che falciava, era uno spettacolo

vederlo camminare nel frumento. Qualsiasi lavoro era un giuoco per lui. Non aveva più vizi di quanti ne abbia Natura,

ed era amato da tutti quelli che lo conoscevano.

Vi ho scritto questo di lui perché giovani simili vi appartengono: era della vostra razza. Se lo aveste

conosciuto! Aveva la dolcezza di un bambino, e la forza, il coraggio e l'alacrità di un giovane vichingo. Suo Dadre e sua

madre sono poveri: posseggono un pezzo di terra duro e incolto. La madre lavora nei campi col marito quando il lavoro

preme. Ha avuto dodici figli.

GIORNATE DI FEBBRAIO

7 febbraio 1878. Sole splendido oggi, con una lieve foschia, aria abbastanza tiepida, e tuttavia frizzante, mentre

me ne sto qui seduto all'aperto, nel mio rifugio campestre, sotto un vecchio cedro. Per due ore ho girovagato pigramente

tra i boschi e lo stagno, tirandomi dietro la mia sedia, scegliendo qua e là un posticino privilegiato dove sedermi un

poco - poi in piedi di nuovo, e via in cammino, lentamente. Qui tutto è pace. Certo mancano i rumori e la vitalità

dell'estate; ma oggi anche quelli invernali, si direbbe. Io mi dò bel tempo esercitando la voce con declamazioni,

cantando su tutti i toni ogni singola vocale e suono dell'alfabeto. Non un'eco; solo il gracchio di un corvo solitario che

trasvola a qualche distanza di qui. Lo stagno è un'unica distesa piatta e lucente, senza un'increspatura - un grande

specchio alla Claude Lorrain in cui o vado studiando il cielo, la luce, gli alberi nudi, e di quando in quando una

cornacchia che mi vola alta sul capo schioccando l'ali. Nei campi bruni sono rimaste poche chiazze bianche di neve.

9 febb. Dopo aver girellato per un'ora eccomi in fase di ritiro e di riposo, seduto presso lo stagno, in un

angolino tiepido al riparo dalla brezza, a prender queste note, poco prima di mezzogiorno. Quali aspetti e influssi

emotivi ha la Natura! Anch'io, come tutti, sento questa tendenza moderna (visibile in tutti gli atteggiamenti intellettuali,

la letteratura e la poesia che vanno per la maggiore) a svolgere ogni cosa in pathos, ennui, morbosità, insoddisfazione,

morte. E tuttavia vedo chiaramente come codesti effetti e poteri non siano affatto insiti nella Natura, quanto piuttosto

dovuti alla deformazione, malattia o sciocchezza dell'anima nostra - qui, in questo scenario libero e selvaggio, così sana

e felice, così pulita, vigorosa, dolce!.59

Metà pomeriggio. Uno di quei miei posticini è a sud del granaio, ed è qui che mi trovo adesso, seduto su un

tronco a riparo dal vento, ancora a crogiolarmi al sole. Vicino a me, le mucche pascolano tra le stoppie. Ogni tanto una

vacca o un torello (com'è ben fatto e focoso!) viene a raschiare e a sgranocchiare l'altro capo del tronco su cui sono

seduto. Si percepisce chiaramente il fresco odore del latte, e anche il profumo di fieno che viene dalla stalla.

L'ininterrotto fruscio delle stoppie secche, il sospiro profondo del vento attorno agli spigoli del tetto, il grugnito dei

maiali, il fischio lontano di una locomotiva e a tratti la cantata di un gallo, sono gli unici suoni.

19 febb. Freddo pungente iersera - sereno e non molto vento - luna piena, e uno splendido tappeto di

costellazioni e stelle piccole e grandi - Sirio fulgidissima, tra le prime a levarsi preceduta da Orione pluristellato,

sfolgorante, enorme, a caccia col suo cane e la sua spada. La terra indurita dal gelo, e sullo stagno una rigida, lucente

lastra di ghiaccio. Attratto dal quieto splendore della notte, mi avventurai fuori per una breve passeggiata, ma fui

ricacciato indietro dal freddo: troppo severo per me, anche stamane quando sono uscito alle 9, sicché son dovuto tornare

indietro un'altra volta. Ma ora che è quasi mezzogiorno, mi sono crogiolato al sole per tutta la strada, lungo il sentiero

(questa fattoria ha una bella esposizione a sud) ed eccomi qua seduto al riparo di un ciglio di terra, vicinissimo

all'acqua. Già volavano intorno i pettazzurri, e odo un gran pigolare e cinguettare, e anche due o tre canti veri e propri,

sostenuti anzi piuttosto a lungo nel tepore e nella brillantezza meridiani (ma ecco, una canzone vera! viene fuori

coraggiosa, a più riprese, come se il cantore ce la mettesse proprio tutta). Poi, mentre il mezzogiorno si fa più intenso,

ecco l'agile trillo del pettirosso - a mio sentire la più gioiosa tra le melodie d'uccelli. A tratti, come battute e pause

musicali, (emergendo su quell'indistinto murmure che, per quanto silenzioso il paesaggio, è sempre presente a un

orecchio delicato) gli scricchiolii del ghiaccio rappreso sul ruscello che si schianta cedendo gradualmente ai raggi del

sole - ora con un sospiro smorzato - ora con strattoni testardi e rochi soffi d'ira.

(Dice Robert Burns in una lettera: «Non credo esista cosa al mondo che mi dia tanto, non so se dire piacere -

qualcosa comunque che mi esalta, mi rapisce - quanto camminare per la parte riparata d'un bosco in una nuvolosa

giornata d'inverno, e ascoltare il vento di bufera che ulula tra gli alberi e spazza la pianura. È la mia miglior stagione di

preghiera». Alcune delle sue poesie più caratteristiche furono appunto composte tra questi scenari e in queste stagioni).

L'ALLODOLA MATTOLINA

16 marzo. Mattinata incantevole, limpida, abbagliante, il sole già alto da un'ora, l'aria frizzante al punto giusto.

Che impronta riceve tutta la mia giornata, prima ancora di cominciare, dal canto di quell'allodola mattolina appollaiata

laggiù, a venti pertiche di distanza, sul piolo di una staccionata! Due o tre note di liquida semplicità, ripetute a intervalli,

piene di spensierata gaiezza e di speranza. Con il suo tipico modo di muoversi, lento e tutto sfarfallii, e con la rapida e

silenziosa azione delle ali, trasvola un po' più in là, si posa su di un altro piuolo, poi un altro ancora, e così dall'uno

all'altro, sempre sfarfallando e cantando, per molti minuti.

LUCI DEL TRAMONTO

6 maggio, 5 pom . È questa l'ora dei più strani effetti di luce e di ombra - tali da far delirare un colorista -

lunghi dardi d'argento fuso avventati orizzontalmente tra gli alberi (in questo periodo nel loro più tenero e luminoso

verde), ogni foglia e ramo della smisurata verzura un accesso miracolo, poi prostrati e completamente distesi sulla

interminabile erba nella sua fresca maturità, dando a ogni stelo il suo fulgore individuale, oltre a quello d'insieme, in

guise sconosciute a ogni altra ora del giorno. Io so certi posti particolari dove riesco a cogliere codesti effetti in tutta la

loro perfezione. Una gran chiazza di luce è posata sull'acqua, con molti barbagli e scintillìi sulle increspature, cui

contrasta il verde cupo e la bruna trasparenza delle ombre che s'abbuiano veloci sullo sfondo, e a tratti per tutta la

lunghezza della sponda. Queste, insieme alle grandi frecciate di fuoco che il sole calando scaglia orizzontalmente tra gli

alberi e sull'erba, producono effetti sempre più straordinari, sempre più superbi, irreali, di accecante ricchezza.

PENSIERI SOTTO UNA QUERCIA - UN SOGNO

2 giugno. Oggi, quarto giorno di una buia tempesta da nord-est, con vento e pioggia. Ier l'altro era il mio

natalizio. Sono entrato così nel sessantesimo anno. Ogni giorno della tempesta, protetto da calosce e da un telo

impermeabile, sono sceso regolarmente allo stagno, sistemandomi al riparo della gran quercia; qui mi trovo ora, mentre

scrivo queste righe. Le buie nubi color del fumo rotolano in furioso silenzio da una parte all'altra del cielo; tutt'intorno a

me oscillano le tenere foglie verdi; sopra il mio capo il vento continua con quella sua roca musica pacificatrice,

possente sussurro della Natura. Seduto qui in solitudine ho meditato sulla mia vita - ho connesso eventi e date come.60

anelli di un'unica catena, senza tristezza né esultanza, ma in qualche modo oggi, qui, sotto la quercia e nella pioggia,

con un insolito spirito di concretezza.

Ma la mia grande quercia - massiccia, vitale, verde, cinque piedi di spessore alla base: passo molto del mio

tempo seduto vicino o sotto di essa. E poi il liriodendro qui accanto - l'Apollo dei boschi - alto e aggraziato e tuttavia

robusto e tutto nervi, inimitabile nella pendula massa delle foglie e nello slancio delle membra; quasi che la bella, vitale

e fogliuta creatura potesse camminare se solo volesse. (L'altro giorno caddi in una specie di trance o sogno in cui vidi i

miei alberi prediletti farsi avanti e passeggiare su e giù e tutt'in giro, in modo assai curioso - e uno di loro bisbigliarmi,

chinandosi su di me nel passarmi accanto, Facciamo questo, oggi, eccezionalmente, soltanto per te).

PROFUMI DI TRIFOGLIO E DI FIENO

3,4,5 luglio. Tempo sereno, caldo, invitante - è stata una buona estate - l'erba e il trifoglio oramai in gran parte

mietuti. Il loro profumo familiare e delizioso riempie le stalle e i viottoli. Passando si vedono i campi d'un color bianco-grigiastro

appena sfumato di giallo, i fasci di biade un po' dappertutto, i carri che passano lenti, e i contadini nei campi

che aiutati da ragazzotti robusti lanciano i covoni e fanno il carico. Tra poco il granturco metterà le barbe - ed ecco

allora ovunque, negli Stati del centro e del sud, gli sterminati battaglioni lanceolati, ricurvi, sventolanti - lunghi e

smaltati piumaggi verde scuro per il gran cavaliere, la terra. Odo le allegre note della mia vecchia conoscenza, la

quaglia maschio; ma è troppo tardi per il caprimulgo (seppur ho udito ancora l'altro ieri notte un ritardatario, tutto solo).

Seguo con gli occhi l'ampio volo maestoso di una poiana, talvolta altissimo, talaltra abbastanza basso da poterne

discernere le forme stagliate contro il cielo, persino le penne aperte. Mi è accaduto negli ultimi tempi di scorgere qui

una volta o due una aquila volare basso alle prime luci della sera.

UNO SCONOSCIUTO

15 giugno. Ho notato oggi un nuovo, grande uccello, della grossezza di una pollastra - un falco superbo, corpo

bianco e ali scure - suppongo fosse un falco a causa del becco e dell'aspetto complessivo - solo che aveva un grido

nitido, forte' alquanto musicale, una sorta di squilla, che andava ripetendo più volte, a intervalli, dal vertice di un

maestoso albero morto che pende sull'acqua. Rimase lassù a lungo, e io sull'altra riva a osservarlo. Poi piombò giù di

colpo, andando quasi a radere l'acqua - si levò lentamente, una visione magnifica, e veleggiò con ferme ali distese,

senza un solo battito, due o tre volte attraverso lo stagno, vicino a me, in ruote ben visibili, quasi per mio speciale

diletto. Una volta mi passò sulla testa, vicinissimo, e distinsi chiaramente il rostro uncinato e i duri occhi irrequieti.

IL FISCHIO DEGLI UCCELLI

Quanta musica (selvaggia, semplice, primitiva senza dubbio, ma agra e dolce insieme) v'è nel semplice fischiar

che fanno gli uccelli - che è poi i quattro quinti della loro espressione. Ve n'è di ogni sorta e stile. Durante questa ultima

mezz'ora, mentre me ne stavo qui seduto, qualche pennuto amico laggiù tra i cespugli non ha fatto che ripetere quel

ch'io chiamerei una sorta di fischio «vibrato». E adesso è comparso un uccello delle dimensioni circa di un pettirosso,

tutto d'un color morato, che vola tra i rovi - testa, ali e ventre rosso cupo, non smagliante - ma non canta, a quanto m'è

parso. 4 del pom. Ecco un vero concerto intorno a me - una dozzina di uccelli diversi che ce la mettono tutta. Abbiamo

avuto piogge abbastanza frequenti, e ovunque sono visibili i segni della loro azione vivificante. Mentre finisco queste

righe, seduto su un tronco ai bordi dello stagno, si ode in distanza un gran cinguettare e gorgheggiare, e nei boschi qui

presso un piumato eremita che canta deliziosamente - non molte note, ma una musica ricca di simpatia quasi umana -

protratta per un lungo, lunghissimo tempo.

FIORI DI MENTA

22 ag. Non un essere umano in vista, quasi si direbbe che non esistano. Dopo il primo dei miei due brevi bagni

quotidiani, resto qui a sedere per un poco, tra lo scroscio musicale del ruscello e le variazioni cromatiche di una

dumetella irrequieta laggiù tra i cespugli. Due ore fa, passando per i campi e il vecchio sentiero, diretto quaggiù, mi

sono fermato varie volte a osservare il cielo, o i boschi sulla collina a un miglio di distanza, o i pometi. Che contrasto,

pensando alle strade di New York o di Filadelfia! Ovunque gran chiazze di pallidi fiori di menta, che esalano nell'aria,

specialmente a sera, il loro forte aroma. Ovunque astree in fiore, e le roselline della fava selvatica..61

NOI TRE

14 luglio. I miei due martin-pescatori frequentano ancora lo stagno. Nel gran sole, la brezza e la perfetta

temperatura di oggi (è mezzogiorno) sto qui seduto presso uno dei molti ruscelli gorgoglianti, intingendo nel flusso

cristallino una penna ad acqua che uso per scrivere queste righe, e studiando un'ennesima volta la coppia pennuta che

frulla e scherza sull'acqua tanto basso da sfiorare la superficie. Ma in verità parrebbe che siamo in tre. Da circa un'ora li

osservo indolente e mi unisco a loro mentre sfrecciano e virano e s'impennano nelle loro aeree capriole, scomparendo a

volte per qualche minuto più su, lungo il ruscello, per poi tornare invariabilmente a eseguire la più gran parte dei loro

voli proprio sotto i miei occhi, quasi sapessero che io apprezzo e assorbo la loro vitalità, spiritualità e costanza, e quelle

rapide, effimere, delicate linee di palpabile ma quieta elettricità ch'essi vanno disegnando per me contro la distesa

dell'erba, gli alberi e il cielo azzurro. Nel mentre, il ruscello bisbiglia, borbotta, e le ombre dei rami intorno a me si

frastagliano nella luce del sole, e il fresco vento che viene da nord-nord-ovest sospira appena tra i fitti cespugli e i

vertici degli alberi.

Tra le cose belle e gli oggetti d'interesse che ora cominciano a mostrarmisi in abbondanza in questo luogo

solitario, noto il colibrì, la libellula con le sue ali di garza color ardesia, e molte varietà di farfalle belle e semplici, che

svolazzano pigramente tra le piante e i ciuffi di fiori selvatici. Il verbasco è scattato su dal suo nido di larghe foglie in

un gran culmo che torreggia a volte fino a un'altezza di cinque o sei piedi, ora tutto tempestato di escrescenze di fiori

dorati. Le asclepiadee (su una di esse mentre scrivo vedo posarsi una grande, fantastica creatura arancione e nera) sono

anch'esse fiorite, con una delicata bordura rossa; e si vedono profuse ciocche di infiorescenze piumose ondeggiare al

vento su esili steli. Ne scorgo moltissime, queste e altre ancora, in ogni direzione, sia che vada in giro o resti seduto.

Nell'ultima mezz'ora un uccello in mezzo ai cespugli ha continuato insistente a modulare un suo semplice canto, dolce e

melodioso. (Mi sono decisamente convinto che alcuni di questi uccelli cantino e altri volino e sfarfallino qua intorno per

mio speciale diletto).

MORTE DI WILLIAM CULLEN BRYANT

New York City. 13 giugno, arrivato con il treno delle 14 a Jersey City da Filadelfia Ovest; quindi subito dai

miei amici, il signore e la signora J.H.J., la loro grande casa e grande famiglia (e gran cuore) dove mi sento

perfettamente a mio agio, e in pace - nella parte alta della Quinta Avenue, presso la Ottantaseiesima, fresca e ventilata,

da cui si dominano le fitte frange boscose del parco - spazio e cielo in abbondanza, cinguettio d'uccelli, aria

relativamente fresca e priva di odori. Due ore prima di partire avevo letto l'annunzio del funerale di William Cullen

Bryant, e subito sentii il forte desiderio di assistervi. Avevo conosciuto il signor Bryant più di trenta anni fa, era stato

particolarmente gentile con me. Saltuariamente, ma per anni, in tutto quel periodo, continuammo a vederci e a fare

chiacchierate. Lo stimavo un uomo a modo suo assai socievole, un essere cui ci si affeziona. Eravamo ambedue buoni

camminatori, e quando io lavoravo a Brooklyn egli veniva parecchie volte a prendermi, a metà pomeriggio, e allora si

cominciava a girare senza meta per miglia, fino a scuro, spingendoci verso Bedford o Flatbush, facendoci compagnia. In

queste occasioni egli mi fece dei quadri precisi dell'ambiente europeo - le città, i paesaggi, l'architettura, l'arte,

specialmente l'Italia - dove aveva viaggiato a lungo.

14 giugno. - Il funerale. Dunque il vecchio cittadino e poeta, buono, incorrotto, nobile, giace in quella bara

sigillata - e questo è il suo funerale. Scena solenne e semplice, che colpisce lo spirito e i sensi. Notevole assembramento

di teste grigie, gente famosa - l'inno così bene eseguito, e le altre musiche - la chiesa sempre in ombra, anche adesso che

mezzogiorno è vicino, con quella luce che entra dalle vetrate policrome - il discorso in lode del bardo che amò così

appassionatamente la Natura e seppe cantarne così bene aspetti e stagioni, appropriatamente chiuso da questi versi ben

noti:

Contemplavo il cielo stupendo

E il cerchio di verdi montagne

E pensai che quando avverrà

Ch'io riposi in seno alla terra

Sarebbe bello, nel giugno fiorito

Quando i rivi hanno voci gioiose

E i boschi un suono di festa

Che il becchino scavasse la tomba

nella ricca e verde terra montana.

GITA SULLO HUDSON.62

20 giugno. Sul Mary Powell, un godimento senza precedenti. Giornata estiva deliziosa, calda al punto giusto -

il panorama sempre nuovo, ma sempre bellissimo, su ambo le rive (risalimmo il fiume di un centinaio di miglia) - le alte

pareti pietrose, a strapiombo, delle Palisades - bella Yonkers, bella Irvington - colline interminabili, per lo più in linee

arrotondate, fasciate di verde - gobbe lontane simili a spalle enormi ravvolte in veli azzurri - i frequenti toni di grigio e

di bruno delle rocce più elevate - e poi il fiume, che ora si stringe ora s'espande - le molte vele bianche di yacht e cutter,

etc., quali vicine, quali in distanza - il rapido succedersi di bei villaggi e città (il nostro è un battello veloce, e fa poche

fermate) - la Race - e West Point pittoresca, come del resto tutta la costa - le residenze lussuose e spesso adorne di torri

che occhieggiano continuamente tra i boschi nei loro chiari colori allegri - di tutte queste cose è fatto lo scenario.

FELICITÀ E LAMPONI

21 giugno. Eccomi sulla riva occidentale dello Hudson, 80 miglia a nord di New York, presso Esopus, nella

bella e spaziosa villetta di campagna di John Burroughs chiusa tra pergole di caprifoglio e di rose. Il luogo, i giorni e le

notti perfette di giugno (che van facendosi fresche e frizzanti), l'ospitalità di J. e della signora B., l'aria, la frutta (e in

particolare il mio piatto preferito, lamponi e ribes mescolati con zucchero, freschi di rovo e ben maturi, li colgo io stesso

con le mie mani) - la camera che occupo la notte, il letto impeccabile, l'ampia veduta che s'apre dalla mia finestra sullo

Hudson e le rive opposte, meravigliosa all'ora del tramonto, e il musicale rullìo dei treni che passano lontano laggiù - il

tranquillo riposo - l'alba precoce cui Venere fa da araldo - il silenzioso zampillìo dell'aurora, l'indescrivibile gloria della

luce e del primo calore, in cui (non appena il sole è abbastanza alto) io mi faccio una superba frizione e sfregatura con

l'apposita spazzola (la strigliata finale sulla schiena è opera di Al. J. che è qui con noi) - tutto ciò serve a rianimare la

mia carcassa di invalido con un soffio di vita nuova, per l'intera giornata. Poi, dopo qualche boccata d'aria mattutina,

ecco il delizioso caffè della signora B., insieme a panna, fragole e varie cose sostanziose, per colazione.

UNA TIPICA FAMIGLIA NOMADE

22 giugno. Questo pomeriggio siamo andati (J.B.,Al e io) a fare un bel giro in campagna. Paesaggio con gli

immancabili muriccioli di pietra (certuni vecchissimi e venerabili, maculati di scuro dai licheni), molti carrubi, assai

belli, acque che corrono gorgogliando, spesso su pendìi rocciosi - tutte queste cose e molto altro. È una fortuna che le

strade siano così buone qui (e lo sono davvero), perché il percorso è tutto salite e discese, e talora parecchio ripide. B.

ha un cavallo di prim'ordine, forte, giovane, dall'andatura insieme dolce e veloce. Dalla parte del fiume la contea di

Ulster presenta una gran quantità di terreni e colline affatto disabitati, con un fantastico rigoglio di cespugli e fiori

selvatici, e quanto a alberi, mi sembra, una vitalità mai vista - abeti eloquenti, ricchezza di carrubi e aceri bellissimi,

oltre al balsamo di Gilead che esala all'intorno il suo aroma. Nei campi e al bordo della strada, insoliti ciuffi di

margheritoni selvatici a stelo alto, bianco-latte e giallo-oro.

Sorpassammo per via un gran numero di nomadi, soli o a coppie - e un gruppo, una famiglia, su un carro

sconquassato a un solo cavallo, con certe ceste che evidentemente essi costruivano e rivendevano - l'uomo alla guida,

seduto su un'assicella in basso - la donna al suo fianco, sparuta, con un bimbetto tutto infagottato in braccio, i piedini

arrossati e la parte inferiore delle gambette che sbucavan fuori proprio dalla parte nostra, che li stavamo sorpassando -

dietro, nel carro, vedemmo due (forse tre) bambini accucciati. Era un quadro strano, commovente e alquanto triste. Se

mi fossi trovato solo e a piedi, mi sarei certo fermato per far due chiacchiere. Ma sulla via del ritorno, circa due ore

dopo, li ritrovammo un buon tratto più in là, sempre sulla stessa strada, in sosta da una parte, il carro staccato, in uno

spiazzo solitario, che preparavano evidentemente il campo per la notte. Il cavallo, sciolto, se ne stava non lontano a

brucare placido l'erba. L'uomo si dava da fare intorno al carro, il ragazzo aveva radunato un po' di legna secca e stava

accendendo il fuoco - un poco più avanti incontrammo la donna, a piedi. Non riuscii a scorgere il suo viso sotto il gran

cappello da sole, ma in qualche modo la sua figura, e il passo, parlavano di infelicità, terrore, privazioni. Teneva ancora

in braccio il suo bambino denutrito fasciato di stracci, e in mano due o tre di quelle ceste, che stava evidentemente

portando alla casa più vicina nella speranza di venderle. Una ragazzina scalza sui cinque anni le trotterellava accanto

attaccata alla gonna. Ci fermammo a chiedere il prezzo dei cesti, che comprammo. Mentre pagavamo, ella continuò a

tenere il viso celato nell'ombra del cappello. Quando, una volta ripartiti, ci fermammo di nuovo, Al. (in cui si era

evidentemente destata la compassione), ritornò all'accampamento a comprare un'altra cesta. Riuscì finalmente a

intravedere il viso di lei, e s'intrattenne a parlarle per un poco. Occhi, voce e gesti erano quelli di un cadavere azionato

elettricamente. Era molto giovane - l'uomo con cui viaggiava, di mezza età. Povera donna - che storia nascondevano le

vicende della sua vita, per giustificare quell'atteggiamento di paura indescrivibile, quegli occhi vitrei, il suono vuoto di

quella voce?

MANHATTAN DALLA BAIA.63

25 giugno. Tornato a New York ieri sera. Oggi sul mare, per un giro nella grande baia a sud-est di Staten

Island - navigazione difficile, gran sballottio, e vista libera - la lunga distesa di Sandy Hook, le alture di Navesink e i

molti battelli che entravano e uscivano. Siamo risaliti passando nel bel mezzo di tutto ciò, in pieno sole. Sono state belle

soprattutto le ultime due ore, o l'ultima. S'era levata una moderata brezza di mare, e tuttavia sulla città e le acque

adiacenti restava una nebbiolina sottile che non nascondeva nulla, anzi aggiungeva qualcosa alla bellezza della scena. A

mio avviso, mentre scrivo con questa brezza delicata e questa temperatura marina, non esiste al mondo in codesto

genere di spettacoli nulla che possa superare quanto ho di fronte. A sinistra il North River coi suoi sfondi lontani - più

vicino, tre o quattro navi da guerra pacificamente ancorate - la costa del Jersey, le rive del Weehawken, le Palisades,

l'azzurro che gradualmente recede e in lontananza si perde - a destra l'East River - le coste frangiate d'alberi di

imbarcazioni - le maestose torri del ponte, simili a obelischi, una per lato, immerse nella foschia e tuttavia ben stagliate,

gemelli giganti che si lanciano liberi e aggraziati intrecci di fili da una parte all'altra della tumultuosa corrente che

galoppa al di sotto (la marea s'inverte proprio adesso) - l'ampio specchio d'acqua affollato in ogni direzione - no, non

affollato, bensì brulicante, come stelle in cielo, di vascelli d'ogni sorta e dimensione, a vela e a vapore, ferry che

bordeggiano, battelli costieri che arrivano e partono, e i grandi signori dell'oceano, color nero-acciaio, moderni,

magnifici per dimensioni e potenza, con il loro inestimabile carico di vite umane e merci preziose - e, staccate dal resto,

quelle creature di grazia e di meraviglia che sbandano spericolate qua e là, quei bianco-sfumati, sfreccianti rondoni di

mare (mi chiedo se esiste altrove mare o costa capace di umiliarli) sempre con l'alberatura inclinata e la fiera, pura

bellezza di falchi in azione - panfili e golette newyorkesi di prima classe che, con questa bella giornata e il vento buono,

corrono il libero mare. E in mezzo, scattante verso l'alto, frangiata di navi, moderna, americana eppur stranamente

orientale, Manhattan a forma di V, con la sua massa compatta, le sue guglie, i suoi edifici raggruppati al centro che

sfiorano le nuvole - il verde degli alberi e tutto il bianco, il marrone e il grigio delle architetture armoniosamente fusi, ai

miei occhi, sotto un miracolo di cielo limpido, luce deliziosa dall'alto e foschia di giugno sulla superficie sottostante.

UMANA, EROICA NEW YORK

L'impressione complessiva personale di New York e Brooklyn che sto ricavando da questa visita (quando sarà

dunque che i due municipi vengano riuniti sotto l'unico nome di Manhattan?) - quello cioè che io definirei il paesaggio

umano interiore ed esteriore di queste grandi moltitudini oceaniche in perenne fermento - è per me uno dei piaceri più

grandi. Dopo un'assenza di molti anni (me ne andai allo scoppio della guerra di secessione, e da allora non sono più

tornato a vivere qui) eccomi pieno di curiosità a riprendere contatto con le folle, le strade che conosco così bene, con

Broadway, i ferry, il lato ovest della città, la democratica Bowery - con le sembianze e gli atteggiamenti umani che

s'incontrano in tutti questi luoghi, o intorno ai moli, o in mezzo al perpetuo viavai delle vetture a cavallo, nei battelli

gremiti di gitanti o in Wall Street e Nassau Street, di giorno - e di notte nei locali di divertimento - qualcosa di

vorticoso, rigurgitante e fluido come le acque che lo circondano - umanità sterminata, in tutti i suoi vari stadi -

Brooklyn, anche - tutto questo ho riassorbito nelle ultime tre settimane. Non v'è bisogno di ricorrere ai dettagli - basti

dire in breve che (fatte le dovute riserve sui lati in ombra e le venature marginali di una città di un milione di anime) il

risultato finale delle impressioni di queste vaste città, con le loro qualità umane, è per me confortante, potrei dire eroico,

al di là di ogni definizione. Vivacità, figure generalmente ben fatte, occhi limpidi che ti guardano in faccia, una

combinazione singolare di reticenza e padronanza di sé, e un'indole buona e socievole - il prevalere di una gamma

conforme di modi, gusti, intelligenza, più di quanto non si trovi certamente in qualsiasi altro luogo del mondo - e la

fioritura palese di quel senso di cameratismo personale al quale io guardo come al più sottile e più tenace legame futuro

di questa variegata Unione - tali cose non solo sono sempre visibili qui, in questi imponenti canali di umanità, ma

costituiscono ovunque la norma e la media. Direi che oggigiorno - e qui sfido cinici e pessimisti, ma con piena nozione

delle loro riserve - uno studio valutativo e penetrante dell'attuale umanità newyorkese potrebbe fornire la prova più

diretta fino ad oggi della riuscita della Democrazia - nonché della soluzione pratica di quell'altro paradosso, la

compatibilità di un individuo libero perfettamente sviluppato e la collettività dominante. Giunto ormai alla vecchiezza,

invalido e malato, dopo aver soppesato per anni i molti punti dubbi e i pericoli di questa nostra repubblica - e

pienamente conscio di tutto quanto può dirsi dall'altra parte - io vado scoprendo durante questa mia visita a New York,

nel rapporto e nel contatto quotidiano con le sue miriadi di persone (proporzioni enormi, oceani, maree) il farmaco

migliore e più efficace di cui l'anima mia abbia mai usufruito - e l'ambiente fisico e lo sfondo di terre e d'acque più

grandioso che il globo offra - voglio dire l'isola di Manhattan e Brooklyn, che il futuro dovrà ricongiungere in una sola

città - sede di una democrazia superba, e al centro di un superbo scenario naturale.

ORE PER L'ANIMA.64

22 luglio 1878. Tornato a vivere in campagna. Meravigliosa coincidenza di tutto ciò che riesce a creare il

miracolo di certe ore dopo il tramonto - così vicine, e insieme tanto lontane. I giorni perfetti, ho osservato, o quasi

perfetti, non sono dopo tutto così rari: ma rare sono le combinazioni che determinano notti perfette, anche nello spazio

di tutta una vita. Stasera abbiamo una di quelle perfezioni. Il tramonto aveva lasciato le cose alquanto nitide; le stelle

più grandi si mostrarono non appena lo permisero le ombre. Poco dopo le otto, d'improvviso s'alzarono tre o quattro

grandi nuvole nere, apparentemente da punti diversi, le quali galoppando sotto gran buffi vorticosi di vento, ma senza

tuoni, dilagarono ovunque sottraendo gli astri alla vista, e preannunziarono un violento temporale dovuto al caldo. Ma

non ci fu temporale, e nuvole, buio e tutto, trascorsero e si dileguarono con la stessa fulmineità con cui s'erano levate;

poco dopo le 9, fino alle 11, l'atmosfera e l'intera veduta sopra di noi erano in quello stato di eccezionale chiarezza e

gloria cui ho alluso poc'anzi. A nordovest ruotava il Gran Carro con l'asse verso la Stella Polare. A oriente, un poco

verso sud, la costellazione dello Scorpione già al culmine, con la rossa Antares rutilante sul collo; intanto il maestoso

Giove, levatosi già da un'ora e mezzo, fluttuava superbo a est (niente luna fin dopo le 11). Una estesa parte del cielo

sembrava esser stata sottoposta a gran zampilli di fosforo. Lo sguardo penetrava più a fondo, più lontano di sempre; i

corpi celesti fitti come spighe di grano in un campo. Non che vi fosse una particolare brillantezza - niente di così nitido

come in certe pungenti notti d'inverno, bensì una strana luminosità soffusa ovunque, agli occhi, ai sensi, all'anima.

Quest'ultima entrava nella cosa in modo particolare (sono convinto che esistano in natura certe ore, specie

dell'atmosfera, mattini e sere, indirizzate all'anima; in tal senso la notte trascende il giorno più superbo). Adesso

veramente, se mai era accaduto prima, i cieli testimoniavano la gloria di Dio. Era invero il cielo della Bibbia,

dell'Arabia, dei profeti e dei poemi più antichi. Là, assorto e immobile (mi ero appartato per assorbire la scena da solo, e

godermi intatto l'incanto), silenziosamente penetrarono in me la ricchezza, i remoti spazi, la vitalità, la brulicante

pienezza, pur distaccata e chiara, di quella conca stellare slanciata sopra il mio capo, così libera, interminabilmente alta,

protesa a est, a ovest, a nord e a sud - e io sotto, nel centro, solo un punto, ma in cui tutto s'incorporava.

E invero come per la prima volta, la creazione silenziosamente lasciò piovere in me, attraverso me, la sua

placida inesprimibile lezione, superiore - oh, così infinitamente superiore! - a tutte le lezioni dell'arte, dei libri, dei

sermoni e della scienza antica e nuova. L'ora dello spirito - ora di adorazione - il visibile suggerimento di Dio nello

spazio e nel tempo - adesso chiaramente delineati, come forse mai più. L'ineffabile additato ovunque - ne erano

lastricati i cieli. La via Lattea, quasi una sinfonia sovrumana, un'ode di universale vaghezza sdegnosa di sillabe e suoni -

lampeggiante sguardo di Divinità rivolto all'anima. E tutto in silenzio - la notte e le stelle indescrivibili - lontanissime,

tacite.

L'ALBA. 23 luglio. Stamane, un'ora o forse due prima del sorgere del sole, uno spettacolo elaborato sul

medesimo scenario, ma di bellezza e significato assai dissimili. La luna ben alta, già oltre il primo quarto,

luminosissima - l'aria e il cielo di un qual cinico nitore, la verginale freddezza di Minerva - non il peso del sentimento o

del mistero, o l'estasi indefinibile della passione - non quel senso religioso della molteplicità del Tutto distillata e

sublimata in unità, della notte or ora descritta. Ogni stella adesso si mostra per quello che è, semplicemente, stagliata

contro l'etere incolore; il carattere del mattino che si annunzia, ineffabilmente dolce e fresco e limpido, è tuttavia solo

per il senso estetico, per una purezza senza sentimento. Ho parlato dei lineamenti della notte - ma oserò fare altrettanto

con l'alba senza nubi? (Che sottile legame è mai questo tra un'anima umana e il levarsi del giorno? Simili, e tuttavia non

due sole notti o due spettacoli mattutini che possano dirsi veramente simili). Preceduto da una stella immensa, quasi

ultraterrena nella sua effusione di bianco splendore, con due o tre lunghi raggi ineguali di diamantina lucentezza che si

perdevano giù nella fresca aria antelucana - un'ora così, e poi il sole.

L'ORIENTE. Che argomento per una poesia! E invero dove trovarne uno più pregnante, più splendido - più

idealistico e reale a un tempo, più sottile e delicatamente sensuoso? L'Oriente che risponde a tutti i paesi, le epoche, i

popoli; che tocca tutti i sensi, qui, adesso, senza mediazioni, e tuttavia così indescrivibilmente remoto - con tali

retrospettive nel tempo! L'Oriente - così esteso, fino a perdersi - l'Oriente, i giardini dell'Asia, grembo primo della storia

e del canto - procreatore di tutte quelle strane e fosche cavalcate -

Fiorente di sangue, pensoso, rapito nella meditazione,

caldo e appassionato,

In ampie vesti fluttuanti, acri profumi,

Il volto arso dal sole, l'anima intensa, occhi lucenti.

Sempre l'Oriente - antico, così inconcepibilmente antico! Ma egualmente qui, ancora nostro - fresco come una

rosa, per ogni mattino, per ogni vita, oggi - e così per sempre.

17 sett. Altra presentazione - stesso tema - di nuovo poco prima del sorgere del sole (una delle ore che

prediligo). Il cielo grigio, terso, un tenne bagliore nel viola opaco dell'oriente, il fresco odore fragrante, la rugiada - le

mandrie di buoi e cavalli che pascolano laggiù nei campi - e di nuovo la stella Venere, levatasi da due ore. Quanto a

suoni, lo stridìo dei grilli nell'erba, la buccina sonora del gallo, il crocidare lontano d'una cornacchia mattiniera.

Silenzioso, sulla densa bordura di cedri e di pini, s'alza abbagliante, vivido, il rosso disco di fiamma; in basso, le cortine

di bianco vapore si dissolvono vorticando..65

LA LUNA. 18 maggio. Ieri sera andai a letto per tempo, ma mi trovai sveglio poco dopo la mezzanotte, e

rigiratomi un poco in uno stato d'insonnia e di febbre mentale, mi alzai, mi vestii, uscii e m'incamminai per il mio

sentiero. La luna piena, già su da un tre o quattro ore - una spruzzata di nuvole per lo più leggiere, che viaggiavano

pigre - Giove alto da un'ora a levante, e qua e là per l'ampio spazio del cielo il casuale occhieggiare di una stella, poi

subito spento. Così, meravigliosamente velata e diversa (l'aria già con quel profumo di prima estate, nient'affatto umida

o pungente) Diana emergeva languida, a volte nel suo più ricco fulgore per alcuni minuti, poi di nuovo parzialmente

coperta. Lontano, un caprimulgo passava e ripassava senza fine le sue note. Era quell'ora silenziosa tra l'una e le tre.

Questa prodigiosa scena notturna, come seppe subito distendermi, placarmi! Non v'è forse per noi nella luna

qualcosa, un rapporto o uno stimolo della memoria, che nessun poema e nessuna letteratura è riuscita sinora a cogliere?

(pure in ballate antichissime e primitive, io mi sono imbattuto in versi, spunti che sembravano suggerirlo). Dopo

qualche tempo le nubi diradarono scomparendo quasi del tutto, e la luna proseguendo il suo fluttuante cammino,

tremula e mutevole, portava con sé delicati effetti cromatici di pellucido verde e vapori rossastri. Permettete che io

concluda questi appunti con un brano di non so quale scrittore (estratto dal Tribune del 16 maggio 1878):

Nessuno mai si stanca della luna. Dea per il privilegio della sua eterna bellezza, ma vera donna per il tatto che

le è proprio, ella conosce il fascino che nasce dal mostrarsi raramente, apparire di sorpresa e trattenersi per poco; non

porta mai lo stesso abito per due notti di seguito, e mai allo stesso modo nella medesima notte; si raccomanda alla gente

pratica per la sua utilità e si fa adorare per la sua inutilità da poeti, artisti e innamorati di ogni terra, si presta a ogni

simbolismo a ogni emblema: è l'arco di Diana, lo specchio di Venere e il trono di Maria; è una falce, uno scialle, un

sopracciglio, un volto di uomo o di donna a seconda che sia lei o lui a guardarla, è l'inferno del folle, il paradiso del

poeta il giocattolo del bambino lo studio del filosofo e mentre i suoi adoratori, incapaci di staccarsi dai suoi maliosi

sembianti, ne seguono i passi, ella sa serbare il suo femmineo segreto - il suo secondo volto - sconosciuto e

inconoscibile.

Continuando. 19 febbraio 1880. Poco innanzi le dieci di sera, di nuovo freddo e cielo completamente sgombro,

lo scenario in alto, verso sud-ovest, di fantastica e brulicante magnificenza. La luna nella sua terza fase - i gruppi delle

Iadi e delle Pleiadi con il pianeta Marte in mezzo - tutta spiegata da un capo all'altro del cielo la grande X egizia (Sirio,

Procione e le stelle maggiori delle costellazioni della Nave, della Colomba e di Orione); a oriente, appena spostata verso

nord, Boote e, sul suo ginocchio, Arturo, già su da un'ora, che continua a scalare il cielo, grosso e ambiziosamente

sfavillante, quasi volesse contendere a Sirio la supremazia stellare.

Il sentimento delle stelle e della luna in notti come queste mi offre tutti i liberi margini e le inafferrabili linee

della musica e della poesia fusi nella più assoluta esattezza geometrica.

PSICHI PAGLIERINE E ALTRE

4 agosto. Vista deliziosa! Seduto all'ombra - giorno caldo, il sole che splende da un cielo senza nubi, mattino

inoltrato - percorso con lo sguardo un campo di dieci acri lussureggiante di trifoglio (seconda fioritura) - il rosso

avvinato, maturo, dei fiori e le chiazze marrone che in agosto screziano ovunque il verde-cupo predominante. Su tutto

palpitano miriadi di farfalle giallo-chiaro che, ora sfiorando la superficie del campo, ora tuffandosi e oscillando,

infondono nella scena una curiosa animazione. Le belle creature, insetti spirituali, psichi paglierine! Di quando in

quando una di loro lascia le compagne e sale nell'aria, ora a spirale ora in linea retta, frullando verso l'alto, sempre più,

fino a svanire letteralmente alla vista. Lungo il sentiero poco fa, mentre venivo, ho notato un punto, forse dieci piedi

quadri, dove se n'erano radunate più di un centinaio a dar spettacolo, una sarabanda o divertimento da farfalle, e qui

s'avvitavano e ruotavano, a capofitto e di traverso, ma sempre restando nei confini. Codeste creaturine sono spuntate di

colpo negli ultimi pochi giorni, e sono adesso copiosissime. Se siedo all'aperto o passeggio, è raro ch'io mi guardi

attorno senza vederne da qualche parte due (sempre in due) che svolano per l'aria in amorosi armeggi. E poi quel loro

colore inimitabile, la fragilità, il modo così singolare di muoversi - e quello strano e frequente abito di abbandonar lo

sciame e salirsene su nel libero etere, apparentemente per non tornarne mai più. Osservando il campo, ovunque il

delicato sfavillio di queste ali gialle, e i molti fiori nivei della carota selvatica graziosamente reclini sugli steli alti e

affusolati - e quanto a suoni, il gridio gutturale d'un lontano branco di galline faraone mi giunge all'orecchio, stridulo e

tuttavia in qualche modo musicale. E adesso, da nord, un brontolío smorzato di tuoni prodotti dalla calura - e sempre il

basso ronfare del vento che s'alza e precipita tra le vette degli aceri e dei salici.

20 agosto. Nugoli di farfalle (venute a sostituire i calabroni di tre mesi fa, ormai scomparsi) continuano a

svolazzare avanti e indietro, d'ogni specie, bianche, gialle, brune, porporine - a tutti il lampo di una splendida creatura

che ti passa accanto pigramente su ali che paiono tavolozze d'artista tanto son screziate d'ogni colore. Sulla linea dello

stagno ne scorgo parecchie, bianche, che passano da una parte all'altra seguitando indolenti il loro volo capriccioso.

Vicino a dove sono seduto, cresce un'erba selvatica dall'alto stelo coronato da una profusione di fiori rosso-sangue, su

cui vanno a posarsi e a trastullarsi i nivei insetti, talora in gruppi di quattro o cinque. Di tanto in tanto un caprimulgo.66

visita questa medesima pianta, e io lo osservo mentre va e viene, si libra o frulla elegantemente qua e là. Codeste

farfalle bianche creano nuovi bei contrasti di contro ai puri verdi del fogliame d'agosto (abbiamo avute piogge copiose

negli ultimi tempi) e al bronzo lucente della superficie dello stagno. Potete persino addomesticarli, questi insetti: io ho

un farfallone quaggiù, grosso e bello, che mi riconosce e viene a cercarmi, e gli piace ch'io lo tenga sul palmo della

mano.

Un altro giorno, più, tardi. Un gran campo di dodici acri di cavoli maturi, con quella tinta dominante di un

verde-malachite, e sopra di essi, e in mezzo, miriadi delle medesime farfalle bianche che volano e fluttuano in ogni

direzione. Risalendo il sentiero oggi ne ho visto come un gran globo vivo, di due o tre piedi di diametro, decine e decine

in grappoli, che avanzavano rotolando nell'aria e sempre aderendo a quella forma di sfera, a forse sei o otto piedi dal

suolo.

RICORDO NOTTURNO

25 agosto (9-10 del mattino). Seduto sul bordo dello stagno, tutto è quiete, l'ampia superficie liscia distesa

innanzi a me - l'azzurro del cielo e le nuvole bianche che vi si rifrangono - e a tratti, riflessa, la fuggitiva sagoma di un

uccello. Ieri sera sono rimasto quaggiù con un amico fin dopo la mezzanotte: ogni singola cosa un miracolo di

splendore - la gloria delle stelle e il disco perfetto della luna - nuvole passeggere, argentee, o d'una luminosità giallastra

- di quando in quando masse di vaporosa nuvolaglia luminescente - e in silenzio al mio fianco il mio caro amico. Le

ombre degli alberi, le chiazze di luna sull'erba - la dolce brezza e l'odore appena avvertibile del granturco qui vicino che

va maturando - la notte indolente e spirituale, indicibilmente ricca, tenera, suggestiva - qualcosa che ti filtra attraverso

l'anima, e per lungo tempo poi continua a nutrire, alimentare, confortare la memoria.

FIORI DI CAMPO.

Questa è stata (e lo è ancora) una grande stagione per i fiori selvatici: ve ne sono oceani, ai bordi delle strade

dei boschi, lungo le sponde dei ruscelli e le linee delle vecchie palizzate, e disseminati ovunque in profusione nei campi.

Assai diffuso è un certo fiore di otto petali d'un giallo-oro chiaro e luminoso, con al centro un ciuffetto marrone della

grandezza circa di un mezzo dollaro d'argento; l'ho notato ieri per un lungo tratto di strada, che rivestiva fitto le sponde

dei ruscelli. C'è poi una bella erba tutta coperta di fiori azzurri (l'azzurro delle tazzine da tè cinesi che le nostre prozie

serbavano gelosamente) che mi fermo sempre a ammirare, poco più grande di una moneta da dieci centesimi, e molto

diffusa. Il bianco comunque è il colore dominante: la carota selvatica di cui ho già parlato; e anche il fragrante

semprevivo. Ma ve n'è d'ogni sfumatura e bellezza, soprattutto in quelle macchie semiaperte di quercioli e cedri nani

piuttosto frequenti qua intorno - astree selvatiche d'ogni colore. Nonostante la prima folata di gelo questi tipetti

gagliardi si mantengono in pieno fiore. Anche le foglie degli alberi - certune cominciano a farsi gialle, o d'un verde

sbiadito e opaco. Già è visibile il cupo rosso-vivo del sommaco e dell'albero della gomma, e il color paglierino del

corniolo e del faggio. Permettete che io dia qui i nomi di alcuni tra questi fiori perenni, queste erbe amiche che ho

imparato a conoscere nell'una o nell'altra stagione durante le mie passeggiate in questi paraggi:

Azalea selvatica

Dente di leone

Caprifoglio selvatico

Millefoglie

Rose selvatiche

Coreosside

Verga aurea

Pisello selvatico

Consolida reale

Vite del Canada

Croco precoce

Sambuco

Calamo aromatico (grandi distese)

Elleboro

Rampicanti, gelsomino della Virginia

Girasole

Maggiorana odorosa

Camomilla

Serpentaria

Viole.67

Ginocchietto (o sigillo di Salomone)

Clematide

Melissa dolce

Sanguinaria

Menta (moltissima)

Magnolia dei paludi

Geranio selvatico

Asclepiedee

Eliotropo

Pratolina (molta)

Bardana

Crisantemo selvatico

UNA GENTILEZZA RIMANDATA PER TROPPO TEMPO

Le note che precedono mi ricordano qualcosa. Poiché le creature che io amo maggiormente ritrarre sono state

sempre sottovalutate da quelli che se ne servono per i loro quadri, volumi e poesie - io qui, a inadeguata testimonianza

della mia gratitudine per molte ore di pace e conforto in periodi di seminvalidità (ma per nulla certo che prima o poi non

abbiano a metter su arie per il complimento) dedico la seconda metà di questi «Giorni rappresentativi» a

Api

Merli

Libellule

Tortore acquatiche

Verbasco, tanaceto, menta peperita.

Macaoni (grandi e piccoli, certi splendidi)

Lucciole (sciami, milioni di lucciole indicibilmente belle e strane di notte sullo stagno e sul ruscello)

Bisce d'acqua dolce

Cornacchie

Maggiolini

Zanzare

Farfalle

Vespe e calabroni

Dumetelle (e tutti gli altri uccelli)

Cedri

Liriodendri (e tutti gli altri alberi)

e ai luoghi e ai ricordi di quei giorni e del ruscello.

IL FIUME DELAWARE: GIORNI E NOTTI

5 aprile 1879. Con il ritorno della primavera nel cielo, nell'aria e nelle acque del Delaware, ritornano anche i

gabbiani. Non mi stanco mai di contemplarne l'ampio e agile volo, le spirali, o quando oscillano lenti senza un colpo

d'ala o guardano in basso col becco ricurvo o si tuffano in acqua a caccia di cibo. I corvi, parecchio numerosi durante

tutto l'inverno, sono scomparsi col ghiaccio. Non se ne vede neppur uno adesso. Sono rispuntati invece i battelli a

vapore - in gran movimento, lindi, ridipinti a nuovo per il lavoro estivo - il Columbia, l'Edwin Forrest (il Republic non

si è ancora visto), il Reybold, il Nelly White, il Crepuscolo, l'Ariele, il Warner, il Perry, il Taggart, il Jersey Blue -

persino il vecchio e sconquassato Trenton - per non parlare poi di quegli impertinenti torelli delle acque, i rimorchiatori.

Ma lasciate che riassuma e cataloghi il tutto - il fiume stesso, dal mare sino a qui - Capo Island da una parte e il

faro di Henlopen dall'altra - l'ampia distesa della baia a nord, e poi giù verso Filadelfia, fino a Trenton; le scene che

conosco meglio (vivendo per la maggior parte del tempo a Camden guardo le cose da quel punto di vista) - i grossi

transatlantici che entrano e escono, a pieno carico, arroganti e neri - il grande spazio che separa le due città, tagliato a

mezzo dall'isola di Windmill - qualche volta una nave da guerra, magari straniera, all'ancora, coi suoi cannoni e i

boccaporti, le scialuppe, i marinai abbronzati, la cadenza regolare dei remi la gaia folla che si raccoglie nei giorni «di

visita» - le molte golette a tre alberi, grandi e belle (una delle costruzioni marinare che ha avuto maggior fortuna da

queste parti negli ultimi anni), certune nuove e elegantissime con le loro vele bianco sporco e l'alberatura in legno di

pino giallo - i cutter che volano col vento buono (ecco ne vedo uno venire a vele spiegate, la controranda splendente al

sole, altissima e pittoresca, creatura di bellezza tra il cielo e l'acqua) - i moli gremiti che frangiano la città - le bandiere

di nazioni diverse, la risoluta croce inglese accampata sullo sfondo sanguigno, il tricolore francese, lo stendardo del.68

grande impero della Germania del Nord, i colori italiani e spagnoli - non di rado, nel pomeriggio, l'intera scena

ravvivata da una flottiglia di yacht che tornano pigramente, nell'aria quasi ferma, da Gloucester dove han preso parte a

una gara; e il vapore Hamilton della guardia di finanza, di forme nitide e snelle, in mare aperto, la bandiera che sventola

perpendicolare a poppa - e a volger lo sguardo a nord, ecco lunghe filacce di vapore d'un bianco lanoso, o di color fumo

nero-sporco, che s'allungano a ventaglio e si spiegano in diagonale dalle coste di Kensington o Richmond, nel vento di

ovest-sud-ovest.

SCENE SUL FERRY E SUL FIUME, SERATE DELLO SCORSO INVERNO

Poi il ferry di Camden. Di giorno, eccitazione, varietà, gente, gran daffare. Di notte, che silenziose ore di

meraviglia e di pace, durante la traversata in battello, quasi sempre solo - su e giù per il ponte, a poppa o a prua. E

allora, quale comunione con le acque, l'aria, il chiaroscuro squisito - il cielo e le stelle che non hanno parole, niente per

l'intelletto, e tuttavia così eloquenti, così comunicativi per l'anima. E gli uomini del ferry - certo non sanno che cosa

abbiano voluto dire per me, giorno e notte - quanti penosi stati di inerzia, noia, debolezza abbiano dissipato con quei

loro modi aperti e con la loro presenza. E i piloti - capitan Hand, Walton e Giberson di giorno, capitan Olive di notte;

Eugene Crosby le cui braccia giovani e forti mi hanno sostenuto tante volte, abbracciato, scortato in salvo a bordo sopra

i vuoti del ponte, tra mucchi di bagagli; e invero tutti i miei amici del ferry, il sovrintendente capitano Frazee, e poi

Lindell, Hiskey, Fred Ranch, Prince, Watson e una dozzina d'altri. Infine lo stesso ferry con le sue scene curiose - un

bimbo che viene alla luce all'improvviso in una sala d'aspetto (un fatto vero - e accaduto più di una volta) - talora un

veglione in maschera, fino a tarda notte, con l'orchestra, a ballare e piroettare come matti sul gran ponte, con quegli abiti

fantastici indosso; talvolta il signor Whitall, l'astronomo (che ogni tanto viene a mettermi al corrente su questioni di

stelle, con una lezione dal vivo, e risposte per qualsiasi domanda) - oppure una bella famiglia prolifica, un gruppo di

otto, nove, dieci, persino dodici! (ieri, nella sala di soggiorno del ferry, durante la traversata, madre e padre con otto

figli, diretti a est, non so dove).

Ho già accennato ai corvi. Li osservo sempre dal battello. Hanno una parte importante nelle scene invernali sul

fiume, di giorno. In quella stagione, si scorgono ovunque le loro sagome nere stagliate contro la nave e il ghiaccio - ora

nel remeggio del volo, ora su qualche banco di ghiaccio più o meno grosso alla deriva sulla corrente. Un giorno il fiume

era completamente sgombro - c'era solo una lunga cresta di ghiaccio spezzato, una fettuccia sottile che vidi correre

trascinata dalla corrente, piuttosto veloce, per più di un miglio: su questa cresta bianca stavano radunati i corvi -

centinaia - una buffa processione - («mezzo lutto», fu il commento di qualcuno li intorno).

Poi il salone d'imbarco, per i passeggeri in attesa - la vita illustrata in tutti i suoi aspetti. Prendiamo una delle

mie descrizioni buttate giù sul posto due o tre settimane fa, a marzo. Pomeriggio, circa le tre e mezzo, comincia a

nevicare. C'è stato uno spettacolo a teatro, una matinée; tra le quattro e mezzo e le cinque, ecco una fiumana di signore

che rientrano alle loro case. La sala non ha mai presentato una scena così gaia e vivace - donne e ragazze del Jersey,

piacenti, ben vestite, decine e decine, continuano a rifluire qui per quasi un'ora - occhi luminosi e visi accesi, venendo

dall'aria aperta - qualche sbruffo di neve rimasto sul cappello o sugli abiti, quando entrano - l'attesa di cinque o dieci

minuti - il chiacchiericcio e le risate (le donne si divertono un mondo tra di loro, tra battute scherzose, pranzetti e

effusioni d'allegria) - Lizzie, l'inserviente della sala d'attesa, con quel suo fare simpatico - e come accompagnamento i

vari scampanellìi e le sirene a vapore dei battelli in partenza, con le loro pause ritmiche sulla nota bassa di fondo - i

quadretti domestici, madri circondate da una frotta di figli e figlie (una visione deliziosa) - bambini, gente di campagna

- ferrovieri in uniforme e berretto azzurro - i personaggi più svariati della città e della campagna rappresentati qui, o

almeno suggeriti. Poi, fuori, qualche passeggero in ritardo che corre a balzi frenetici per raggiungere il battello. Verso le

sei la corrente umana gradualmente infittisce - ora una ressa di veicoli, furgoni, cataste di colli ferroviari - ora una

mandria di bestie che provoca una certa eccitazione, i mandriani armati di pungoli con cui battono i fianchi fumanti dei

bestioni terrorizzati. Nella sala imbarco si concludono affari, si civetta, si fa all'amore, si danno éclaircissements e si

fanno proposte - ecco il simpatico Phil con la sua faccia onesta e il suo pacco di giornali del pomeriggio - oppure Jo, o

Charley (quest'ultimo la settimana scorsa si è gettato dal molo e ha salvato una massiccia signora che stava per

affogare) che si accingono a ricaricare la caldaia dopo averla ripulita con un lungo palanchino.

Oltre a tutta questa «commedia umana», il fiume offre nutrimenti di più alto livello. Ecco alcune mie note

dell'inverno scorso, così come furono buttate giù sul momento.

Notte di gennaio. Viaggi piacevoli sul grande Delaware. Marea piuttosto alta, con forte riflusso. Poco dopo le

otto, fiume pieno di ghiaccio, per lo più in pezzi, ma con certi blocchi più grossi che, urtati dalla nave, la fan tremare e

cigolare tutta benché costruita in solido legno: essi dilagano nella chiara notte di luna sin dove si spinge il mio sguardo,

strani, irreali, argentei, baluginanti. Tra urti, tremiti, e talora fischi come di mille serpenti, sale la marea, e a noi che

avanziamo ora seguendola ora tagliandola, essa offre un grandioso accompagnamento musicale che ben si accorda allo

spirito della scena. Sopra di noi, lo splendore indescrivibile; ma c'è un che di altero, di sprezzante quasi, nella notte. Mai

prima avevo sentito, in quei silenziosi, infiniti astri lassù, tanto sentimento latente, quasi passione. In una notte simile si

capisce perché, sin dai tempi dei Faraoni e di Giobbe, la cupola celeste costellata di pianeti ci abbia fornito le critiche

più sottili e più profonde all'orgoglio, la gloria e le ambizioni umane..69

Altra notte d'inverno. Non conosco nulla di più pieno che trovarmi, in una limpida e fresca raggiante notte di

luna, sul ponte ampio e solido di un potente battello che avanza, altero e irresistibile, frantumando lo spesso marmo di

questo ghiaccio scintillante. L'intero fiume ne è ora ricoperto - qua e là blocchi immensi. C'è un'aria di sortilegio nella

scena - dovuta in parte alla qualità della luce, con le sue sfumature azzurre, il crepuscolo lunare - solo le stelle più

grandi resistono al raggiar della luna. Temperatura rigida, piacevole se ci si muove, secca e ricca di ossigeno. Ma questo

senso di potenza - la spinta tenace e sprezzante, imperiosa, della nostra nuova macchina, così forte, che s'apre la strada

come un vomere tra blocchi di ghiaccio grandi e piccoli.

Un'altra. Nello spazio di due ore ho compiuto più volte la traversata, per mero piacere - alla ricerca di una

quieta eccitazione. Il cielo e il fiume hanno subìto intanto varie metamorfosi. Il primo ha mostrato per qualche tempo

due immensi scaglioni di cirri, a ventaglio, tramezzo ai quali viaggiava lenta la luna, ora irradiando e trascinando seco

un'aureola di un trasparente colore bruno-fulvo, ora inondando l'intera estensione del cielo di un verde-chiaro brillante e

vaporoso, per il quale, come attraverso un velo illuminato, la si vedeva muoversi con discreto passo femmineo. Poi

un'altra traversata, e il cielo era assolutamente terso, e Diana in tutto il suo fulgore; a nord il Gran Carro, con la doppia

stella sul timone visibile meglio del solito. E poi lo scintillante solco di luce nell'acqua, ondulato, danzante. Tante

trasformazioni, tanti quadri e poemi inimitabili.

Un'altra ancora. Stanotte studio le stelle mentre attraversiamo, cogliendo il momento favorevole (siamo in

febbraio avanzato, il cielo di nuovo limpidissimo). Alte a ponente le Pleiadi, che occhieggiano con delicati scintillìi nel

morbido cielo. Ecco Aldebaran alla testa delle Iadi a forma di V, e proprio sopra di noi Capella con i suoi piccoli. Ma il

più maestoso, completamente spiegato in alto a sud, è Orione, immenso, disteso, capocomico della compagnia, con la

splendente rosetta gialla sull'omero, e i suoi tre Re - e un po' spostata verso est, Sirio, tacitamente arrogante, fantastica

stella solitaria. A tarda sera, arrivati a terra, mentre indugiavo lì intorno o passeggiavo lentamente (non riuscivo a

staccarmi dalla bellezza rasserenante della notte) mi giungeva dalla stazione di deposito di Jersey Ovest l'eco delle grida

dei ferrovieri che spostavano e manovravano treni, macchine, ecc.: nel totale silenzio d'ogni altra cosa e per una qualche

qualità acustica dell'aria, esse avevano effetti musicali, emotivi, mai immaginati prima. Rimasi lì per lunghissimo

tempo, ascoltandoli.

Notti del 18 marzo 1879. Una di quelle notti calme, piacevolmente fresche, dell'inizio della primavera,

squisitamente limpide e senza nubi - l'atmosfera ancora di quel raro colore blu-nero, vitreo, prediletto dagli astronomi.

Alle otto di sera lo scenario sopra di noi è senza dubbio di una bellezza più che solenne, senza precedenti. Venere molto

bassa a ponente, enorme e fulgida quasi volesse superare se stessa prima di sparire. Fecondo orbe materno - ecco io ti

riprendo. Ricordo quella primavera che precedette l'assassinio di Abramo Lincoln, quando vagando enza pace lungo le

rive del Potomac, nei dintorni di Washington, io ti guardavo lassù triste come me:

Quando passeggiammo su e giù per il cupo mistico azzurro,

Quando percorremmo in silenzio la trasparente notte di ombre,

Quando seppi che avevi qualcosa da dirmi, da come ti spiegavi su di me ogni notte,

Quando scivolasti dal cielo fin quasi a toccarmi (e le altre stelle guardavano),

Quando insieme errammo per la notte solenne.

Col tramonto di Venere, enorme fino all'ultimo e luminosissima ancora sulla linea dell'orizzonte, quale

spettacolo offre in questo momento la vasta conca celeste! Subito dopo il tramonto era visibile Mercurio - una visione

rara. Arturo s'è levato adesso a oriente, un poco verso nord. In calma gloria tutte le stelle di Orione mantengono il loro

posto d'onore, al culmine, a sud - il Cane spostato un poco sulla sinistra. Ed ecco levarsi tra le ultime la Spiga, bassa, un

poco velata; Castore, Regolo e le altre splendono tutte con insolita chiarezza (fino al mattino non si vedranno né Marte

né Giove né luna). Sul filo del fiume il tremolìo di molte luci - un paio di miglia più su, due o tre enormi ciminiere

vomitano ininterrotte, liquide fiamme, come di vulcano, illuminando ogni cosa intorno, e a tratti una sostanza vetrosa,

elettrica, forse calcio, bagliori d'inferno dantesco, in lunghi dardi, terribili, di orrida potenza. Nelle notti di fine maggio,

mi piace osservare durante la traversata i gavitelli dei pescatori coi loro lumicini -

così graziosi, fiabeschi - come i lumini dei morti - che ondeggiano delicati e solitari sulla superficie delle acque

immerse nell'ombra, fluttuando sulla corrente.

PRIMO GIORNO DI PRIMAVERA A CHESTNUT STREET

L'inverno allenta la sua presa, e ci ha già concesso un assaggio preliminare di primavera. La mitezza e la

luminosità di ieri pomeriggio (dopo una mattinata di nebbia che le diede, per contrasto, maggior risalto) presentarono

Chestnut Street - diciamo tra Broad Street e la Quarta - nel suo aspetto migliore da tre mesi a questa parte, con i suoi

angoletti, i negozi, e la gente vestita per lo più con colori allegri (mi sovviene mentre scrivo). Ho fatto una passeggiata.70

tra l'una e le due Si notava indubbiamente sui marciapiedi una quantità di gente dall'aspetto stento, ma i nove decimi di

quel panorama umano di miriadi di persone in movimento apparivano, sotto ogni punto di vista, prosperosi e ben nutriti,

gente insomma a cui non mancava nulla. In ogni caso è stato un piacere trovarsi a Chestnut Street ieri. I venditori

ambulanti sui marciapiedi («bottoni da camicia, tre per cinque centesimi») - il simpatico ometto degli zufoli - i venditori

di bastoni da passeggio, giocattoli, stuzzicadenti - la vecchia accoccolata come un fagotto sulle pietre fredde

dell'impiancito col suo cesto di fiammiferi, spilli e fettucce - la giovane madre negra che mendicava seduta con in

braccio due piccoli gemelli color caffè - la bellezza della serra rigurgitante di fiori rari a palazzo Baldwin, presso la

Dodicesima, uno sfarzo di rossi e di gialli, di gigli nivei e di orchidee incredibili - l'esposizione di pollame, carne e

pesce di prima qualità nei ristoranti - i negozi di chincaglierie pieni di oggetti di vetro e di statuette - i succulenti frutti

tropicali - gli omnibus che devono avanzare a fatica, scampanellando - i veicoli a un cavallo dell'ufficio postale, una

sorta di grassi birocci, sempre di corsa e sempre stipati di postini che vanno e vengono, così sani, virili e belli a vedersi

nelle loro uniformi grigie - le curiosità, i quadri, i libri costosi nelle vetrine - i poliziotti giganteschi, a ogni angolo o

quasi - queste cose verranno facilmente riconosciute e ricordate come tratti caratteristici della strada principale di

Filadelfia. Chestnut Street infatti, come ho scoperto, non è priva di individui e di motivi singolari, anche a paragone

delle grandi «passeggiate» di altre città. Non sono mai stato in Europa, ma ho acquistato familiarità, attraverso anni di

esperienza, con quella grande arteria di New York (o del mondo?) che è Brondway, e possiedo una certa conoscenza

personale, da girellone, di St. Charles Street a New Orleans, di Tremont Street a Boston, oltre agli ampi trottoirs di

Pennsylvania Avenne a Washington. È certamente un peccato che Chestnut Street non sia diciamo due o tre volte più

ampia; ma in qualsiasi bella giornata questa strada esibisce una vivacità, un movimento, una varietà difficilmente

superabili (occhi vividi, volti umani, magnetismo, donne eleganti che passeggiano su e giù - e tutte le belle cose nelle

vetrine - non sono forse più o meno le medesime in tutto il mondo civile?)

Come volano rapide incontro le figure!

Un viso dolce, uno fiero, uno di pietra;

Uno lucente di spensierato riso -

L'altro coi segni di lacrime segrete.

Qualche giorno fa si vide lo spazio dietro il cristallo della vetrina di uno dei magazzini d'abbigliamento a sei

piani, diviso in modo da formare un recinto per bestiame in miniatura, abbondantemente cosparso di fieno e trifoglio

fresco (si sentiva l'odore da fuori) su cui riposavano due splendide pecore, grasse, ben cresciute ma giovani - le più belle

creature della specie che io abbia mai visto. Rimasi a lungo, con la folla, a osservarle - una ruminava distesa, l'altra,

ritta, guardava fuori con gli occhi pazienti orlati di spessa lanugine. Il manto era di color fulvo chiaro con striature di un

nero lucente - una scena decisamente singolare, nel bel mezzo di quell'affollato passeggio di dandy, nababbi e belle

donzelle.

SULLO HUDSON, VERSO LA CONTEA DI ULSTER

23 aprile. A New York per una breve visita, e partenza per un'escursione. Lascio la dimora ospitale, familiare,

dei miei buoni amici, il signore e la signora J.H. Johnston - prendo il battello delle 4 pomeridiane, che risale lo Hudson

per un centinaio circa di miglia. Bel tramonto e bella serata - piacevole soprattutto quell'ora dopo la fermata a Cozzen -

la notte rischiarata dalla mezzaluna e da Venere che ora nuotava in tenera gloria e ora si celava dietro le alte rocce e le

alture della sponda occidentale, cui ci tenevamo accosto (gli altri dieci giorni li trascorro nella contea di Ulster e

dintorni, con frequenti scarrozzate sia al mattino che alla sera, osservazioni del fiume e brevi vagabondaggi).

24 aprile, mezzogiorno. Poco più di tanto e il sole diventerebbe opprimente. Le api tutte fuori a far raccolta di

cibo sui salici e altri alberi. Le osservo mentre ritornano sfrecciando nell'aria o si posano sugli alveari, le zampe tutte

gialle del dorato alimento. Un pettirosso solitario canta qui presso. Me ne sto seduto in maniche di camicia a un bovindo

aperto sulla scena indolente - la lieve foschia, le colline di Fishkill in lontananza - sul fiume, al largo, un cutter con la

vela maestra tutta inclinata, e due o tre barchette da pesca. Sulla ferrovia di fronte, lunghi treni merci appesantiti talvolta

da serbatoi cilindrici di petrolio - trenta, quaranta, cinquanta vagoni in un'unica fila che avanzano ansimando e

rombando spiegati alla vista, il suono tuttavia smorzato dalla distanza.

GIORNATE DAI B., FUOCHI D'ERBE, CANTI DI PRIMAVERA

26 aprile. Allo spuntar del sole, la pura e limpida voce dell'allodola mattolina. Un'ora dopo le note rade e

semplici e tuttavia deliziose, perfette, del passero delle siepi - verso mezzodì il trillo acuto del pettirosso. La giornata è

tra le più belle e dolci finora - un tepore penetrante - un velo amabile nell'aria dovuto in parte a vapori di caldo, in parte

ai fuochi d'erbe che chiazzano ovunque le campagne. Qui accanto un gruppo di aceri rossi silenziosamente esplode in.71

punte di color cremisi, tra un incessante brusio di api affaccendate. Bianche vele di lance e golette scivolano su e giù per

il fiume; sulla riva opposta, quasi senza interruzione, lunghe file di vagoni, con un rollìo poderoso, o un fioco

scampanellare. Ecco i primissimi fiori selvatici nei boschi e sui prati, l'aromatico corbezzolo, l'erba epatica, azzurra, il

fragile anemone e gli aggraziati fiorellini bianchi della sanguinaria. Mi avventuro alla loro scoperta, in lenti

vagabondaggi. Mi piace, camminando lungo le strade, vedere i fuochi dei contadini, a chiazze, che bruciano la

sterpaglia, l'erba, frasche; e come il fumo strisci piatto a terra, prendendo un'inclinazione di sbieco, e s'alzi poi

lentamente, allontanandosi e infine perdendosi. Mi piace il suo odore acre - le folate arrivano sino a me - più gradite di

un profumo francese.

Di uccelli ve n'è moltissimi; di qualsiasi tipo siano, o di due o tre tipi soltanto, stranamente non se ne vede

traccia, finché d'un tratto, un qualche tiepido, esuberante giorno di sole in aprile (e financo in marzo), eccoli qui! da un

ramoscello all'altro, da siepe a siepe, a amoreggiare e a cantare, e quali s'accoppiano, quali preparano il nido. Ma i più

sono en passant - due settimane, un mese da queste parti, e poi via. Come in ogni sua fase la Natura serba il suo ritmo

vitale, copioso, eterno. Tuttavia una gran quantità di uccelli sosta da queste parti per tutta la stagione, o gran parte di

essa - questo è tempo di amori, periodo di nidi. Trovo a volare sul fiume corvi, gabbiani e falchi; odo il grido

pomeridiano di questi ultimi che sfrecciano attorno preparandosi a nidiare. Tra breve s'udrà il rigogolo, e il nasale mìu-mìu

della dumetella; e poi l'uccello del paradiso, il cuculo e le bigie. Tre canti tipici della primavera risuonano

continuamente - quello dell'allodola mattolina, così dolce, sveglio e risentito (quasi dicesse, «ma non vedete?» oppure,

«ma non capite?») - le note gaie, piene, umane del pettirosso (sono anni che cerco un termine conciso, o un'espressione,

che definisca e descriva questa voce d'uccello) - e il fischio d'amore del picchio dorato. Gl'insetti sono tutti in giro,

copiosissimi, a mezzogiorno.

29 aprile. Mentre percorrevamo lentamente la strada in vettura, udimmo subito dopo il tramonto il canto del

tordo. Ci fermammo senza una parola, e restammo a lungo in silenzio. Quelle note deliziose ci inondarono i sensi e

l'anima - un inno dolce, senz'arte, spontaneo e semplice, che s'allargava nell'aria crepuscolare come i toni di flauto dalle

canne di un organo - rimbalzando nitido sino a noi dalla base di un roccione perpendicolare dove, nei recessi di qualche

fitto gruppetto di giovani alberi, doveva trovarsi l'uccello.

INCONTRO CON UN EREMITA

Durante uno dei miei vagabondaggi sulle colline ho scoperto un vero eremita; vive in un angolo solitario,

difficile a raggiungersi, con una bella vista e un pezzetto di terra di due pertiche quadrate. È un uomo di mezza età,

piuttosto giovanile, nato e cresciuto in città, è stato a scuola, ha viaggiato in Europa e in California. L'avevo già

incontrato una o due volte sulla strada e ci si era salutati, scambiando solo qualche parola; poi, la terza volta, mi chiese

di proseguire con lui e di fermarmi alla sua capanna (un complimento quasi senza precedenti, a quanto mi fu riferito da

altri in seguito). Era d'origine quacquera, credo; parlava senza sforzo e con una certa libertà, ma senza aprirsi mai sulla

sua vita, storia o tragedia che fosse.

UNA CASCATA D'ACQUE NELLA CONTEA DI ULSTER

Vado annotando questi pensieri al centro di uno scenario selvaggio di boschi e colline, dove siamo venuti a

vedere una cascata. Non avevo mai visto abeti più belli o più fitti, parecchi assai grandi, alcuni vecchi e canuti. C'è un

tale sentimento in loro, riservato e irsuto - quel ch'io chiamo morso-del-tempo e lasciatemi solo - e quel ricco tappeto di

felci, rampolli di tasso e muschio, già screziato dai fiori selvatici dell'estate incipiente. Su tutto e intorno a tutto, il

liquido e monotono gorgoglio della cascata, rauca, impetuosa, abbondante - le acque fulvo-verdastre, d'una trasparenza

cupa, che precipitando rapide giù tra le rocce chiazzandosi di lattea schiuma - una colata d'ambra in corsa, larga trenta

piedi, nata lassù tra le alture e i boschi e che ora il volume rende sempre più tumultuosa - un salto ogni cento pertiche, e

a volte anche ogni tre o quattro. Una foresta primitiva, druidica, solitaria e selvaggia - in un anno non arriveranno

quassù dieci visitatori - ovunque rocce spaccate - sopra di noi l'ombra, e sotto i piedi il folto tappeto di foglie e, appena

avvertibile, un aroma selvatico e delicato insieme.

WALTER DUMONT E LA SUA MEDAGLIA

Passeggiando ieri lungo la strada maestra, mi fermai a osservare un uomo che a breve distanza arava un campo

pietroso con una coppia di buoi. Un lavoro del genere abbonda per solito di arri! e ha!, agitazione, chiasso ininterrotto,

bestemmie; ma dovetti notare quanto diverso, quanto semplice e silenzioso e tuttavia tenace, efficiente, fosse il lavoro

di questo giovane aratore. Si chiamava Walter Dumont, contadino figlio di contadini, che lavoravano per conto proprio..72

Tre anni prima, quando il vapore Sunnyside naufragò in una pungente notte di gelo qui sulla costa occidentale, Walter si

mise in mare con la sua barca - fu il primo ad accorrere - si aprì un varco nel ghiaccio fino a riva, riuscì a assicurare una

corda di salvataggio, eseguì insomma un lavoro di prim'ordine per prontezza, coraggio, rischi affrontati, e salvò molte

vite. Qualche settimana più tardi, mentre si trovava una sera a Esopus tra i soliti oziosi che affollano il negozio

principale e l'ufficio postale, ecco arrivare al silenzioso eroe l'insospettato dono di una medaglia d'oro ufficiale. La

consegna avvenne lì per li, in modo improvvisato, ma egli arrossì, esitava a prenderla, e non trovò niente da dire.

VEDUTE SULLO HUDSON

È stata un'idea geniale quella di costruire la ferrovia dello Hudson proprio sulla costa. A superare le difficoltà

ha già pensato natura: una buona ventilazione da un lato è assicurata - e non si è d'impiccio a nessuno. Senza

interruzione laggiù, notte e giorno, vedo e sento locomotive e vagoni rombare e ruggire, mandar fiamme e fumo - a

meno d'un miglio di distanza, e in piena vista di giorno. A me piace sia guardare che ascoltare. Gli espressi passano

come un lampo, tuonando; di treni merci (lunghissimi i più) ne passano non meno di un centinaio al giorno. Di notte

vedete lontanissime le luci di testa che s'approssimano, avanzano implacabili come meteore. Il fiume di notte ha le sue

bellezze particolari. I pescatori di alose escono con le loro barche e mollano le reti - uno siede avanti e rema l'altro a

poppa, in piedi, le lascia filare con mano esperta - la linea viene man mano contrassegnata con minuscoli galleggianti

con su dei candelotti, che scivolando sull'acqua comunicano un sentimento indescrivibile e paiono raddoppiare la luce.

Anche mi piace osservare a notte i rimorchiatori con le loro luci tremule, e ascoltare il roco ansito dei vapori; o scovare

nell'ombra le fantomatiche forme di cutter e golette, bianche, silenziose, indefinite laggiù. E poi lo Hudson nelle chiare

notti di luna.

Ma vi è un altro spettacolo, e il più sublime. Talvolta nel più aspro infuriare di una tempesta di vento, pioggia,

grandine o neve, apparirà sul fiume una grande aquila che si innalzerà ora con volo fermo ora con gran colpi d'ala, ma

sempre affrontando la burrasca, magari precipitandovisi dentro, o a volte letteralmente posandosi su di essa. È come

leggere qualche sublime tragedia o epopea naturale, come ascoltare la squilla di trombe marziali. Lo splendido uccello

gode del tumulto degli elementi - è in armonia con esso, da pari a pari - ne è l'estremo complemento artistico. Le penne

che oscillano appena - la posizione della testa e del collo - l'irresistibile volo, con qualche diversione occasionale - qui

un avvitamento, là un'impennata - le nere nuvole in corsa e, sotto, la furia dell'acqua - il sibilo della pioggia, lo strido

lamentoso del vento (forse il ghiaccio in collisione che brontola) - e lei che vira o s'impunta di colpo, e adesso, come per

amor del nuovo, s'abbandona al turbine, facendosene trasportare a una velocità spaventosa - ma per riprendere il

controllo e tornare a attaccare, signora della situazione e della tempesta - nel cuore di essa, signora di potenza e di gioia

selvaggia.

Talora, a mezzo di un pomeriggio di sole (come adesso mentre scrivo) ecco il vecchio vapore Vanderbilt

avanzare maestoso (odo nettamente il ritmico sciaguattio di pale delle eliche) tirandosi dietro con lunghe gomene un

immenso e eterogeneo corteo («la vecchia scrofa coi maialini», dice la gente del fiume). Prima viene una gran chiatta

con su una sorta di casa, e l'alberatura che torreggia al di sopra del tetto; poi i barconi del canale, legati e agganciati tra

loro in un lungo convoglio, a gruppi - quello nel mezzo con un alto pennone da cui sventola una gran bandiera

sgargiante - altri con le quasi immancabili filze di abiti lavati di fresco, stesi ad asciugare; due lance e una goletta

affiancate al cavo di rimorchio - poco vento e contrario - e tre lunghe chiatte, nere e vuote, che chiudono la fila. C'è

gente sulle imbarcazioni: uomini che oziano, donne con cappelli da sole, bambini; e tubi di stufe col loro filo di fumo.

DUE AREE CITTADINE IN ORE PARTICOLARI

New York, 24 maggio 1879. Forse non vi sono altri quartieri in questa città (eccomi qui di nuovo, per poco) che

offrano scene umane più brillanti, animate, gremite, spettacolari, in questi bei pomeriggi di maggio dei due che ho

intenzione di descrivervi sulla base di osservazioni personali. Primo: quell'area che comprende la Quattordicesima (e

precisamente il breve tratto tra Broadway e la Quinta), Union Square e adiacenze, e segue ancora Broadway un mezzo

miglio circa in senso opposto. I marciapiedi qui sono larghi, gli spazi ampi e liberi, e inondati adesso dal liquido oro che

le ultime due ore di sole sfolgorante hanno lasciato. Nei giorni in cui l'ho osservata, alle cinque del pomeriggio, codesta

area avrà contenuto forse trenta o quarantamila persone, tutte ben vestite, tutte in movimento, moltissime piacenti,

parecchie belle donne, spesso gruppi di giovani, o di bambini con le bambinaie - i marciapiedi stipati ovunque, un vero

e proprio groviglio (e tuttavia niente urti, niente confusione), con chiazze di colori vivaci, gran viavai e abiti di gusto

(penso che oggi le donne vestano meglio di quanto non abbiano mai fatto, e così gli uomini). Come se New York in

questi pomeriggi volesse mostrare ciò di cui è capace esibendo il suo materiale umano, le forme e le fisionomie più

scelte, la sua profusione di movimento, vesti, lustro, magnetismo e felicità.

Secondo: anche qui dalle 5 alle 7 del pomeriggio: tutto quel tratto della Quinta dai cancelli di Central Park

(sulla Cinquantanovesima) fino alla Quattordicesima, particolarmente sulla salita della Quarantesima e giù per il

pendio. Un Mississippi di cavalli e vetture di lusso, non decine né dozzine, bensì centinaia e migliaia - la grande arteria.73

ne appare piena, gremita - una fiumana in moto, scintillante, frettolosa, per più di due miglia (mi chiedo se non si creino

punti di intoppo, ma penso che non succeda mai). Questa è ai miei occhi in ogni senso la vera meraviglia di New York.

Mi piace salire su uno degli omnibus della Quinta e percorrerla tutta, solcando quella rapida processione. Mi chiedo se

Londra, o Parigi, o qualsiasi altra città del mondo, possa esibire un carnevale di equipaggi quale ho veduto qui già

cinque o sei volte, in questi bei pomeriggi di maggio.

PASSEGGIATE E CHIACCHIERE A CENTRAL PARK

16-22 maggio. Adesso quasi ogni giorno faccio la mia visitina a Central Park - me ne sto seduto, o gironzolo in

lente passeggiate, o scarrozzo qua e là. In questo mese l'intero luogo mostra la sua faccia migliore - il pieno rigoglio

degli alberi, il bianco e il rosa copiosi dei cespugli in fiore, il verde smeraldo dell'erba che dilaga ovunque ancora

picchiettata dal giallo delle bocche-di-leone - la singolarità dei numerosi roccioni grigi, tipici di qui, che spuntano

all'intorno per miglia e miglia - e su tutto, tre giorni su quattro, la pura bellezza del nostro cielo estivo. Mentre me ne sto

placidamente seduto (prime ore del pomeriggio) dalla parte che guarda la Novantesima, piuttosto fuori, il poliziotto

C.C., un giovane dal bel fisico e dalla carnagione dorata, si avvicina, si ferma accanto a me. Diventiamo subito amici, e

di conseguenza loquaci. È newyorkese, nato e cresciuto qui; poiché glielo chiedo, mi parla della vita delle guardie

addette ai parchi di New York (mentre parla tiene orecchi e occhi ben aperti, vigili, ma ogni tanto s'interrompe e si

sposta in modo da abbracciare completamente con lo sguardo la strada da ambo le parti e tutt'intorno). La paga è di 2

dollari e 40 al giorno (sette giorni su sette) - arrivano qui e restano in servizio otto ore consecutive, che è la somma di

lavoro loro richiesta su ventiquattro ore. Codesto lavoro presenta più rischi di quanto non si supponga - se ad esempio

un cavallo o più cavalli sfuggono di mano (cosa che avviene giornalmente), ci si aspetta in tal caso non solo che la

guardia stia pronta ma che, sprezzando la propria incolumità, riesca a fermare la bestia o le bestie (farlo cioè, senza

pensare alla faccia o alle ossa), e dare inoltre il fischio d'allarme perché le altre guardie possano ripeterlo, avvertendo

così le vetture che passano su e giù per i viali. Accade di continuo che gli uomini rimangano feriti. V'è in loro molta

alacrità e una forza tranquilla. (Pochi apprezzano, l'ho pensato spesso, la capacità ulissica, la temerarietà, la scattante

prontezza che i giovani e i lavoratori americani dimostrano nei casi di emergenza, il loro spirito pratico, la devozione

spontanea e l'eroismo - i pompieri, gli impiegati delle ferrovie, gli equipaggi dei battelli a vapore e dei ferry, la polizia, i

conduttori di treni e i vetturini - tutta la splendida media della gente del nostro paese, città e campagna). Tuttavia è un

bel lavoro, e in fin dei conti piace ai poliziotti addetti ai parchi. Osservano la vita, e l'eccitazione li tiene su. Le difficoltà

non stanno tanto, come si potrebbe pensare, nell'avere a che fare con vagabondi e teppisti, o nel tenere «lontano

dall'erba» la gente. I guai peggiori, a chi lavori regolarmente in un parco, vengono da febbri malariche, raffreddori e

simili.

UN BEL POMERIGGIO, DALLE 4 ALLE 6

Diecimila vetture a tutta velocità per il Parco in questo pomeriggio perfetto. Che spettacolo! e io l'ho visto tutto

- osservato da vicino, e con comodo. Baroccini privati, calessini e coupé, bei cavalli - cani da salotto, lacché, gente alla

moda, forestieri, cappelli con coccarde, sottosella frangiati - insomma l'oceanica piena di tutta la ricchezza e

l'aristocrazia di New York. Era un circo imponente e sfarzoso, interminabile, su vasta scala, che nella bellezza del

giorno, sotto il limpido sole e la molle brezza, appariva pieno di movimento e di colore. Gruppi familiari, coppie, o

vetture con una sola persona - ovviamente molta eleganza - molto «stile» (ma forse, anche in questa direzione, poco o

nulla di pienamente giustificato). Dietro i vetri degli equipaggi più ricchi ho scorto volti quasi cadaverici, tanto

apparivano esangui e svogliati. In verità, la cosa nel suo insieme metteva in scena un'America assai meno genuina, nello

spirito come nei modi, di quel ch'io mi aspettassi da uno spettacolo di massa di quella scelta. Come testimonianza di

ricchezza sfrenata, agi e «aristocrazia», come s'è già detto, era straordinario. Tuttavia ciò che vidi in quelle ore (e altre

due volte, due pomeriggi che scelsi per gustarmi la stessa scena) viene a confermare un pensiero che mi ossessiona ogni

volta che rimetto gli occhi sugli alti livelli di ricchezza e mondanità di questo paese, diffusi o eccezionali che siano - il

pensiero cioè che costoro vivano in fondo a disagio, troppo consci di se stessi, ammantati di troppi sudari, e ben lontani

dall'essere felici; che non esista nulla in loro che noi, gente povera e semplice, si debba invidiare - e che in luogo del

perenne profumo dell'erba, dei boschi e delle rive, il loro sia un sentore di saponette e essenze, prezioso forse, ma che

anche ricorda la bottega del barbiere - qualcosa ad ogni modo che nel giro di poche ore si fa rancido e stantio.

Forse lo spettacolo del maneggio è stato il più grazioso. Molti cavalieri in gruppo (tre sembrava essere il

numero preferito), quali in coppia, chi solo - diverse signore - spesso cavalli isolati o intere comitive che sfrecciavano al

galoppo - di norma, equitazione eccellente - e poi qualche vero purosangue. Avanzando il pomeriggio, il numero delle

carrozze cominciò a scemare, mentre quello dei cavalieri sembrava aumentare. Si trattennero a lungo - vidi delle figure

aggraziate e dei bei volti.

PARTENZA DEI TRANSATLANTICI.74

15 maggio. Gita di tre ore sulla baia questo pomeriggio, dalle 12 alle 3, per scortare il Città di Bruxelles fino

allo Stretto, e accomiatarci con un cordiale «buon viaggio» da alcuni amici in partenza per l'Europa. Il nostro piccolo e

focoso rimorchiatore, il Seth Low, seguiva a brevissima distanza il grosso e nero Bruxelles, affiancandolo ora da una

parte ora dall'altra, ma sempre tenendosi al passo, talvolta anzi passando in testa (come il puledro purosangue che

precede l'elefante reale). Fin dal primo momento la scena nel suo insieme era caratteristicamente newyorkese, animata e

veloce: la gran folla di gente elegante, di bell'aspetto, all'estremità del molo (uomini e donne venuti ad accompagnare

gli amici in partenza e augurar loro buon viaggio) - i fianchi della nave brulicanti di passeggeri - gruppi di marinai dal

volto abbronzato, ufficiali in uniforme ai loro posti - il pacato susseguirsi degli ordini, mentre la nave leva spedita gli

ormeggi e si stacca puntualissima - i volti emozionati, gli addii, i fazzoletti che sventolano, sul molo molti sorrisi e

qualche lacrima - e le facce, i sorrisi e i fazzoletti che rispondono dalla nave (esiste qualcosa di più sottile e bello di

questo giuoco di volti tra due folle che si rispondono - qualcosa di più toccante?) - il maestoso transatlantico che

silenziosamente fende le acque della baia, lento e superbo - e noi che acceleriamo seguendola per qualche miglio

affiancati, per poi virare e tornare indietro tra una babele di selvaggi urrà, saluti gridati, fischi laceranti di sirene, mani

che mandano baci e fazzoletti che sventolano.

Queste partenze di transatlantici, di mattina o nel pomeriggio - credo non esista medicina migliore per chi si

trovi in uno stato di svogliata vaghezza. Mi piace scendere al porto il mercoledì o il sabato, i giorni dei transatlantici -

osservare i bastimenti, i moli affollati, i passeggeri che sbarcano, il trambusto e il movimento generale, le facce protese

e attente, le voci squillanti (una straniera che ha molto viaggiato, una musicista, mi diceva l'altro giorno che le folle

americane secondo lei posseggono le più belle voci del mondo), la veduta complessiva delle grandi e belle navi nere,

tutte in gruppo e con le fiancate allineate - nello scenario della nostra baia, con quel cielo azzurro di sopra. Due giorni

dopo il giorno ora descritto, assistetti alla partenza del Britannic, del Donau, dell' Elvetìa e dello Schiedam, tutti alla

volta dell'Europa - uno spettacolo magnifico.

DUE ORE SUL «MINNESOTA»

Dalle 7 alle 9 a bordo della nave-scuola della marina statunitense Minnesota ammarata nel North River. Verso

il tramonto il capitano Luce ci mandò a prendere con la sua lancia, a un capo della Ventitreesima strada, e ci ricevette a

bordo con una ospitalità da ufficiale e una cordialità da marinaio. Il Minnesota ospita diverse centinaia di giovani che

vengono addestrati per equipaggiare efficientemente la marina federale. L'idea mi piace molto; ed anche mi piace, a

quanto ho potuto constatare stasera, il modo in cui la cosa viene condotta su questo enorme vascello. Sotto, in plancia,

erano radunati un centinaio di allievi, pronti a offrirci qualche esercizio canoro con l'accompagnamento di un melodion

suonato da uno del gruppo. Cantarono con grande trasporto; ma la parte migliore restava comunque lo spettacolo offerto

dai giovani stessi. Girai un poco tra loro prima che il canto avesse inizio, chiacchierando per alcuni minuti

amichevolmente. Provengono da tutti gli Stati; chiesi se vi fosse nessuno del Sud, ma ne trovai solo uno, un ragazzo di

Baltimora. L'età varia, sembra, dai quattordici ai diciannove-venti anni. Sono tutti americani di nascita, prima di essere

ammessi devono passare un rigido controllo medico: ragazzi ben sviluppati, carne solida, occhi brillanti che vi fissano

con franchezza, sani, intelligenti - non riuscireste a trovare fra loro né un fannullone né un essere servile - in ognuno v'è

la promessa di un uomo. Nella mia vita mi sono trovato molte volte a riunioni pubbliche di gente giovane o anziana, in

scuole e collegi; ma confesso di non essermi sentito mai così confortato, quasi soddisfatto (sia della scuola in sé che

della splendida testimonianza del nostro paese, della nostra razza composita, in quei campioni-promessa delle sue

capacità medie, del suo futuro) come in mezzo a quella varia rappresentanza di ogni parte degli Stati Uniti sulla nave-scuola.

(«Ma ci saranno uomini là?» fu la secca e pregnante risposta di Emerson a uno che gli veniva sciorinando le

ricche possibilità materiali e le statistiche di una qualche regione del West o del Pacifico).

26 maggio. Di nuovo a bordo del Minnesota. Il tenente Murphy è venuto gentilmente a prelevarmi con la sua

lancia. Ho goduto in modo particolare quelle brevi corse all'andata e al ritorno - i marinai abbronzati e forti, dall'aria

così sveglia e esperta, che spingevano a lunghi colpi di remo la barca che ci trasportava, immergendoli con forza di

fianco secondo lo stile militare. Vidi i ragazzi, divisi per compagnie esercitarsi con armi di piccolo calibro; conversai un

poco con il cappellano Rawson. Alle 11 ci radunammo tutti per la colazione intorno a una lunga tavola nello spazioso

quadrato degli ufficiali - io con gli altri - un pranzo in ogni senso cordiale, ospitale, abbondante - cibo copioso, e del

migliore; feci conoscenza con diversi nuovi ufficiali. Questa seconda visita, con le sue osservazione, i discorsi (due o tre

chiacchiere qua e là con i ragazzi), non fece che confermare le mie prime impressioni.

GIORNI E NOTTI DI PIENA ESTATE.75

4 agosto. Mattino - seduto all'ombra del salice (mi sono di nuovo ritirato in campagna) - in mezzo al ruscello

un uccellino si tuffa e svolazza a suo gusto, così vicino che potrei toccarlo. Evidentemente non mi teme - mi prende per

qualcosa che fa parte del paesaggio, le rive terrose, i cespugli in libera crescita, le erbe selvatiche. Ore 8 pom. Questi

ultimi tre giorni sono stati perfetti per la stagione (quattro sere fa, pioggia copiosa con tuoni e lampi violenti). Scrivo

queste note seduto presso il ruscello mentre osservo i miei due martin-pescatori nei loro giuochi vespertini. Creature

gioiose, forti, belle! Le ali scintillano ai raggi inclinati del sole mentr'essi turbinano attorno, ora tuffandosi e schizzando

acqua, ora svolando su e giù per il ruscello, per lunghi tratti. Dovunque io vada nei campi, lungo i sentieri, in angoli

appartati, ecco sbocciare la carota selvatica con i suoi fiori bianchi, quel tocco delicato di fiocchi di neve che ne corona

lo stelo esile oscillante leggiadro alla brezza.

IL PALAZZO DELL'ESPOSIZIONE - IL NUOVO MUNICIPIO - GITA SUL FIUME

Filadelfia, 26 agosto. La notte scorsa e stasera, cielo eccezionalmente terso, dopo due giorni di pioggia;

splendore di luna e splendore di stelle. Trovandomi fuori nei pressi del grande Palazzo dell'Esposizione, nella parte

occidentale di Filadelfia, e vedendolo illuminato, pensai di entrarvi. C'era un ballo, democratico ma piacevole; molte

giovani coppie impegnate nel valzer e nella quadriglia e una buona orchestra d'archi. Mi abbandonai per più di un'ora a

quello spettacolo e a quei suoni - a lente passeggiatine su e giù per i locali spaziosi - appartandomi talora a riposare in

una poltrona, restando a lungo con lo sguardo fisso all'alto soffitto, grandioso veramente, con quei leggiadri e

multiformi intrecci di ferro battuto, rette e angoli, toni di grigio, giuochi di luce e ombra che svanivano in contorni

sfocati - a gustarmi, negli intervalli dell'orchestra, i superbi assolo, le volute e i capricci del grande organo dall'altra

parte dell'edificio - ad adocchiare nel corridoio accanto, o più lontano, l'ombra fugace di una figura, o un gruppo, o

un'occasionale coppia di innamorati.

Sulla via di casa, mentre percorrevamo Market Street in una vettura aperta estiva, qualcosa ci obbligò a una

sosta tra la Quindicesima e Broad Street, e io ne approfittai per scendere a osservare meglio il nuovo edificio in marmo

del municipio, ormai compiuto per tre quinti, di proporzioni maestose - una scena leggiadra e solenne ai lume di luna -

ogni cosa, le facciate, le miriadi di linee bianco-argento, le teste scolpite e i cornicioni, inondate dal vellutato fulgore -

silenzio, magia, bellezza - ecco, ora so che una volta finita, questa splendida massa non potrà mai avere su nessun altro

l'effetto che ebbe su di me durante quei quindici minuti.

Da allora per tutto il resto della serata, sono rimasto lungo il fiume. Guardo la Corona Boreale a forma di C

(con la stella Alshacca che anni fa, una notte, rifulse improvvisamente di allarmante splendore). La luna nella terza fase,

visibile in cielo per quasi tutta la notte. E volgendomi ad est, ecco le mie Pleiadi, rimaste assenti per tanto tempo e di

nuovo così gradite ai miei occhi. Per un'ora assaporo la scena vitale e rasserenatrice al suono delle onde che sciacquano

basse - nuove stelle intanto si levano una dopo l'altra silenziosamente a oriente.

Sul battello mentre attraversiamo il Delaware, un mozzo, F. R., mi racconta di una donna che non più di due

ore fa si è gettata in acqua e è affogata. È accaduto a metà percorso del canale - è saltata giù dalla parte anteriore del

battello, e questo le è passato sopra. Lui l'ha vista risalire dall'altra parte, nel turbinio dell'acqua, lanciare in alto le

braccia e le mani serrate (mani bianche e braccia nude come un lampo alla luna) e quindi sparire. (Scoprii in seguito che

questo giovane non aveva esitato a tuffarsi in acqua prontamente cercando di raggiungere a nuoto la povera creatura, e

che aveva compiuto gli sforzi più coraggiosi, seppur sfortunati, per salvarla; ma, parlando, questa parte della storia non

venne nemmeno accennata da lui).

RONDINI SUL FIUME

3 sett. Nuvole e umido, vento che soffia verso est; non vera e propria nebbia, ma aria assai pesante d'umidità -

piacevole, per cambiare. Ho notato un numero inconsueto di rondini in volo - descrivono cerchi o sfrecciano rapide a

pelo dell'acqua, aggraziate oltre ogni dire. Quando il ferry era ancorato al molo, volavano fitte intorno alla prua; e

quando ci staccammo, al di là delle teste di molo e del gran tratto d'acqua, potei seguirne con lo sguardo il movimento

vorticoso, cappi e nastri che s'intersecavano e tagliavano a fior d'acqua. Benché io abbia visto rondini tutta la vita, mi

parve di non averne mai compresa la singolare bellezza e il valore che assumono nel paesaggio. (Tempo fa, continuando

a osservare per un'ora il volo di questi uccelli da una grande e vecchia rimessa di campagna, mi sovvenne il libro

ventiduesimo dell'Odissea, dove Ulisse uccide i Proci portando gli eventi all'éclarcissement, mentre Atena, in veste e

corpo di rondine, guizza per gli alti spazi dell'aula, si poggia su una trave e lascia cadere uno sguardo compiaciuto sulla

scena della carneficina, sentendosi nel suo elemento esultante, felice).

INIZIO DI UN LUNGO GIRO NEL WEST.76

Nei tre o quattro mesi che seguirono (da sett. a dic. 1879) compii un bel viaggio nel West, arrivando fino a

Denver, Colorado, e di lì penetrando nella regione delle Montagne Rocciose, quel tanto che è bastato per ricavarne una

buona idea generale. Partii dalla stazione Ovest di Filadelfia una sera di metà settembre, dopo le nove, in un

confortevole vagone letto. Nessun ricordo delle due o trecento miglia attraverso la Pennsylvania; il mattino seguente

colazione a Pittsburg. Bella veduta della città e di Birmingham - nebbia e umido, fumo, fornaci di carbone, fiamme,

case di legno stinto, gruppi enormi di chiatte per il trasporto del carbone. Adesso un poco di bel paesaggio, la Virginia

occidentale, i Panhandle e, attraversato il fiume, l'Ohio. Una giornata in quest'ultimo Stato, poi l'Indiana - e infine il

rollio mi prepara al sonno della seconda notte, mentre voliamo con la velocità della folgore attraverso l'Illinois.

NEL VAGONE-LETTO

Che strano, acutissimo piacere passare la notte nella mia cuccetta in questo lussuoso vagone-reggia tirato da

una potente Baldwin - che ha in corpo (e riesce a trasfonderlo anche nel mio) il movimento più veloce, la forza più

irresistibile! È tardi, forse mezzanotte, forse più tardi ancora - distanze ravvicinate come per magia - passiamo veloci

Harrisburg, Columbus, Indianapolis. L'elemento del rischio non fa che aggiungere gusto alla cosa. E si va oltre,

rombando e mandando lampi, lanciando a volte alti nitriti, o forse squilli di trombe, nel buio; oltre le case degli uomini,

le fattorie, i granai, il bestiame - i silenziosi villaggi. E poi la carrozza-letto, con le tendine tirate e le luci basse - e nelle

cuccette gli uomini assopiti, molte donne con i figli - mentre continuiamo a correre, a volare come fulmini nella notte -

come stranamente profondo e dolce è il loro sonno! (Dicono che il francese Voltaire avesse all'epoca sua individuato

nell'opera lirica e nella nave da guerra le raffigurazioni più significative della crescita dell'umanità e del progresso

dell'arte oltre la barbarie primitiva. Chissà se il sagace filosofo, trovandosi qui in questo periodo, e anzi viaggiando in

questo stesso vagone da New York a San Francisco, con le stesse attrezzature perfette per il cibo e per il sonno, non

deciderebbe di adottare come esempio tipico uno di questi vagoni-letto americani).

MISSOURI

Avremmo dovuto coprire un percorso di 960 miglia da Filadelfia a St. Louis in 36 ore, ma avemmo un

incidente e alcune serie avarie alla locomotiva per circa due terzi del viaggio, il che ci fece ritardare. Così, fermatomi

solo per la notte, per questa volta, a St. Louis, proseguii verso ovest. Attraversando da un capo all'altro lo Stato del

Missouri sulla linea St. Louis-Kansas City, Ferrovia del Nord, in una bella giornata di primo autunno, pensai di non

aver mai posato lo sguardo su un paesaggio pastorale di maggior bellezza. Per più di duecento miglia un succedersi di

praterie, perfette da un punto di vista agricolo agli occhi di un uomo della Pennsylvania o del New Jersey, e punteggiate

qua e là di belle aree boscose. Tuttavia ammessa la bellezza della regione, questa non è la parte migliore (sotto questa

zona corre uno strato di argilla e di roccia impermeabile che trattiene troppo l'acqua, «affoga la terra nella stagione

umida e l'arrostisce in quella secca», mi ha detto cinicamente un agricoltore). Verso sud si hanno delle zone più ricche,

per quanto forse i luoghi più pittoreschi dello Stato si trovino nelle contee nord-occidentali. Nel complesso mi appare

chiaro (ora in particolar modo, anche per tutto quello che ho visto e imparato nel frattempo) che il Missouri, per clima,

suolo, posizione, frumento, pascoli, miniere, ferrovie, e insomma per tutto ciò che abbia qualche importanza materiale,

si colloca in primo piano tra gli Stati dell'Unione. Sulla situazione generale del Missouri, sia politicamente che

socialmente, ho udito ogni sorta di opinioni, e anche abbastanza severe - ma per quel che mi riguarda, io mi sentirei al

sicuro e a mio agio ovunque tra i missouriani. Producono tabacco in abbondanza, qui; in questo periodo si vedono

grandi ammassi di foglie di un colore chiaro tra il grigio e il verde, staccate e stese ad asciugare su impalcature

provvisorie o bastoni allineati. Somiglia parecchio al verbasco, così familiare a chi vive nell'Est.

LAWRENCE E TOPEKA, KANSAS

Pensavamo di fermarci a Kansas City, ma al nostro arrivo trovammo un treno già pronto e una folla ospitale di

gente del luogo disposta a accompagnarci fino a Lawrence, verso cui proseguii. Ci vorrà del tempo prima che io riesca a

dimenticare le belle giornate trascorse a L. in compagnia del giudice Usher e dei suoi figli (particolarmente John e

Linton), vera gente del West e del tipo più nobile; o le giornate, simili, trascorse a Topeka; o la fraterna gentilezza dei

miei amici della ferrovia, dei vari funzionari del municipio o dello Stato. Lawrence e Topeka sono centri grossi, molto

attivi, semirurali, graziosi. In quest'ultimo ho compiuto due o tre lunghi giri, in una vettura tirata da un paio di cavalli

focosi sulle strade levigate.

LE PRATERIE (E UN DISCORSO MAI PRONUNCIATO).77

In occasione di un grande comizio a Topeka - forse quindici o ventimila persone, per le «nozze d'argento»

dello Stato del Kansas - era stato erroneamente annunciato sui manifesti che io avrei letto una mia poesia. Dacché

sembrava che vi si attribuisse parecchia importanza, e non volendo io apparire sgarbato, appuntai in fretta il discorsetto

che segue. Per sfortuna (o fortuna) mi stavo talmente divertendo e riposando in compagnia dei ragazzi U., tra una

chiacchierata e un buon pranzo, che lasciai scorrere le ore e non mi recai più al raduno a leggere il mio discorsetto. Ma

eccolo egualmente:

Amici miei, i vostri manifesti mi han messo in programma con una poesia, ma io non ho poesie - non ne ho

composta nessuna per l'occasione. E posso onestamente dire che ora ne sono contento. Sotto questi cieli che risplendono

nella bellezza di settembre - di fronte a un paesaggio cui voi siete usi, ma che è nuovo per me - queste sterminate,

solenni praterie - nella libertà, il vigore e il sano entusiasmo che si respirano nella perfetta aria del West, in questo sole

autunnale - a me sembra che una poesia sarebbe quasi un'impertinenza. Ma se proprio volete che vi dica qualcosa, potrei

parlarvi di queste praterie: esse mi colpiscono straordinariamente tra tutti gli spettacoli naturali che vedo o ho già visto

durante questa mia prima vera visita al West. Sono giunto qui volando per più di mille miglia, attraverso il bell'Ohio e

l'Indiana e l'Illinois, terre del grano, e il grande Missouri, dove c'è di tutto e cresce di tutto; ho parzialmente esplorato, in

questi ultimi due giorni, la vostra graziosa cittadina, e dal colle Oread, nei pressi dell'università, ho spinto lo sguardo su

vaste distese di verde vivo, in ogni direzione - e ancora, ripeto, più che mai mi sono sentito colpito, e lo resterò tutta la

vita, da quel tratto singolare nella topografia del vostro mondo, il Middle West, - quel grande Qualcosa che dilaga

sterminato nelle sue infinite proporzioni, e che esiste in codeste praterie, qualcosa in cui si fondono reale e ideale, e

bello come i sogni.

Mi chiedo invero se le popolazioni di questo territorio all'interno del West sappiano quanta nobile arte essi

posseggano in queste praterie e di che originalità, e tutta vostra - quanta parte di ciò che influenzerà il vostro futuro

carattere, ampio, patriottico ed eroico e nuovo, sia racchiusa in esse - come esse eguaglino sulla terra la maestà e la

superba monotonia dei cieli, e l'oceano con le sue acque - quale potere di liberazione serenità nutrimento esse abbiano

per l'anima?

E poi, per qualche sottile ragione, non sono loro che ci hanno dato i nostri moderni capi americani, Lincoln e

Grant? - uomini che s'incontrano ovunque, uomini comuni - caratteri in primo luogo pratici e realistici e tuttavia (a chi

abbia occhi per vedere) provvisti delle più nobili fondamenta ideali, davvero superbe. Non vediamo forse in loro

preannunciate le future razze che popoleranno queste praterie?

Non che gli stati «Yankee» e quelli sull'Atlantico e in ogni altra parte dell'Unione - il Texas e gli stati del Sud-Est

e quelli che costeggiano il Golfo del Messico - l'impero sulla costa del Pacifico - i territori e i laghi e la linea

canadese (è ancora lontano, ma verrà il giorno in cui l'intero Canadà sarà incluso) - non che tali Stati non siano in

ragione eguale, integrale e indissolubile, questa Nazione, il sine qua non del Nuovo Mondo nei suoi aspetti umani,

politici e commerciali. Ma quest'area centrale, privilegiata, di (più o meno) duemila miglia quadrate, mi sembra

destinata a essere la culla di quelle che io definirei le idee e le realtà tipiche dell'America.

IL VIAGGIO CONTINUA: DENVER. UN INCIDENTE DI FRONTIERA

Il viaggio di cinque o seicento miglia da Topeka a Denver mi condusse attraverso una varietà di contrade tutte

inconfondibilmente western, americane, fertili, e di proporzioni immense. Seguiamo per un lungo tratto la linea del

fiume Kansas (personalmente preferisco l'antico nome, Kaw), un'estensione di terra grassa e scura, famosa per il suo

grano, chiamata la Cintura d'oro - poi pianure e pianure, per ore - la contea di Ellsworth, il centro dello Stato - e qui

debbo fermarmi un momento per raccontarvi una caratteristica storia dei tempi andati - la scena, esattamente il luogo

dove sto passando ora - l'anno, il 1868. Durante una rissa avvenuta in un qualche raduno pubblico in città, un certo A.

aveva sparato a un certo B., ferendolo ma senza ucciderlo. I cittadini sobri di Ellsworth si consultarono e decisero che

A. meritava una punizione. Poiché desideravano dare un buon esempio e farsi una reputazione di città dedita a tutt'altro

che a linciaggi, costituirono un tribunale ufficioso e vi trascinarono ambedue gli uomini per una deliberazione

processuale. Come ha inizio il processo, viene introdotto il ferito a porgere testimonianza. Ma al vedere il nemico

ammanettato e inerme, B. all'improvviso fa un balzo in avanti in un accesso d'ira e spara, colpendolo alla testa - a morte.

La corte viene aggiornata all'istante e i membri, all'unanimità e senza una sola parola di dibattito, portano l'assassino B.

fuori città, ferito com'è, e lo impiccano.

Arriviamo in orario a Denver, città questa di cui mi innamoro a prima vista; e più vi rimango, più questo

sentimento si consolida. Una delle giornate più piacevoli l'ho passata in gita a Leadville, raggiunta via cañon Platte.

UN'ORA SULLA VETTA DEE KENOSHA.78

Appunti dalle montagne Rocciose, vergati per lo più sulla linea del South-Park tornando da Leadville dopo una

gita di un giorno, e in particolare durante quell'ora in cui ci toccò di sostare (con mia grande soddisfazione) sulla vetta

del Kenosha. Avanzando il pomeriggio, nuovi vasti splendori s'accumulano in quest'aria pura, sotto il fulgido sole. Ma è

meglio cominciare dall'inizio della giornata.

L'apparizione del cañon Platte proprio all'alba dopo una corsa di dieci miglia in treno da Denver nell'oscurità

del primissimo mattino - l'opportuna sosta all'imboccatura del cañon con una buona colazione a base di uova, trota e

deliziose focacce al forno - poi, ripreso il viaggio e inoltratici nella gola, tutte le meraviglie, la bellezza, la selvaggia

potenza della scena - il torrente impetuoso, sgorgato dalle nevi, che scroscia sempre in vista da un lato - il sole

abbacinante e sulle rocce le luci del mattino - le svolte e gli scoscendimenti della strada ferrata che si contorce intorno

alle angolature, o su e giù per i pendii - in distanza squarci di picchi montani, a centinaia, alture titaniche estese a nord e

a sud - l'enorme roccia giustamente chiamata la Cupola - ed altre simili, semplici ed elefantiache, mentre passiamo in un

lampo.

UNA «SCOPERTA» EGOCENTRICA

«Ho scoperto la legge della mia poesia»: era questo il sentimento che, senza parole ma sempre più deciso, si

faceva strada in me mentre, un'ora dopo l'altra, passavo attraverso quell'inesorabile eppur gioioso abbandono degli

elementi - quella pienezza di materia, totale assenza d'arte, libero giuoco di primigenia Natura - l'abisso, la gola, il

torrente cristallino, solchi profondi iterati per centinaia di miglia - la grande duttilità e l'assoluta mancanza di rigidezza -

le forme fantastiche, immerse in trasparenze brune, rosso-pallido e grigie, che torreggiano da un'altezza ora di mille ora

di due o tremila piedi - qua e là sulle vette, enormi massi in bilico che si perdono tra le nuvole, visibili solo i contorni

sfumati avvolti in vapori violacei. («Nei più solenni spettacoli della Natura - dice un antico scrittore olandese, un

ecclesiastico - di fronte alle profondità dell'oceano, se questo fosse possibile, o di fronte agli infiniti mondi che ruotano

nella notte sopra di noi, l'uomo considera tali cose e le soppesa, non in se stesse o in astratto, bensì in rapporto alla sua

propria personalità, in che modo cioè esse possono influire su di lui, dare un colore al suo destino»).

NUOVI SENSI, NUOVE GIOIE

Seguiamo la corrente d'ambra e di bronzo che scroscia nel suo letto con frequenti cascate, schiumando bianca

come neve. Passiamo il cañon in volo - montagne non solo da una parte e dall'altra, ma in apparenza, finché non ci

avviciniamo, proprio di fronte a noi - a ogni metro il lampo di un paesaggio nuovo, e ogni lampo una sfida a qualsiasi

descrizione - abbarbicati sui fianchi rocciosi, quasi perpendicolari, pini, cedri, abeti rossi, cespugli scarlatti di sommaco,

chiazze d'erba selvatica - ma su tutto, dominatrici, quelle torri di roccia, roccia, roccia, soffuse di delicate variazioni

cromatiche, e sopra ancora il limpido cielo d'autunno. Nuovi sensi, nuove gioie sembra che nascano. Dite quel che

volete, ma un tipico cañon delle Rocciose, o una di quelle sterminate estensioni piatte simili a un oceano che si vedono

nel Kansas o nel Colorado, viste in condizioni favorevoli, rispecchiano e forse esprimono, di certo risvegliano, tutte

quelle sublimi, sottilissime emozioni elementari dell'anima umana che né sculture o templi di marmo da Fidia a

Thorwaldsen, né quadri o reminiscenze o poemi, e nemmeno la musica, sanno risvegliare.

FORZA-VAPORE, TELEGRAFI ETC.

Durante una sosta di dieci minuti al torrente Deer, scendo per godermi l'impareggiabile combinazione di alture,

roccia e bosco. Ripartiamo veloci - granito giallo nel sole, con le sue guglie e i suoi minareti naturali, i suoi turriti

avamposti lassù - poi lunghe fughe di roccioni a picco, color rinoceronte e quindi arancio-resina e giallo sfumato. Tra le

cose che mi danno maggior piacere, la frizzante atmosfera del Colorado, fresca ma sufficientemente mite. Ovunque

segni della instancabile presenza dell'uomo e della sua attività di pioniere, dura come il volto della natura - rifugi scavati

a dozzine nella roccia e abbandonati - la baracca di travi, il palo del telegrafo, il fumo di un focolare improvvisato o di

un falò - a intervalli piccoli assembramenti di capanne di tronchi, o compagnie di ispettori del suolo e di costruttori di

linee telegrafiche nelle loro comode tende. E, una volta, un ufficio sistemato sotto una tenda da cui si potevano inviare,

tramite l'elettricità, messaggi in qualsiasi parte del mondo! Sì, tracce manifeste dell'uomo di questi tempi, impegnato in

una temeraria lotta contro le sinistre visioni dell'antico cosmo. In diversi luoghi segherie a vapore con cataste di tavole e

tronchi, e gli sbuffi dei fumaioli. Il cañon che di tanto in tanto si slarga in uno spiazzo erboso di pochi acri. Verso la

fine, in uno di codesti luoghi (il treno si era fermato ed io ero sceso per sgranchirmi le gambe) guardando il cielo, o

piuttosto le vette delle montagne, ecco un enorme falco, forse un'aquila (spettacolo raro da queste parti) che s'alza

pigramente, si libra nell'etere sulle ali, adesso precipita fino a farsi vicinissima, poi su di nuovo, in cerchi languidi,

solenni - poi alta, sempre più alta, piega verso nord, e gradualmente scompare alla vista..79

LA SPINA DORSALE DELL'AMERICA

Prendo queste note né più né meno che dalla vetta del Kenosha, dove siamo tornati nel pomeriggio a goderci

un lungo riposo - 10.000 piedi sul livello del mare. Da questa immensa altezza il South Park si stende sotto i miei occhi

per cinquanta miglia. Catene e picchi montuosi disposti secondo tutte le possibili varietà della prospettiva e tutte le

sfumature della panoramica, sfrangiano la vista a ogni distanza, piccola o media o anche così grande da rendere

indistinte le cose - quando non si perdono sull'orizzonte. Abbiamo ormai raggiunto, penetrato anzi le Rocciose (quella

che Hayden chiama Catena Frontale) per un centinaio di miglia circa; e benché codeste giogaie si diramino in tutte le

direzioni, specialmente a nord e a sud, migliaia di miglia più oltre, io ho potuto ammirarne gli esemplari più eccelsi, e

almeno so che cosa sono, che aspetto hanno. E anche qualcosa di più - poiché essi caratterizzano zone e aree di mezzo

globo e sono in effetti la spina dorsale del nostro emisfero. Come l'uomo a detta degli anatomisti, non è che una spina

dorsale fornita di una testa, due piedi, un torace e varie ramificazioni, allo stesso modo l'intero mondo occidentale è, in

certo senso, non altro che una espansione di queste montagne. Nel Sud America si chiamano le Ande, nell'America

centrale e nel Messico le Cordigliere; nei nostri Stati hanno nomi diversi - in California la catena della Costa e quella

delle Cascate - quindi, più verso est, la Sierra Nevada - ma al di sopra di tutte, e più centrali, queste, le Montagne

Rocciose propriamente dette (con varie altezze tutte al di sopra dei 14.000 piedi, come i picchi Lincoln, Grey, Harvard,

Yale, Long e Pike - ad est le cime più alte degli Allegani delle Andirondacks, delle Catskill e delle Montagne Bianche

variano dai 2000 ai 5500 piedi - solo il monte Washington, nell'ultima catena, tocca i 6.300 piedi).

I PARCHI

Nel cuore di tutto questo si trovano splendidi contrasti, come i bacini depressi dei parchi del Nord, del Centro e

del Sud (in questo momento io mi trovo di fianco a quest'ultimo, steso sotto di me) ciascuno delle dimensioni di una di

quelle ampie, livellate, quadrangolari, erbose contee del West, e ognuno cintato da un muro di alture; in ogni parco

nasce un fiume. Quelli che sto indicando sono i più ampi del Colorado, ma l'intero Stato, come anche lo Wyoming,

l'Utoh, il Nevada e la California occidentale, sono costellati di simili radure e spiazzi, tra le loro sierre e le loro gole,

molti dei quali, i più piccoli, di paradisiaca grazia e perfezione, con i loro speroni montuosi, i loro corsi d'acqua, e

un'atmosfera e delle sfumature di colore senza eguali.

LINEAMENTI ARTISTICI

Non venite a parlarmi di andare in Europa a visitare rovine di castelli feudali, resti di colossei o palazzi reali -

quando potete venire qui. Anche la varietà che vi si offre: dopo le praterie dell'Illinois e del Kansas, più di mille miglia

(le dolci e morbide terre del frumento e del granturco di dieci milioni di future campagne democratiche), ecco spuntare

e mostrarsi in ogni possibile forma queste masse che nulla hanno di utilitaristico, che mettono una cappa al cielo, e da

cui emanano una bellezza, un terrore e una potenza sconosciuta anche a Dante o a Michelangelo. Sì, io penso che, per

essere definitivamente assimilato, il bolo alimentare non solo della poesia e della pittura ma anche dell'oratoria e

persino della metafisica e della musica adeguate al Nuovo Mondo, esiga per prima cosa delle nutrienti visite in questi

luoghi.

Acque montane. Il carattere etereo e di contrasto spirituale dell'intera regione risiede a mio avviso, in quei corsi

d'acqua così particolari di cui non è mai priva - nevi che da zone più alte, inaccessibili, si sciolgono e precipitano senza

sosta per le gole. Nulla che sia paragonabile alle acque dei grandi pascoli, o ai ruscelli dalle sponde fitte di boschi e

d'erbe, o a qualsiasi altra cosa del genere in altri luoghi. Le forme che codesto elemento assume nei vari paesaggi del

globo non saranno mai comprese appieno dall'artista che non abbia studiato questi straordinari ruscelletti.

Effetti di cielo. Ma forse, guardandomi attorno, lo spettacolo più prezioso sta nelle sfumature dell'atmosfera. Le

praterie - attraversandole in viaggio - e codesti monti e parchi sembrano rivelare nuove luci e nuove ombre. Inimitabili,

ovunque, le gradazioni dell'erba e gli effetti del cielo - in nessun altro luogo mai spettacoli come questi, lilla e grigi

d'una simile trasparenza. Mi viene spontaneo pensare a qualche eccellente pittore di paesaggi, qualche buon colorista

che dopo aver lavorato per un poco da queste parti a schizzi e abbozzi, disdegni ogni sua precedente opera (quelle che

fanno la delizia degli amatori delle mostre d'arte tradizionali) come torbida, rozza e artificiosa. Un'infinita varietà si

dispiega sotto i vostri occhi: lassù, oltre la linea dei boschi, un nudo colore nocciola-pallido; qua e là in distanza chiazze

di neve, in qualsiasi periodo dell'anno (ma non alberi né fiori né uccelli a quelle gelide altezze). Mentre scrivo distinguo

nella nebbia azzurrina la Catena Nevosa, bella e remota, le sue chiazze di neve chiaramente visibili.

IMPRESSIONI DI DENVER.80

Nella protratta luce crepuscolare della più splendida delle sere, facemmo ritorno a Denver: vi rimasi per diversi

giorni, dedicandomi a tutt'agio alle mie esplorazioni e annotando impressioni di cui penso di servirmi per tagliare un

poco questi appunti, elencando cioè semplicemente ciò che vidi. La cosa migliore erano gli uomini, i tre quarti grandi,

pratici, calmi, pronti, americani. E il denaro! poiché qui davvero lo fabbricano. Fuori, nelle fonderie (le più grandi e più

perfezionate del mondo per i metalli preziosi) ho visto lunghe file di tini e vaschette coperti di gorgoliante acqua in

ebollizione e pieni di argento liquido, quattro o cinque pollici, ogni tino del valore di svariate migliaia di dollari. Il

sovrintendente che mi stava guidando nella visita prese a rimestarlo con una paletta di legno, con noncuranza, come si

rimesterebbero dei fagioli. Poi grossi lingotti d'argento, ciascuno del valore di 2.000 dollari, e accastati in gruppi di

venti, decine e decine di gruppi. In un campo di minatori sulle montagne avevo visto, pochi giorni prima, mucchi di

verghe d'argento grezzo per terra, all'aperto, simili a quelle piramidi che i pasticceri dispongono sui tavoli dei pranzi

chic a New York (una tale leccornia per uno scrittore povero come me, che vien voglia d'intingerci la penna - e questo

par proprio il momento giusto perché la produzione d'argento del Colorado e dell'Utah, insieme alla produzione aurea di

California, Nuovo Messico, Nevada e Dakota, apporta alla produzione monetaria mondiale un contributo notevolmente

superiore ai cento milioni).

Città, questa Denver, disposta assai bene - particolarmente belle Laramie Street, la 15ma, la 16ma e Champa

Street, e altre ancora - qua e là enormi magazzini in pietra e acciaio con vetrine di cristallo - ogni strada fornita di

cunette dove corre acqua montana - molta gente, «affari», modernità - e tuttavia non senza un certo sapore selvatico,

tutto suo. Posto di cavalli da corsa (molte giumente coi loro puledri) - e ho veduto anche molti e grossi levrieri per la

caccia all'antilope. Qua e là gruppi di minatori, chi arriva chi parte, assai pittoreschi.

Uno dei giornali locali ha voluto un'intervista, e mi ha attribuito poi queste parole, come lasciate cadere per

caso: «Ho visitato e ho vissuto in tutte le grandi città di quel terzo della Repubblica che dà sull'Atlantico - Boston,

Brooklyn con le sue alture, New Orleans, Baltimora, la solenne Washington, la grande Filadelfia, le popolose Cincinnati

e Chicago - e per trent'anni in quella meraviglia bagnata da maree tumultuose e scintillanti, la mia New York, la city del

Nuovo Mondo, anzi del mondo intero - e tuttavia a Denver, e facendomi irrorare dalle sue cariche di ozono atmosferico

e umano per tre o quattro giorni soltanto, mi sento ora come chi, incontrando certe persone, prova subito verso di loro

un caldo trasporto, e non riesce a capire perché. Neanch'io saprei dire perché, ma arrivato in città nella sottile foschia di

un tardo pomeriggio di settembre, dopo averne respirato l'aria, aver dormito bene la notte e vagabondato a mio piacere a

piedi o in vettura guardando la gente che arriva e che parte dagli alberghi, e assorbendo il magnetismo climatico di

questa regione stranamente affascinante, ho sentito crescere continuamente in me un sentimento di affetto per questo

luogo, il quale, nonostante la sua subitaneità, si è fatto così definito e forte che sento di doverlo registrare».

E tanto basti circa il mio sentimento per questa città regina di pianure e di vette, tra le quali essa si stende in

quella sua atmosfera deliziosa e rara, a più di 5.000 piedi sul livello del mare, irrigata da acque montane - un lato, ad

est, che guarda sulle praterie per forse mille miglia - e dall'altro lato, a ovest, sempre in vista di giorno nel loro

drappeggio di foschia violetta, innumerevoli cime di monti. Sì, veramente mi sono innamorato di Denver, e ho sentito

persino il desiderio di venire a trascorrere qui i giorni del mio declino, fino alla morte.

VERSO SUD - POI DI NUOVO A EST

Lasciata Denver alle 8 del mattino sulla linea «Rio Grande», direzione sud. Sempre montagne in vista, a una

distanza che appare stranamente ravvicinata, come in un lieve velo, ma pur nitide e solenni - le forme coniche, i colori, i

pendii stagliati contro il cielo - centinaia, e sembravano migliaia, interminabili collane di monti, cime e pendii ravvolti

in quella foschia grigiazzurra, più o meno lieve, per più di cento miglia sotto il sole d'autunno - la visione più spirituale

della natura oggettiva che io abbia mai goduto, o financo creduto pensabile. A tratti la luce s'avviva, creando contrasti di

sfumature giallo-argento da una parte contro un grigio ombrato e cupo dall'altra. Ho osservato a lungo Pike's Peak,

rimanendone un poco deluso (forse mi aspettavo qualcosa di sbalorditivo). Sulla sinistra il nostro sguardo spazia sulle

praterie; qua e là recinti per il bestiame, ovunque cactus e salvia dei campi, mandrie al pascolo. E così per circa 120

miglia, fino a Pueblo. In quest'ultima città ci imbarchiamo sul comodo e ben attrezzato treno della linea di Atchison-Topeka-

Santa Fè, dirigendoci a est.

DESIDERI INCOMPIUTI. IL FIUME ARKANSAS

Avrei voluto raggiungere la regione del fiume Yellowstone - vedere soprattutto il Parco Nazionale, i geyser e

la zona degli hoodoo o folletti maligni, nello stesso territorio; in realtà cominciai a avere qualche dubbio a Pueblo, dove

era la biforcazione - volevo valicare il passo Veta - volevo proseguire sulla linea di Santa Fè spingendomi a sud verso il

Nuovo Messico - ma finii per indirizzarmi a est, lasciandomi alle spalle provocanti visioni del Colorado sud-orientale,.81

Pueblo, il monte Calvo, i picchi della catena Spagnola Sangre de Christos, la curva «Mile-shoe» (che era, a detta del

mio amico veterano della locomotiva, «la signora delle curve ferroviarie dell'universo»), il forte Garland tra le pianure,

il passo Veta e i tre picchi della Sierra Blancas.

Il fiume Arkansas ha un ruolo piuttosto importante nel complesso di questa regione - ora lo vedo, ora ne seguo

con gli occhi la sponda nord, alta e rocciosa, tagliata a picco, per miglia e miglia; lo attraverso e riattraverso molte volte

mentre si avvolge e contorce come un serpe. Le pianure esibiscono qui una varietà anche maggiore del solito - talora

una distesa sterile che s'allunga per decine e decine di miglia - poi terra verde, fertile e erbosa, di simile vastità. Qua e là

immensi greggi (a scrivere di queste pianure si sente la necessità di parole nuove - i termini lontano, grande, vasto e

simili, sono insufficienti).

UN PICCOLO ACCOMPAGNATORE SILENZIOSO: LA COREOSSIDE

Qui occorrerà dedicare qualche parola a un minuscolo accompagnatore, sempre presente, anche adesso, ai miei

occhi. Da Barnegat fino Pike's Peak, per tutta la durata del viaggio, sono stato seguito da un simpatico amico floreale, o

meglio da milioni di codesti amici - null'altro che un tenace fiorellino selvatico a cinque petali, giallo, caratteristico dei

mesi di settembre e ottobre, che penso cresca ovunque negli Stati del centro e del nord. Lo avevo notato sullo Hudson e

a Long Island, lungo le rive del Delaware e qua e là nel New Jersey (anni fa anche nel Connecticut, e un autunno presso

il lago Champlain). Durante questa gita mi ha seguito regolarmente, con quello stelo sottile e quei bocci dorati, da Cape

May alla valle del Kaw, e poi lungo i cañons fino a queste pianure. Nel Missouri ne ho veduto prati immensi,

sfolgoranti. All'incirca nella parte ovest dell'Illinois, quando mi svegliai la mattina in treno, nella mia cuccetta, la prima

cosa che vidi scostando le tendine e guardando fuori fu il suo viso aggraziato, il collo reclino.

25 sett. Mattina presto - andiamo ancora a est dopo aver lasciato Sterling, Kansas, dove ho sostato per un

giorno e una notte. Il sole è su da circa mezz'ora: non può esservi nulla di più fresco e più bello di quest'ora in questa

regione. Vedo un bel campo dei miei fiori gialli in pieno rigoglio. A intervalli, mentre passiamo veloci, gruppetti di

graziose case a due piani, come puntolini. Sull'immensa distesa piatta come un pavimento, visibile per un raggio di

venti miglia in ogni direzione nell'aria pulita, domina l'autunnale monotonia di un'erba rosso-fulva - biche di fieno e

recinti per bestie spezzano il paesaggio - frotte di galline selvatiche trasaliscono quando passiamo rombando. Bel

paesaggio tra Sterling e Florence (a S., andato a salutare E. L. mio vecchio-giovane amico soldato dei tempi di guerra, e

sua moglie e suo figlio).

LE PRATERIE E LE GRANDI PIANURE IN POESIA

(dopo aver viaggiato per l'Illinois, il Missouri, il Kansas e il Colorado)

Per quanto meraviglioso sia immaginare già nato colui che vedrà codeste praterie, le grandi pianure e la vallata

del Mississippi, abitate forse da cento milioni di persone, la più prospera e progredita popolazione del mondo, non

posso fare a meno di pensare che ancora più meraviglioso sarebbe vedere queste impareggiabili regioni d'America fuse

tutte nell'alambicco di un poema perfetto, o altra opera estetica compiutamente western, fresca e libera - assolutamente

nostra, senza la minima traccia o sapore di suolo, ricordi, realtà, tecnica o spirito europei. I miei giorni e le mie notti,

viaggiando qui - che cosa esilarante! - e non l'aria soltanto, o il senso di vastità, ma ogni paesaggio, ogni caratteristica

locale. Ovunque qualcosa di tipico - i cactus, i garofani, l'erba dei bufali, la salvia selvatica - la prospettiva che recede,

l'ampio circolo dell'orizzonte a qualsiasi ora del giorno, specialmente al mattino - questo trasparente, puro, fresco,

rarefatto nutrimento dei polmoni, sconosciuto prima - le chiazze nere e le striature lasciate da conflagrazioni di

superficie - il solco profondo del «parafuoco»- la linea inclinata dei parapetti costruiti lungo tutta la strada ferrata per

proteggerla dalla neve che s'accumula d'inverno - i cani delle praterie e i branchi d'antilopi - gli strani «fiumi asciutti» -

di tanto in tanto un rifugio scavato nel terreno o un recinto - il forte Riley e il forte Wallace - e quelle cittadine delle

piane del nord come navi sul mare, Coda d'aquila, Coyote, Cheyenne, Agate, Monotony, Kit Carson - e sempre i

formicai e i pantani frequentati dai bufali - sempre le mandrie di bovini e i cow-boys («spunzonatori di vacche»), una

classe per me stranamente interessante, occhi vivi di falco, carnagioni abbronzate, cappelli a larghe tese - a quanto pare

sempre a cavallo, con le braccia abbandonate, sollevate un pochino, che oscillano mentre essi cavalcano.

LA CATENA SPAGNOLA. SERA SULLE PIANURE

Tra Pueblo e il Forte Bent, verso sud, in un momento di sole di un sereno pomeriggio, riesco a cogliere delle

fuggevoli ma ottime vedute della Catena Spagnola. Ci troviamo nel sud-est del Colorado - oltrepassiamo immense.82

mandrie di bestiame, la nostra superba locomotiva ci trascina via volando - attraversiamo due o tre volte il fiume

Arkansas, che seguiamo per molte miglia e di cui mi si offrono belle vedute - talora, per un lungo tratto, le sue sponde

pietrose, a piombo, non molto alte, allineate - poi le sue spianate di fango. Passiamo Forte Lyon - molte case di cotto -

pascoli sterminati, convenientemente punteggiati qua e là da quelle grandi mandrie - puntuale, il sole cala a occidente -

un cielo d'un limpido colore di perla sopra ogni cosa, e poi la sera sulle grandi pianure. Un paesaggio quieto, pensoso,

sconfinato - i roccioni perpendicolari dell'Arkansas, a nord, velati nel crepuscolo - una sottile linea violacea

sull'orizzonte a sud-ovest - la palpabile freschezza dell'aria, il lieve aroma - un cow-boy attardatosi dietro qualche capo

ribelle della sua mandria - un carro di emigranti che avanza a fatica, i cavalli lenti e stanchi - due uomini, forse padre e

figlio, seguono a piedi, a rilento, - e soffusi su tutto, l'indescrivibile chiaroscuro e il sentimento (più profondo di quello

che v'ispira il mare) che percorre da una parte all'altra queste infinite regioni selvagge.

IL VERO PAESAGGIO AMERICANO

Se vogliamo parlare in senso lato della capacità e dell'indubitabile futuro destino di quest'area di pianure e

praterie (più vasta invero di qualsiasi regno europeo), essa ci appare come l'inesauribile terra del grano e del mais, della

lana, del lino, del carbone e dell'acciaio, della carne di bue e di porco, di burro e formaggi, mele e uova - la terra di dieci

milioni di poderi vergini (a vederla, adesso, selvaggia e improduttiva; ma gli esperti dicono che, una volta irrigata, può

crescervi tanto grano da nutrire il mondo intero). Quanto al paesaggio (propongo qui il mio pensiero e il mio sentire)

benché sappia quel che si sostiene comunemente, e cioè che gli scenari naturali più splendidi sono offerti dallo

Yosemite, dalle cascate del Niagara, dallo Yellowstone superiore e simili, mi chiedo se in fondo le Praterie e le grandi

Pianure, pur se a prima vista colpiscano meno, non siano più durature, non soddisfino maggiormente il senso estetico,

non eccellano su tutto il resto e non costituiscano il tipico paesaggio del Nord America.

E infatti di tutto il viaggio, nonostante la gran varietà di spettacoli, la cosa che più mi ha colpito e che più a

lungo rimarrà in me sono proprio codeste medesime praterie. Giorno per giorno, una notte dopo l'altra, si sono

dispiegate ai miei occhi, a tutti i miei sensi - ma - soprattutto a quello estetico - generosamente, in silenzio. Persino la

più semplice statistica che le concerne sembra straordinaria.

IL FIUME PIU' IMPORTANTE DEL MONDO.

La valle del fiume Mississippi con i suoi tributari (codesto corso d'acqua con le sue diramazioni copre gran

parte dell'argomento) abbraccia più di un milione e duecentomila miglia quadrate, in massima parte praterie. È di gran

lunga il fiume più importante del globo, e lo si direbbe pianificato a vederlo correre lento da nord a sud attraverso una

dozzina di climi diversi tutti sani e favorevoli all'insediamento umano, con la foce che si mantiene tutto l'anno sgombra

di ghiacci, e il corso che costituisce un'arteria di commercio e di traffico sicura e poco costosa, dalla zona temperata

settentrionale a quella torrida. Nemmeno l'imponente Rio delle Amazzoni (pur se di volume maggiore) con un corso che

va da ovest a est, né il Nilo in Africa o il Danubio in Europa o i tre grandi fiumi della Cina possono paragonarsi al

Mississippi. Solo il mar Mediterraneo ha avuto nel passato un ruolo storico commisurabile a quello che il Mississippi è

destinato ad avere in futuro. Tramite le regioni del suo bacino, irrigate e saldate insieme dai rami secondari (il Missouri,

l'Ohio, l'Arkansas, il fiume Rosso, il Yazoo, il St. Francis e altri) esso già amalgama venticinque milioni di uomini, non

soltanto dei più pacifici e produttivi, ma anche dei più irrequieti e bellicosi della terra. La sua vallata, o bacino, sta

rapidamente concentrando il potere politico dell'Unione - si penserebbe quasi che essa sia l'Unione - o che lo sarà tra

non molto. Provate a eliminarla, insieme alle sue diramazioni - che cosa rimarrebbe? Dai finestrini del treno, passando

per l'Indiana, l'Illinois, il Missouri, o fermandosi un giorno qua uno là lungo la linea Topeka-Santa Fè, nel Kansas

meridionale, e in verità dovunque io sia andato in questa regione, per centinaia e migliaia di miglia, i miei occhi sono

stati rallegrati da distese primitive e fertili, alcune già parzialmente popolate, ma nel complesso di gran lunga,

immensamente più integre e intatte (e per gran tratti più belle e feconde, nella loro mai solcata innocenza) che non i

costosi e bei campi delle più ricche campagne dello Stato di New York, della Pennsylvania. del Maryland o della

Virginia.

LA PRATERIA: ANALOGIE. LA QUESTIONE DEI BOSCHI.

Il termine prairie è francese, e significa letteralmente prateria. Le analogie cosmiche delle pianure della nostra

America del Nord sono le steppe dell'Asia, le pampas e gli llanos del Sud America. Certuni ritengono che in origine le

praterie fossero alvei lacustri; altri attribuiscono l'assenza di foreste agli incendi che annualmente vi divampano (causa,

secondo la credenza popolare, dell'estate di San Martino). La questione dei boschi ben presto si farà seria. Pur se la

costa atlantica, la regione delle Rocciose e la zona meridionale della valle del Mississippi sono ricche di boschi,.83

esistono estensioni di centinaia e migliaia di miglia dove o non cresce albero o spesso ha prevalso una inutile

distruzione; e la questione della coltura delle foreste e del rimboschimento dovrebbe a questo punto imporsi a quei

pensatori che guardano alle generazioni avvenire degli Stati delle praterie.

LETTERATURA DELLA VALLE DEL MISSISSIPPI

Un giorno di pioggia, nel Missouri, me ne stavo sdraiato a riposare dopo una lunga escursione - sfogliai

dapprima un grosso volume trovato lì, Milton, Young, Gray, Beattie e Collins, ma ci rinunciai alla fine - pur godendo

per un poco, come tante altre volte, la lettura del Lamento dell'ultimo menestrello e del Marmion di Walter Scott,

eccetera - interruppi, misi da parte il libro, e presi a considerare l'idea di una poesia che a tempo debito venisse a

esprimere e a servire la feconda regione al centro della quale io mi trovavo, e di cui ho dato fuggevoli cenni. È

sufficiente un solo attimo di concentrazione, ovunque ci si trovi negli Stati Uniti, per vedere con chiarezza come tutti i

poeti più pubblicati e più diffusi nelle biblioteche oggigiorno, vuoi importati dalla Gran Bretagna vuoi copiati e

scimmiottati qui, siano estranei ai nostri Stati pur se vengono letti copiosamente da noi tutti. Ma per poter comprendere

appieno come molte di quelle pagine siano non solo assolutamente in opposizione ai nostri tempi e alle nostre terre, ma

anche limitate e rattrappite, e quali anacronismi e assurdità esse rappresentino rispetto ai fini dell'America, occorre

dimorare o viaggiare per alcun tempo nel Missouri, nel Kansas o nel Colorado, e stabilire un rapporto con la gente e la

natura di quei luoghi.

Verrà mai il giorno - per quanto lontano nel tempo - in cui quei modelli e quei manichini che ci arrivano dalle

Isole Britanniche - e anche le preziose tradizioni dei classici - saranno solo reminiscenze, meri oggetti di studio? L'aria

pura, la primitività, l'ampiezza e la prodigalità senza limiti, la strana mistione di delicatezza, continenza e forza, di reale

e ideale, e di tutti i nobili e originali elementi di codeste praterie, delle Montagne Rocciose e del Mississippi e del

Missouri - appariranno mai nella nostra poesia e nella nostra arte a costruirne in qualche modo un modello? (talora

penso che l'ambizione del mio amico Joaquin Miller di immettere tali elementi nella sua arte e illustrarli, basti da sola a

staccarlo dalla gran massa).

Non molto tempo fa mi trovavo in battello nella baia di New York, e contemplavo il tramonto dietro le lontane

alture verde cupo di Navesink, spaziando con lo sguardo su quella inimitabile distesa di coste e imbarcazioni e mare,

intorno a Sandy Point. Poi un intervallo di una settimana o due; ed ecco sotto i miei occhi gli sfumati contorni della

Catena Spagnola. Nelle duemila e più miglia che intercorrono tra questi due punti, seppur di una varietà paradossale,

infinita, è certamente in atto una fusione strana e totale che va gradualmente temperando, cementando e integrando ogni

cosa. Ma ai fini di una tale cementazione) fattore assai più sottile, più vasto e più solido che non le leggi degli Stati o la

base comune del Congresso e della Corte Suprema, o la tetra saldatura delle nostre guerre nazionali, o i giunti d'acciaio

delle ferrovie, e insomma di tutti i progressi di fusione e d'impasto della nostra storia materiale e economica passata e

odierna, sarebbe a mio avviso una grande opera della fantasia, o complesso di opere, o letteratura, palpitante e viva,

nell'edificazione della quale le Pianure, le Praterie e il fiume Mississippi con l'ampio e variegato dominio della sua

vallata, costituissero lo sfondo concreto da una parte - e dall'altra, l'umanità, le passioni, le lotte e le speranze d'America

qui e adesso (quell'éclaircissement già in atto, sulla scena del Nuovo Mondo, di tutto il dramma di guerre, avventure e

evoluzioni ordito sinora dal Tempo) fornissero il sottile fuoco dell'ideale.

REPORTAGE DI UN INTERVISTATORE

17 ott. '79. Uno dei giornali di St. Louis riporta oggi alcune mie notazioni estemporanee sulla letteratura

americana, e in particolare del West, in questi termini: «Siamo andati ieri a trovare il signor Whitman, e dopo una

conversazione in certo senso frammentaria gli abbiamo chiesto a bruciapelo: Lei ritiene che avremo una letteratura

veramente americana? A me sembra - egli rispose - che il nostro compito oggi consista nel gettare le fondamenta di un

paese grande nella produzione, nell'agricoltura, nel commercio, nelle vie di comunicazione e in tutto ciò che ha rapporto

con il benessere di masse enormi di uomini e famiglie, inclusa la libertà di parola, l'organizzazione ecclesiastica ecc.

Queste cose noi le abbiamo già fondate, e le stiamo anzi sviluppando su una scala più grande che non sia mai stato fatto

sino ad oggi, e l'Ohio, l'Illinois, l'Indiana, il Missouri, il Kansas e il Colorado mi appaiono come la culla e il fecondo

terreno proprio di tali fatti e idee. Ci si dovrà preoccupare anzitutto della prosperità materiale in tutte le sue varie forme,

insieme a quegli altri fattori che ho menzionato, comunicazioni e libertà. Una volta che queste cose abbiano dato i loro

frutti e si siano fatte stabili, allora una letteratura degna di noi comincerà a prender volto e forma. La superiorità e la

vitalità dell'America si trovano nella massa del popolo, e non nelle classi elevate come avveniva nel vecchio mondo. La

grandezza del nostro esercito durante la guerra di secessione si è rivelata nella semplice truppa, e lo stesso avviene per

la nazione. La vitalità di altri paesi risiede in una cerchia ristretta, una classe, ma la nostra risiede nella massa del

popolo. Gli uomini che ci guidano non hanno molta importanza, non l'hanno mai avuta, ma la media della nostra gente

ha un valore immenso, che va oltre la storia. Penso sovente che sarà questa la via, in tutti i settori, incluse letteratura e.84

arte, per la quale si manifesterà la nostra superiorità. Non avremo grandi figure né grandi leader, ma la media sarà

grande, di una grandezza senza precedenti».

LE DONNE DEL WEST

Kansas City. Ciò che vedo in fatto di donne nelle città di prateria non mi soddisfa molto. Sto scrivendo queste

righe seduto oziosamente in un negozio di Main Street a Kansas City; sui marciapiedi passano fiumi di gente. Le

signore (la stessa cosa a Denver) sono tutte vestite alla moda, hanno nel volto, nei modi e nei gesti l'aria della

«distinzione»; e tuttavia non hanno, sia nel fisico sia nella mentalità adatta a loro, alcun segno di nobile e innata

originalità di spirito o di corpo (che gli uomini invece certamente posseggono, e adatta a loro). Sono «intellettuali» e

alla moda, ma dall'aria dispeptica e in genere bamboleggiante; unica loro ambizione è, evidentemente, scimmiottare le

sorelle della costa atlantica. Per bilanciare e completare la superba mascolinità del West, e per mantenerla e perpetuarla,

dovrebbe comparire qualcosa di molto diverso, e che precorresse i tempi.

IL GENERALE SILENZIOSO

28 sett. '79. Dunque il generale Grant, dopo aver fatto il giro del mondo, è ritornato a casa - sbarcato ieri a San

Francisco dalla nave Città di Tokio, proveniente dal Giappone. Che uomo è, e che storia la sua! e che illustrazione, la

sua vita, delle capacità di quella natura individuale americana comune a noi tutti. Certi critici scettici si chiedono, «che

cosa mai ci trovi, la gente, in Grant» per farne tanto chiasso; dichiarano (cosa indubbia peraltro) che egli arriva a

malapena al livello medio di cultura letteraria e scolastica dei nostri giorni, che è totalmente privo di spiccata genialità e

di qualsiasi sorta di eccellenza tradizionale. Giusto: ma egli sta a provare che un agricoltore medio del West, un operaio,

un barcaiolo, trascinato dal flusso e forse dai capricci delle circostanze fino a una posizione di incredibili responsabilità

militari e civili (certo la storia non ne ha mai presentato di più ardue neppure a chi era nato re, né ha mai fornito

bersaglio più facile all'invidia e agli attacchi) può riuscire a destreggiarsi bene e continuare a portare avanti il paese e se

stesso con autorità anno per anno - comandare più di un milione di uomini - combattere più di cinquanta battaglie

campali - dirigere per otto anni un paese più vasto di tutti i regni d'Europa messi insieme - e infine ritirarsi

silenziosamente (col suo sigaro in bocca) e farsi una passeggiatina per il globo tra corti e consorterie, re, zar e mikado,

tra lo sfarzo e i cerimoniali più splendidi, con la medesima flemma con cui avrebbe passeggiato dopo il pranzo sotto il

portico di un albergo del Missouri. Questo, dico io, è quel che piace alla gente - a me sicuramente piace - direi che

trascende Plutarco. Come avrebbe incantato quegli antichi greci! Un uomo semplice, non altro - niente arte, niente

poesia - solo senso pratico, e capacità di eseguire, o fare del suo meglio per eseguire, i compiti che il destino gli

assegnava. Un normale commerciante dedito agli affari, conciatore, agricoltore dell'Illinois - poi generale della

repubblica durante la terribile lotta intestina, la guerra di tentata secessione - quindi presidente (compito di pace, più

difficile della stessa guerra) - nulla di eroico, secondo le fonti ben informate - e tuttavia il più grande degli eroi. Gli dèi,

i fati, sembrano essersi concentrati su di lui.

I DISCORSI DEL PRESIDENTE HAYES

30 sett. Il presidente Hayes dunque se n'è venuto nel West, spostandosi senza quasi farsi notare da un punto

all'altro, in compagnia della moglie e con un piccolo seguito di alti ufficiali, applaudito ovunque, e facendo un discorso

al popolo ogni giorno, talvolta anche due volte al giorno. A codeste allocuzioni - tutte improvvisate, qualcuno direbbe

anzi non destinate a durare - vorrei dedicare qualche nota. Sono abili discorsi a tu per tu, bonari, su argomenti facili e

non troppo profondi; ma a me danno un'idea nuova dell'oratoria - di una diversa e tempestiva teoria e pratica di

quell'arte, assai mutata rispetto alle regole classiche e adattata ai nostri tempi, alle nostre occasioni, alla democrazia

americana e alle popolazioni che affollano il West. Ho sentito criticare questi discorsi come privi di dignità; per me

sono esattamente quello che devono essere, se consideriamo le circostanze e da chi vengono e a chi sono rivolti. Sotto,

vi sono le mète di Hayes - consolidare in fraterna unione gli Stati, incoraggiarne lo sviluppo materiale e industriale,

moderarne e a un tempo espanderne l'equilibrio individuale vincolando il tutto e i singoli con gli irresistibili e duplici

legami non solo degli scambi commerciali, ma anche del cameratismo umano.

Da Kansas City proseguii per St. Louis dove mi trattenni per circa tre mesi insieme a mio fratello T.J.W. e alle

mie care nipotine.

NOTE SU ST. LOUIS.85

Ott, nov., dic., '79. Le risorse di St. Louis sono la sua posizione, la sua incontestabile ricchezza (un lungo

accumularsi nel tempo di commerci, patrimoni solidi - una media probabilmente più alta che in qualsiasi altra città), la

vastità senza pari del paesaggio circostante, pianori grandi e ben disposti, pronti per l'espansione futura - e il grande

Stato di cui essa è il cuore. St. Louis combina a livello di perfezione qualità del Nord e del Sud, qualità indigene e anche

forestiere, forse; riunisce in un sol punto i corsi del Mississippi e del Missouri, e la sua elettricità tutta americana ben si

accompagna alla sua flemma tedesca. La Quarta, la Quinta e la Terza sono strade di negozi, vistose, moderne,

metropolitane, con folle frettolose, veicoli, omnibus, un gran vociare, gente dappertutto, merci costose, vetrine di

cristallo, facciate a struttura metallica spesso di cinque o sei piani. A St. Louis potete comprare qualsiasi cosa (come in

tutte le grosse città del West, quanto a questo) con la stessa facilità e convenienza che sui mercato dell'Atlantico.

Girando per la città, vi capiterà di vedere cose che vi ricordano una civiltà più vecchia e forse decaduta. In alcune

località del West l'acqua non è buona, ma qui suppliscono con gran copia di ottimo vino e con inesauribili quantità della

migliore birra del mondo. Ci sono qui immensi mattatoi di bovini e suini; e ho veduto con i miei occhi greggi di pecore

di 5.000 capi (a Kansas City avevo precedentemente visitato uno stabilimento dove vengono uccisi e inscatolati 2.500

suini in media al giorno, dal primo all'ultimo giorno dell'anno, per l'esportazione; un altro a Atchison, Kansas, delle

stesse proporzioni; e altri ancora, quasi uguali, in altri luoghi. E quelli di qua altrettanto grandi).

NOTTI SUL MISSISSIPPI

29, 30, 31 ott. Una meraviglia, con la luna piena di settembre, argentea e abbagliante. Ogni notte negli ultimi

tempi ho preso ad andare al fiume, a godermi il ponte al lume della luna. E in verità è una costruzione d'una bellezza e

perfezione insuperabili, ed io non me ne stanco mai. Il fiume adesso è molto basso; ne notavo oggi il colore, un azzurro

più limpido del solito. Odo lo sciabordio dell'acqua appena increspata, l'aria è fresca e frizzante, e il paesaggio

straordinariamente nitido in ogni direzione, alla luce lunare. Si sta facendo tardi e sono ancora fuori: è così affascinante,

favoloso, qui. L'aria pungente della notte, e i vari influssi, e il silenzio, con quelle eterne remotissime stelle, mi fanno

bene. Sono stato piuttosto male recentemente. Ed ecco, quasi al centro del territorio nazionale, queste belle visioni

notturne del Mississippi.

SULLA NOSTRA TERRA

«Dopo cena fate sempre una passeggiata di un mezzo miglio», dice un vecchio proverbio, aggiungendo

acutamente: «e se possibile, che sia sulla vostra terra». Io mi chiedo se esista altro paese che offra più opportunità del

nostro per una passeggiata di questo genere - o se altre epoche l'abbiano mai offerta. Nessuno, mi par di scoprire, può

neanche cominciare a conoscere la realtà geografica e democratica della indissolubile Unione americana di oggi, né a

sospettare come sarà in futuro, finché non esplori questi Stati dal Centro e non si soffermi per qualche poco, con spirito

di osservazione, sulle praterie o tra le città industriose o presso il possente padre delle acque. Una corsa di due o tremila

miglia «sulla propria terra», senza interruzioni, sarebbe impossibile in qualsiasi altro paese al di fuori degli Stati Uniti, e

in qualsiasi altra epoca prima d'oggi. Se volete capire cos'è una ferrovia, e che data segna per il progresso civile - e

come riesca a dominare la rozza natura adattandola ai fini umani, su una scala minima non altrimenti che su una

grandissima - venite nel cuore del continente americano.

Tornai a casa, a Est, il 5 gennaio 1880, dopo aver percorso tra andata e ritorno e vari giri più di diecimila

miglia. Ripresi subito la mia vita appartata tra i boschi o presso il ruscello, e i miei bighellonaggi per le città e,

saltuariamente, una certa disquisizione di cui si parlerà subito.

IL SIGNIFICATO DI EDGAR POE

1 genn. '80. Nel diagnosticare questa malattia chiamata umanità - assumendo per l'occasione quello che appare

lo stato d'animo più frequente nella personalità e negli scritti del mio personaggio - ho pensato che i poeti, a qualsiasi

livello della lista, offrono gli indizi più decisivi. Comprendendo in un'unica massa tutti gli artisti, musicisti, pittori,

attori e così via, e considerandoli, singolarmente e nell'insieme, come raggi o flange di quella furiosa ruota turbinante

che è la poesia, centro e asse del tutto - dove altro mai potremmo investigare altrettanto bene le cause, gli sviluppi, i

contrassegni del tempo - l'essenza e la malattia del secolo?

Per consenso unanime non esiste per uomo o donna nulla di meglio di una vita nobile e perfetta, moralmente

senza incrinature, felicemente equilibrata nell'attività, fisicamente sana e pura, e che dia alla parte emotiva, simpatetica

della natura umana, quanto le è dovuto e non più - una vita, in tutte queste manifestazioni, non affannosa, ma fervida, e

instancabile sino alla fine. E tuttavia v'è un'altra forma di personalità, molto più cara alla sensibilità artistica (che si.86

compiace dei giuochi più violenti di luci e di ombre), la quale, seppur mai veramente attingendo la perfezione del

carattere, la bontà e l'eroismo, mai li perde di vista e anzi tra fallimenti e pene e momentanee cadute più e più volte vi

ritorna: e mentre spesso li viola, continua ad aderirvi appassionatamente fino a quando mente e muscoli e voce

obbediscano a quel potere che definiamo volizione. Questo tipo di personalità lo troviamo più o meno in Burns, Byron,

Schiller e George Sand - ma non in Edgar Poe. (Tutto ciò è il risultato della lettura di un suo nuovo volume di poesie

che son venuto facendo, ad intervalli, in questi ultimi tre giorni - me lo portavo nei miei vagabondaggi giù allo stagno, e

un poco alla volta ho finito per leggerlo tutto). Ma il servigio che Poe rende al carattere delineato all'inizio è proprio in

quel contrasto, quella contraddizione totale, che è seconda solo a una piena esemplificazione.

Quasi privi di ogni traccia di principi morali? o del mondo concreto e dei suoi eroismi, o dei più semplici

affetti del cuore, i versi di Poe testimoniano una intensa disposizione per la bellezza tecnica e astratta, con un'arte della

rima portata all'eccesso, una incorreggibile propensione ai temi notturni, e un sottofondo demoniaco dietro ogni pagina -

e, a una valutazione finale, rientrano con ogni probabilità tra le luci elettriche della letteratura d'immaginazione, fulgide,

abbaglianti, ma senza calore. V'è nella vita e nelle reminiscenze del poeta, un indescrivibile magnetismo, come nelle sue

poesie. A chi sapesse seguirne le fila sottili a ritroso nel tempo, queste ultime rivelerebbero senza dubbio uno stretto

legame con la nascita dello scrittore e i suoi precedenti, la fanciullezza e la gioventù, il suo fisico, la sua cosiddetta

educazione, gli studi e i compagni, la vita letteraria e sociale di Baltimora, Richmond, Filadelfia e New York a quel

tempo - e non solo i luoghi e le circostanze in sé, ma spesso, molto spesso, un singolare spirito di disprezzo e di

reazione a queste e a quelli.

Il brano che segue, da un articolo sullo Star di Washington del 16 novembre 1875, potrà forse offrire a chi lo

desideri un ampliamento del mio punto di vista su questa interessante figura, questa emanazione della nostra epoca.

V'era stata in quei giorni a Baltimora una pubblica traslazione dei resti di Poe, con la dedica di un monumento tombale

alla sua memoria: «Trovandosi in visita a Washington in quei giorni, "il vecchio Grigio" venne a Baltimora, e benché

sofferente per una forma di paralisi acconsentì a salire, zoppicando, sul palco, e a prendervi silenziosamente posto, ma

si rifiutò di fare qualsiasi discorso spiegando: "Ho sentito il forte impulso a venire qui ed essere anch'io presente, oggi,

in memoria di Poe, e ho obbedito, ma non sento il minimo impulso a far discorsi, e anche a questo, miei cari amici,

tocca obbedire". Conversando comunque in una cerchia di conoscenti dopo la cerimonia, Whitman disse: "Per lungo

tempo, e anzi fino a poco tempo fa, provai avversione per gli scritti di Poe. Volevo allora per la poesia, e voglio ancora,

la limpida luce del sole, l'aria fresca - la forza e il potere della salute, non del delirio, sia pure tra le passioni più

tempestose - e sempre sullo sfondo degli eterni principi morali. Pur non soddisfacendo questi requisiti, il genio di Poe si

è conquistato uno speciale riconoscimento, e anch'io sono giunto ad ammetterlo senza riserve, e ad apprezzare sia il

genio che l'uomo.

Ebbi un sogno, una volta, in cui vidi un vascello in mare, a mezzanotte, nel cuore della tempesta. Non era una

gran nave a piena alberatura, né un maestoso vapore che avanzasse sicuro nella bufera: sembrava piuttosto uno di quei

superbi, piccoli panfili che avevo visto spesso cullarsi graziosamente all'ancora nelle acque di New York, o lungo lo

stretto di Long Island - e che ora con le vele a brandelli e l'alberatura in pezzi volava senza controllo attraverso quella

furia di nevischio e venti e onde nella notte. Sul ponte stava una figura sottile, fragile, bella, un uomo che non si

distingueva bene, ma che sembrava godersi tutto il terrore, la tenebra, il sommovimento di cui era il centro e la vittima.

Quella figura del mio tetro sogno potrebbe ben esemplificare Edgar Poe, il suo spirito, le sue vicende e le sue poesie -

anch'esse non altro che tetri sogni".».

Si potrebbe dire molto di più, ma io desideravo soprattutto sviluppare l'idea accennata all'inizio. La portata di

un'epoca, i punti deboli dei suoi argini, le sue correnti profonde (sovente più significative delle più grosse correnti di

superficie) vengono infallibilmente indicate dai suoi poeti. Il gusto del voluttuoso e dell'irreale che in misura così

straordinaria si è impossessato degli amatori di poesia del secolo decimonono - che può voler dire? L'inevitabile

propensione della cultura poetica al morboso, alla bellezza abnorme - la sostanza malaticcia di quel pensiero che si

limita alla tecnica in sé, alle raffinatezze - la rinuncia a tutte le realtà concrete di prima mano, perenni e democratiche, il

corpo, la terra e il mare, il sesso e simili e la loro sostituzione con valori di seconda o terza mano - che peso hanno negli

attuali studi di patologia?

UN SETTIMINO DI BEETHOVEN .

11 febbraio '80. Buon concerto stasera nel foyer dell'Opera di Filadelfia - orchestra piccola ma di alto livello.

Mai la musica s'era insinuata così profondamente in me, placandomi e saziandomi - mai come questa volta mi aveva

testimoniato il suo potere di elevazione spirituale, la sua impossibilità di definizione. Fu in particolare durante uno dei

grandi settimini di Beethoven, nell'esecuzione di strumenti ben scelti e perfettamente coordinati (violini, viola, clarino,

corno, violoncello e contrabbasso), ch'io fui rapito, e vidi e assorbii molte meraviglie. Squisiti abbandoni, talvolta come

se la Natura ridesse su un pendio nel sole; «sostenuti» gravi e continui, come di venti; un suono di corno nell'intrico

della foresta, con gli echi che muoiono; un dolce sciacquio d'onde che subito però si gonfiano in marosi grevi e

mugghianti, furiose staffilate d'acqua; e intercalati, striduli scrosci di risa; a tratti un'aria di sortilegio, com'è della

Natura stessa in certi momenti - ma per lo più spontaneità, facilità noncuranza - spesso la sensazione delle positure dei

bambini quando giocano o dormono nudi. Mi faceva bene anche semplicemente osservare i violinisti manovrare.87

l'archetto con tanta maestria - ogni singolo movimento uno studio. Mi abbandonai, come faccio talvolta, sino a uscir da

me stesso. Mi occorse allora l'immagine di un ricco boschetto di uccelli in canto e, nel mezzo, un semplice duetto

armonico, due anime umane che venivano proclamando il loro spirito pensoso, la loro disposizione di gioia.

UN ATTIMO DI NATURA SELVAGGIA

13 febbraio. Attraversando il Delaware, ho visto oggi, proprio sopra il mio capo, un grande stormo di oche

selvatiche, non molto alto, spiegato a V, stagliarsi contro la nuvolaglia meridiana color fumo-chiaro. Riuscii a coglierne

una visione superba per un momento - lo stormo prima, poi il loro sfilare sempre più a sud-est, fino a scomparire a poco

a poco (la mia vista, all'aperto, e su grandi distanze, è ancora ottima, ma debbo usare gli occhiali per leggere). Strani

pensieri si fusero in me durante quei due o tre minuti, forse meno, in cui il cielo fu solcato da queste creature - l'aereo

regno dello spazio - persino quel color grigio-fumo predominante ovunque (niente sole) - le acque di sotto - il rapido

volo degli uccelli, apparsi per un solo attimo - a suggerirmi in quel lampo l'intera visione della Natura nella sua vastità,

con la sua eterna, primitiva freschezza, i mai penetrati recessi del mare, del cielo, delle rive - per dileguarsi poi nella

lontananza.

ORE D'OZIO NEI BOSCHI

8 marzo. Di nuovo in campagna, ma in un posto nuovo - scrivo seduto su un tronco nei boschi - caldo, sole,

mezzogiorno. Rimasto qui a oziare nel fitto degli alberi, fusti altissimi di pini, querce, noci, con un folto sottobosco di

allori e di viti - il suolo ricoperto ovunque di ramaglia, foglie morte, scheggiame, muschio - tutto così solitario, antico,

cupo. Viottoli (chiamiamoli così) che portano in un luogo o nell'altro (come formatisi non so, dacché sembra che non

venga mai nessuno, né uomini né bestiame). Temperatura oggi intorno ai 60 F., vento tra le punte degli alberi; rimango

seduto a ascoltare il suo rauco sospiro lassù (e i momenti di immobilità) per un tempo lunghissimo, che vario con

passeggiatine senza meta per le vecchie strade e i viottoli, o con esercizi di lotta con i giovani quercioli, per evitare alle

mie giunture di arrugginirsi. Cominciano ad apparire pettazzurri, pettirossi, allodole mattoline.

Il giorno dopo, 9 marzo. Tempesta di neve al mattino, protrattasi per gran parte del giorno. Ma ho fatto

egualmente una passeggiata di più di due ore, tra il cadere dei fiocchi, per gli stessi boschi e sentieri. Niente vento, e

tuttavia sempre quel greve murmure musicale tra i pini, piuttosto forte, curioso, come un suono di cascata ora sospeso,

ora a pieno flusso. Tutti i sensi, vista, udito, olfatto, delicatamente gratificati. Ogni fiocco di neve restava là dove

cadeva, sui sempreverdi, gli agrifogli, gli allori, ecc., le innumerevoli foglie e i rami accatastati che si gonfiavano

bianchi, rifiniti da cimose smeraldine - le alte colonne verticali dei pini, color bronzo in cima - un lieve aroma di resina

che si mescolava all'odore della neve (ché ogni cosa ha il suo odore, persino la neve, se solo riuscite a individuarlo - non

esistono due luoghi, forse nemmeno due ore, dovunque andiate, esattamente eguali - quanto diverso l'odore del

meriggio da quello della mezzanotte, e l'inverno dall'estate, o un attimo di vento da un momento di quiete!).

UNA VOCE DI CONTRALTO

9 maggio, domenica. Visita questa sera ai miei amici J. - buona cena, cui ho fatto onore - vivace chiacchierata

con la signora J., e con I. e J. Più tardi mentre me ne stavo seduto fuori guardando il viale, all'aria della sera, il coro e

l'organo della chiesa all'angolo opposto eseguirono l'inno di Lutero, Ein feste berg, con molta grazia. La melodia era

intonata da una bella voce di contralto. Per quasi mezz'ora là nel buio (ci fu una buona fila di strofe in inglese) piovve la

musica, precisa e calma, con lunghe pause. L'argentea, piena raggiera della Lira si levò silenziosamente sopra la linea

indistinta del tetto della chiesa. Nell'ombra degli alberi filtravano le luci multicolori delle vetrate. E sotto tutto questo -

sotto la Corona Boreale alta lassù, e nella fresca brezza della sera, nel chiaroscuro della notte - la liquida pienezza di

quella voce di contralto.

STRAORDINARIA VISIONE DEL NIAGARA

4 giugno '80. Per veramente penetrare un grande quadro, o libro, o brano di musica, architettura o scenario

sublime - o anche per la prima volta la normale luce del sole, o il paesaggio, o persino il mistero dell'individualità, tra

tutti il più curioso - sopravvengono nella vita di un uomo cinque fortunati minuti, inseriti in un concorso fortuito di

circostanze, che portano a culminazione in un breve lampo anni di letture e viaggi e pensamenti. Questo caso me l'ha.88

offerto oggi verso le due del pomeriggio, il Niagara, con la superba severità del suo movimento, dei colori e della mole

maestosa, in una breve, indescrivibile visione. Stavamo attraversando assai lentamente il Ponte Sospeso - senza mai

davvero fermarci, ma in verità quasi fermi - il giorno terso, assolato, calmo - e io fuori sulla passerella. Le cascate si

spiegavano completamente alla vista, a circa un miglio di distanza, ma chiarissime, e senza che se ne udisse il rombo -

un murmure soltanto. Il fiume vorticava verde e bianco molto sotto di me - le alte rive scure, il fitto fogliame, molti

cedri color bronzo, in ombra; e a fondere nel suo arcuato abbraccio tutta quell'immensa materia, un cielo terso con

poche nuvole bianche, limpido, spirituale, silenzioso. Breve visione, e calma quanto breve - da ricordare per sempre. E

invero sono queste le cose ch'io vado serbando insieme alle rare briciole di ore felici della mia vita, cose legate ai

ricordi, al passato - la furiosa tempesta di mare che vidi una volta, un giorno d'inverno, al largo di Fire Island - Booth

padre nella parte di Riccardo, quella serata famosa di quarant'anni fa al vecchio Bowery - l'Alboni nella scena dei figli

nella Norma - le visioni notturne sui campi di battaglia, ricordo, dopo gli scontri in Virginia - o quella singolare

sensazione alla luce della luna e delle stelle sulle grandi Pianure, nel Kansas occidentale - o le regate veloci nella baia di

New York, con una brezza robusta e un buon panfilo, al largo di Navesink. È insieme a queste cose, ripeto, ch'io colloco

adesso quella visione, quel pomeriggio, quell'accordo integrale, quei cinque minuti di assimilazione perfetta del Niagara

- non la gran gemma maestosa in solitario rilievo, bensì incastonata e completata da tutta la varietà e pienezza del suo

indispensabile contorno.

GITA IN CANADA'

Per tornare un po' indietro: lasciai Filadelfia (incrocio Ninth-Green Street) alle otto di sera del 3 giugno su un

vagone-letto di prima classe della linea di Lehigh Valley (Pennsylvania del Nord) che passa per Bethlehem,

Wilkesbarre, Waverly e (via Erie) continua per Corning fino a Hornelsville, dove giungemmo alle 8 del mattino, in

tempo per una generosa colazione. Devo dire di non aver mai passato una nottata così buona in treno - una marcia dolce

e stabile, il minimo di sobbalzi e tutta la velocità compatibile con la sicurezza. Così, senza cambiare, fino a Buffalo; e di

qui a Clifton, dove arrivammo nel primo pomeriggio; e poi via verso London, Ontario canadese, altre quattro ore -

meno di ventidue in tutto. Sono alloggiato presso i miei amici Dr. Bucke e Signora, nella loro casa ospitale situata tra i

vasti e graziosi praticelli del nosocomio.

UNA DOMENICA TRA GLI ALIENATI

6 giugno. Assistito oggi al servizio religioso (episcopale) nel corpo centrale del nosocomio, in un'ampia sala

dall'alto soffitto, al terzo piano. Semplici panche, pareti a calce, molte sedie da pochi soldi, nessun ornamento o colore,

e tuttavia ogni cosa scrupolosamente pulita e aggraziata. Forse trecento persone, la maggior parte pazienti. Tutto, le

preghiere, il breve sermone, la ferma e sonante voce del pastore, mi colpì profondamente; ma più di ogni altra cosa, al

di là di ogni descrizione e evocazione, quell'uditorio. Mi era stata data una poltrona vicina al pulpito, per cui mi trovavo

seduto col viso alla congregazione, eterogenea ma assolutamente composta e ordinata. Qua e là i bizzarri abiti e berretti

di alcune donne, parecchie vecchissime e grigie, come le teste dei quadri antichi. Oh, gli sguardi che venivano da quelle

facce! Ce n'erano due o tre che probabilmente non dimenticherò mai. Niente di segnatamente brutto o repulsivo - strano

forse, ma non riuscii a scorgerne una che potesse definirsi tale. Solo la nostra comune umanità, la mia e la tua,

dappertutto:

Lo stesso vecchio sangue - Lo stesso rosso sangue fluente...

e tuttavia, dietro la maggior parte di esse s'indovinava un tale sfondo di tempeste, di naufragi e misteri, di appassionati

amori, torti, sete di ricchezze, problemi religiosi, crucci - tutti i dolori e le tristi vicende di vita e di morte riverberati in

quei volti impazziti (eppure in questo momento così calmi, come acqua ferma) - e ora che da ognuno di essi s'irraggiava

l'elemento della devozione, non era forse questa la pace di Dio che supera ogni intendimento, per strano che possa

sembrarvi? Io posso dire soltanto che mentre me ne stavo lì seduto, continuai a volgere attorno lunghi sguardi

indagatori, risvegliando, così almeno mi parve, pensieri insospettati, problemi senza risposta. Poi il coro, e buono, con

accompagnamento di melodion. Dopo il sermone cantarono «Guidami, luce gentile». Si unirono in molti al bell'inno, di

cui il pastore lesse l'introduzione, «Anche durante il giorno Egli li guidò con una nuvola, e per tutta la notte con un

bagliore di fuoco». Poi le parole:

Guidami, luce gentile, nel buio che opprime,

Guidami sulla mia via.

La notte è scura, la mia casa lontana;

Guidami sulla mia via;

Sostieni il mio piede; non spero vedere.89

Il paesaggio lontano: un passo mi basta.

Non sempre fui tale, né mai ti pregai

Di guidarmi per via

Volli sceglier da solo la strada; ma ora

Guidami tu per la via.

Amai il dì festivo, e sdegnando i timori

L'orgoglio guidò il mio volere: dimentica gli anni.

Un paio di giorni dopo mi recai al padiglione degli «Incurabili», con un permesso speciale del Dr. Beemer, e

visitai quasi tutte le corsie, sia quelle maschili che femminili. Da allora ho compiuto molte altre visite del genere al

nosocomio, e anche ai padiglioni distaccati all'intorno. Stando a quel che ho visto, questo è uno degli istituti più

progrediti del genere, più perfezionati e meglio amministrati, per umanità e razionalità, in tutta l'America. È una vera

cittadina, con molti edifici e un migliaio di abitanti.

Vengo a sapere che il Canadà, e in particolare questa grande e popolosa provincia, l'Ontario, possiede il

maggior numero e le migliori istituzioni benefiche in tutti i settori.

RICORDO DI ELIAS HICKS

8 giugno. Oggi una lettera da Detroit, della signora E.S.L., in un piccolo plico postale, accompagnata da una

vecchia e rara incisione raffigurante la testa di Elias Hicks (da un ritratto a olio eseguito da Heury Inman per J.V.S.,

sessanta anni fa se non più, a New York). Nella lettera, tra l'altro, queste righe su E.H.:

«Da bambina ho ascoltato tante volte i suoi sermoni, e partecipato insieme a mio padre e a mia madre a molte

riunioni di cui egli era il centro, e in cui tutti sempre erano così deliziati e stimolati dalla sua conversazione. So che voi

meditate di scriverne, o parlarne e mi son chiesta se possediate un suo ritratto. Giacché io ne posseggo due, ve ne invio

uno».

SPLENDIDO SVILUPPO AUTOCTONO

Tra pochi giorni andrò al lago Huron, e può darsi che abbia qualcosa da dire su quella regione e la sua gente.

Da quanto posso già vedere, direi che la giovane popolazione originaria del Canadà stia maturando, dando vita a una

razza solida, democratica, intelligente, radicalmente sana, e di indole altrettanto buona, individualista e americana

quanto la media della nostra gente migliore. Tra noi, poi, mi piace pensare che codesto elemento, anche se forse non

costituisce ancora la maggioranza promette però di diventare il lievito che alla fine farà lievitare l'intera massa.

UN PATTO DOGANALE TRA STATI UNITI E CANADA'

La stampa più liberale qui sta discutendo la questione di un patto doganale tra Stati Uniti e Canadà. C'è la

proposta di formare un'unione a scopi commerciali, - di abolire completamente la barriera doganale e ambedue i corpi di

funzionari in servizio tra i due paesi, e di raggiungere l'accordo per una tariffa unica i cui proventi andrebbero divisi tra

i due governi sulla base della popolazione. Si dice che una grande percentuale dei commercianti canadesi sia favorevole

a un tal passo, stimando che la cosa tornerebbe materialmente utile agli affari del paese, perché eliminerebbe le

restrizioni ora esistenti nel commercio tra Canadà e Stati Uniti. Quelli che si oppongono a questa proposta ritengono sì

che darebbe incremento al benessere materiale del paese, ma anche che finirebbe per allentare i legami tra Canadà e

Inghilterra; e questo sentimento fa passare in secondo piano il desiderio di prosperità commerciale. C'è da chiedersi se

tale sentimento può continuare a reggere alla tensione cui è sottoposto. Molti ritengono che le considerazioni

commerciali dovranno alla fine prevalere. Sembra anche opinione comune che tale patto o unificazione doganale

porterebbe in pratica più benefici alle province canadesi che agli Stati Uniti. (A me sembra un inevitabile portato dei

tempi che il Canadà formi, prima o poi, due o tre grandi stati sovrani e indipendenti insieme al resto dell'Unione

americana. Il San Lorenzo e i laghi sono destinati a segnare non una linea di confine, bensì un grande canale mediano o

interno di comunicazione).

LA LINEA DEL SAN LORENZO.90

20 agosto. Premesso che i miei tre o quattro mesi in Canadà avevano come scopo tra gli altri l'esplorazione

della linea del San Lorenzo, dal Lago Superiore fino al mare (gli ingegneri qui insistono nel considerarla come un unico

corso d'acqua di più di duemila miglia, che include i laghi, il Niagara e tutto), e che ho attuato solo in parte il mio

progetto (ma dopo le sette o ottocento miglia percorse mi sembra che la questione Canadà sia davvero definita da

questa linea d'acque con i suoi lineamenti eccezionali e le sue caratteristiche di commercio e umanità, oltre a molte

altre) - premesso tutto ciò, eccomi a scrivere queste note circa mille miglia a nord di Filadelfia (da cui sono partito, via

Montreal e Quebec), nel cuore di regioni che toccano punti più alti di orrore e di bellezza selvaggia, (e una sorta di

quieta «timorosità» pagana, e tuttavia sono regioni cristiane ma inabitabili e solo parzialmente fertili) che forse in

qualsiasi altra parte della terra. Il tempo si mantiene perfetto; qualcuno potrà definirlo un po' fresco, ma con il mio

vecchio pastrano grigio indosso io lo trovo ottimo. Le giornate sono ricche di sole e di ossigeno. Passo la più gran parte

del mattino e del pomeriggio sul ponte di prua del vapore.

IL SELVAGGIO SAGUENAY

Più di cento miglia risalendo queste acque nere - sempre gagliarde e profonde (centinaia di piedi, talvolta

migliaia), sempre con alte balze di roccia come sponde, verdi e grigie - un paesaggio simile, a volte, a certe parti dello

Hudson, ma assai più marcato e sdegnoso. I dossi si levano più alti, si tengono in file più serrate. Il fiume è più diritto,

la corrente è più risoluta, e il colore, seppur d'un nero - inchiostro, squisitamente levigato e brillante sotto il sole

d'agosto. Davvero diverso, il Saguenay, da ogni altro fiume - gli effetti sono diversi - il giuoco d'ombre e di luci più

audace e veemente. Una singolarità e una semplicità di un raro fascino (come il canto dell'organo nella «Favorita», a

mezzanotte, dal vecchio convento spagnuolo - un'unica frase, semplice e monotona e spoglia - ma indicibilmente

penetrante, solenne, magistrale). Gran posto questo per gli echi: mentre il nostro battello era ormeggiato al molo di

Tadousac (Tagiù-sac), in attesa, e il fumaiolo mandava getti di vapore, io fui sicuro d'aver udito un'orchestra suonare su

all'albergo tra le rocce - riuscii anzi a individuare qualche motivo. Solo quando il fumaiolo cessò capii di che si trattava.

Poi, a capo Eternity e a punta Trinity il pilota che azionava la sirena produsse simili meravigliosi effetti, echi

indescrivibilmente strani, mentre eravamo ammarati nella baia tranquilla, sotto l'ombra delle due rupi.

CAPO ETERNITY E CAPO TRINITY

Ma i due capi, grandi, alteri, silenti: dubito che esista al mondo un promontorio o altura o luogo di rinomanza

storica o altro del genere che possa superarli (li ho di fronte, sotto gli occhi, mentre scrivo). Sono semplicissimi, non è

che sbigottiscano - almeno non hanno sbigottito me - ma vi restano nella memoria per sempre. Sono vicinissimi l'uno

all'altro, fianco a fianco, due monti che balzano su dritti dal Saguenay. Un buon tiratore riuscirebbe a colpirli ambedue

con una pietra, passando - o almeno così sembra. Poi hanno forme ben distinte l'una dall'altra, come un perfetto corpo

maschile da un perfetto corpo femminile. Capo Eternity, nudo, si leva come già detto direttamente dall'acqua scabro e

severo (e tuttavia di una bellezza indescrivibile) fino a un'altezza di quasi duemila piedi. La rupe Trinity, persino un po'

più alta, scatta anch'essa su dall'acqua, con una sommità arrotondata come una gran testa con una corta capigliatura di

verde. Io mi considero ben ripagato delle mie mille miglia di viaggio se ho potuto vedere e fermare nella memoria

questa fantastica coppia. Mi hanno commosso più profondamente di qualsiasi altra cosa del genere che abbia mai

contemplato. Se appartenessero all'Europa o all'Asia, ne sentiremmo senza dubbio parlare in ogni sorta di poemi e

rapsodie rispedite almeno dodici volte all'anno ai nostri giornali e riviste.

LA BAIA DI CHICOUTIMI E HA-HA

No davvero - la vita, i viaggi, i ricordi non mi hanno mai offerto né possono avere in serbo per me, per la gioia

del mio spirito, episodi, panorami e vedute più indimenticabili di quelli della baia di Chicoutimi e Ha-ha - i giorni e le

notti su e giù per questo fiume selvaggio e affascinante - montagne gibbose, certune brulle e grigie, altre d'un rosso

spento, altre tutte ammantate d'un verde groviglio di fogliame o di vigne - le grandi, tranquille, eterne rocce dovunque -

le lunghe striature di schiuma screziata, un quaglio lattiginoso nel grembo scintillante della corrente - il piccolo

duealberi color giallo-sporco con le sue vele rattoppate ala contro ala, che ci si avvicina risalendo vivace la corrente,

con a bordo un paio di uomini bruni dai capelli neri - e forti ombre che continuano a cadere sui contorni grigio-chiaro o

gialli delle colline per tutta la mattinata, mentre il nostro battello passa a un tiro di schioppo da loro - e su ogni cosa

sempre la pura e delicata distesa del cielo. E poi gli splendidi tramonti, le visioni della sera - le solite vecchie stelle

(appena un poco diverse, mi pare, trovandoci così a nord), Arturo e la Lira e l'Aquila e il gran Giove come un globo

d'argento, e la costellazione dello Scorpione. E poi le luci della Corona Boreale, quasi ogni notte..91

GLI ABITANTI - UN BUON TENORE DI VITA

Per quanto cupo, roccioso e nereggiante d'acque si presenti il paesaggio da queste parti, non dovete pensare che

non vi s'incontrino calore umano, comodità e buon tenore di vita. Prima di cominciare a prender note, ho fatto stamane

un'ottima colazione a base di trota salmonata e, per finire, lamponi selvatici. Incontro ovunque sorrisi e cortesia -

fisionomie in genere stranamente simili a quelle che si vedono negli Stati Uniti (rimasi oltremodo sorpreso nel

constatare la medesima rassomiglianza in tutta la provincia di Quebec). Generalmente gli abitanti di questa aspra

regione (le contee di Charlevoix, Chicoutimi e Tadousac, e il territorio del Lago St. John) sono gente semplice e tenace,

dedita a far legname nei boschi, alla caccia degli animali da pelliccia, alla navigazione e alla pesca o alla raccolta di

bacche, e solo in minima parte all'agricoltura Stavo proprio guardando un gruppo di giovani barcaioli che cenavano di

buon'ora - niente altro che un'immensa pagnotta in cui era certo finito almeno uno staio di farina, dalla quale tagliavano

grossi tocchi con un coltello a serramanico. Dev'essere un paese terribile d'inverno, questo, quando gelo e ghiaccio vi

s'insediano compatti.

NOMI COME COCCOLE DI CEDRO

(Di nuovo a Camden e nei boschi del Jersey)

Ho pensato una volta di chiamare questa raccolta Come coccole di cedro (e anche oggi credo che non sarebbe

stato un brutto titolo, né inappropriato). Un mélange di ozi, di tempo passato a guardarmi attorno o in lente camminate,

a star seduto o far viaggi - un pizzico di pensiero messo lì come sale, ma ben poco - non solo l'estate, ma tutte le

stagioni - non solo giorni, ma notti - qualche riflessione letteraria - libri e scrittori esaminati, Carlyle, Poe, Emerson

sfogliati sempre sotto il mio cedro, all'aria aperta, e mai in biblioteca - in genere le scene che chiunque può vedere, ma

con un po' dei miei capricci, meditazioni, egotismo - veramente un frutto dell'aria aperta e soprattutto dell'estate - sia

preso singolarmente che a grappoli - selvatico e spontaneo e talvolta acidulo - per vero assai più simile alle coccole del

cedro di quanto non appaia a prima vista.

Ma sapete cosa sono? (mi sto rivolgendo adesso al signore di città, o a qualche delicata frequentatrice di

salotti). Viaggiando per strade maestre o attraverso lande e campagne in qualsiasi parte di questo paese, negli Stati del

Centro, dell'Est, dell'Ovest o del Sud, noterete in certe stagioni dell'anno le folte chiome lanose del cedro tutte

punteggiate di mazzi di bacche azzurro-porcellana, grosse a un dipresso come chicchi di lambrusca. Ma prima una

parola sull'albero: tutti sanno che il cedro è un legno sano, poco costoso e democratico, striato di bianco e di rosso - un

sempreverde - che non viene coltivato - che tiene lontane le tarme - che cresce all'interno o sulla costa, in qualsiasi

clima, caldo o freddo, su qualsiasi suolo - di fatto sembra preferire luoghi sabbiosi, brulli e isolati - contento se aratro,

fertilizzanti e accette da pota si tengono al largo e lo lasciano in pace. Tante volte, dopo una gran pioggia, quando le

cose sono tutte lucenti, mi sono fermato durante i miei vagabondaggi, nel Sud o nel Nord o all'estremo Ovest, a

gustarmi quel suo verde cupo, pulito e dolce dopo l'acquata, e maculato profusamente da quei frutti d'un azzurro

limpido e deciso. Il legno del cedro è utile - ma che utilità potranno mai avere quei grappoli di coccole asprigne? Una

risposta soddisfacente non c'è. È vero che certi erboristi le propinano pei malanni di stomaco, ma il rimedio è perfido

quanto la malattia. Poi un giorno durante uno dei miei giri nella contea di Camden, scoprii una vecchia pazza che

andava raccogliendo quei grappoli con gran zelo e gioia. Ella manifestava, come mi venne riferito in seguito, una sorta

di infatuazione per codeste bacche, e ogni anno ne raccoglieva e collocava grandi mazzi nella sua stanza, a profusione

in tutti gli angoli. Avevano uno strano potere sulla sua povera testa travagliata, le procuravano pace e mansuetudine (ma

era innocua, e abitava da quelle parti con una sua figlia assai ben maritata). Se vi sia un rapporto tra quei grappoli e

l'uscir di senno non saprei dire, ma anch'io ho per loro una debolezza tutta speciale. Veramente il cedro mi piace

comunque - mi piace quel suo essere ispido e nudo, quell'aroma appena avvertibile (così diverso da tutte le rarità dei

profumieri), il suo silenzio, la sua equanime accettazione del gelo invernale e della calura estiva, di piogge o siccità - e

il riparo che a volte m'ha offerto da queste - le associazioni che stimola (insomma, io non sono stato mai capace di

spiegare perché amo qualcuno o qualcosa). Il servigio per cui ora in particolare sono in debito verso il cedro è che,

mentre mi vado aggirando in cerca di un nome per la mia progettata raccolta, esitante e perplesso - dopo averne rifiutato

una lunga, lunghissima lista, alzo gli occhi, ed ecco! proprio la parola che mi ci vuole. In ogni caso non vado più oltre -

la ricerca mi stanca; prendo quel che qualche spirito invisibile mi ha gentilmente messo davanti. Oltre tutto, chi vorrà

dirmi che non esiste sufficiente affinità tra molti di questi brani o granulazioni (o perlomeno il fascio di sterpi che li ha

prodotti) e quelle coccole azzurre? La loro crescita selvatica, senza usi - un certo aroma di Natura che mi piacerebbe

tanto avere nelle mie pagine - lo scarno suolo da cui fioriscono - quel loro accontentarsi d'esser lasciate in pace -

l'ottusa, sorda ripugnanza a qualsiasi domanda (affinità di carattere, quest'ultima, tra tutte la più vicina e la più cara).

E per concludere, caro lettore, quanto alla questione del titolo per questa raccolta, accontentiamoci di averlo,

un nome - qualcosa che la individui e la leghi assieme, che cementi tutte quelle note vegetali, minerali, personali,

improvvise impennate critiche, rozzi cicalecci filosofici, sabbie sparse e arbusti - senza crucciarci se certe pagine non.92

vanno sotto il loro titolo con impeccabile appropriatezza e amabilità (è una questione profonda, irritante, inesplicabile,

questa dei nomi. Mi ha impegnato seriamente per tutta la vita).*

Dopo di che, il titolo Come coccole di cedro si vide posto fuori combattimento; ma io non posso permettermi

di gettar via quanto sono venuto annotando laggiù sul sentiero, al riparo del mio vecchio amico, un tiepido meriggio di

ottobre. Tra l'altro non sarebbe gentile nei riguardi del cedro.

* Nel risvolto del mio taccuino trovo una lista di suggerimenti (poi abbandonati), di titoli per questo volume, o

parti di esso; ad esempio:

Mentre ronza il bombo di maggio

E fiorisce in agosto il verbasco

E fiocca d'inverno la neve

E ruotan nel cielo le stelle

Via dai libri, via dall'Arte,

Ora solo il Giorno e la Notte - conclusa la lezione,

Ora soltanto il Sole e le Stelle.

Note di un semi-paralitico

Settimana per settimana

Braci di giorni morenti

Anatre e germani

Flusso e riflusso

Chiacchiere a lume di candela

Echi e fughe

Come me... rugiade vespertine

Postille

Qui e là, a 63 anni

Cumuli e cirri

Barbe di mais... ramaglia

Prima e dopo... Vestiboli

Scintilla dei 60 e dopo

Sabbie sulle rive dei 64 anni

Come voci al vespro, nascoste o lontane

Germi autoctoni... embrioni

Ala contro ala

Note e richiami

Solo verbaschi e calabroni

Gorgoglii di stagno... Tête-à-Tête

Echi di una vita del 19° sec. nel Nuovo Mondo

Flange dei cinquant'anni

Abbandoni, note frettolose

Mosaico di vita, istanti nativi

Tipi e semitoni

Cianfrusaglie... relitti marini

Ancora e sempre (N.d.A.).

MORTE DI THOMAS CARLYLE

10 febb. '81. Dunque la fiamma del lume, dopo una lunga consumazione e tremuli guizzi, si è spenta del tutto.

Come autore rappresentativo e figura di letterato, nessun altro come Carlyle lascerà in eredità al futuro più

significativi indizi della nostra era tempestosa, dei suoi violenti paradossi, il clangore, i tormentati momenti del parto.

Inoltre egli appartiene al ceppo più nostro della razza: né latino né greco, ma definitivamente gotico. Ispido,

montagnoso, vulcanico, era una rivoluzione francese in persona, assai più di qualsiasi suo libro. Per certi rispetti, sino a

tutt'oggi nel secolo decimonono, la mente più preparata e acuta, anche dal punto di vista accademico, di tutta la Gran

Bretagna; solo che aveva un corpo sofferente. Tracce di dispepsia si trovano in ogni sua pagina, e talvolta la riempiono.

Tra le lezioni della sua vita - una vita peraltro di una lunghezza sorprendente - potrebbe includersi questa - come dietro

il computo del genio e della morale vi sia sempre lo stomaco, a dare una sorta di voto decisivo.

Due elementi contrastanti e in lotta sembrano essersi contesi quest'uomo, tirandolo talora in direzioni opposte

come cavalli selvaggi. Era uno scozzese cauto, conservatore, conscio di che fetido sacco di chiacchiere sia gran parte.93

del radicalismo moderno; ma poi il suo gran cuore chiedeva riforme, mutamenti - sovente in terribile contrasto con il

suo caustico ragionare. Nessuno scrittore ha mai messo tanto lamento e tanta disperazione nei suoi libri, scoperti

talvolta, ma più spesso latenti. Mi viene in mente quel passo nelle poesie di Young in cui, come la morte incalza più e

più da presso la sua preda, l'anima si getta da una parte e dall'altra invocando, gridando e imprecando, per sfuggire al

destino universale.

Di pecche, per non dire macchie vere e proprie, dal punto di vista di un americano, ebbe la sua parte, e grave.

Non nei meriti puramente letterari (pur grandi), e nemmeno come «facitore di libri», bensì nell'aver immesso

nella compiaciuta atmosfera dei nostri tempi un turbamento, un'agitazione provocatrice, inquisitiva, sconvolgente, sta il

valore ultimo di Carlyle. È tempo che i popoli di lingua inglese si facciano un'idea esatta di che cosa sia la spina dorsale

del genio, vale a dire la forza. Quasi dovessero sempre trovarselo tagliato e cucito all'ultima moda! come un mantello da

signora! Che provvidenziale servigio ci rende costui! Come riesce a scuotere i nostri comodi circoli letterari, con un

pizzico dello spirito profetico e dell'antica ira ebraica - ché tale la sua veramente può dirsi. Lo stesso Isaia non fu né più

sprezzante né più minaccioso: «La corona dell'orgoglio, gli ebbri di Efraim, saranno calpestati sotto i piedi: E la

gloriosa bellezza che adorna la testa della grassa valle sarà un fiore presso a vizzire». (Il termine profezia viene spesso

adoperato in modo improprio: sembra ristretto al mero significato di predizione. Ma non è questo il senso primo della

parola ebraica che si traduce con «profeta»: questa indica un uomo il cui spirito ribolle e trabocca come una fonte,

grazie a una spinta interiore, divinamente spontanea, in cui si rivela Dio. La predizione non è che una parte secondaria

della profezia. Il punto centrale sta nel rivelare ed effondere i suggerimenti divini che premono nell'anima per venire

alla luce. Questa è in breve la dottrina degli Amici o Quacqueri).

E poi la semplicità e, sotto le manifestazioni di fragilità, la forza straordinaria di quest'uomo - un gagliardo

nodo di quercia che non si riusciva a logorare - un vecchio contadino vestito di scuro e non di bell'aspetto - le sue stesse

debolezze affascinavano. Che cosa ci importa che abbia scritto sul Dr. Francia, e Shooting Niagara, e La questione dei

negri, e che non sentisse nessunissima ammirazione per i nostri Stati? (mi chiedo anzi se non abbia pensato o detto la

metà delle cattive parole che ci meritiamo). Guardate come solca da leviatano i mari della letteratura e della politica

moderna! È fuor di dubbio, quanto a quest'ultima, che si dovrebbe per prima cosa constatare dal vivo lo squallore, il

vizio e la testardaggine radicati nella gran massa della popolazione delle isole britanniche, e la burocrazia, la fatuità, il

servilismo che dominano ovunque, per cogliere il significato ultimo delle sue pagine. Per questi motivi (benché egli non

fosse né un radicale né un cartista) io considero quello di Carlyle come il commento, anzi la protesta di gran lunga più

indignata contro i frutti del feudalesimo contemporaneo in Gran Bretagna - la miseria e la degradazione crescente dei

senzatetto, di quei venti milioni che non possiedono nulla mentre poche migliaia o meglio poche centinaia si godono

l'intero paese, il denaro e i posti al sole. Commercio e navigazione, clubs e cultura, e prestigio, e armi, e una classe

raffinata e selezionata di borghesi e di aristocratici, con tutto il comfort dei tempi moderni, non riescono minimamente a

salvare e tanto meno a giustificare una simile, stupefacente ingordigia.

Il miglior modo di accertare quanto egli abbia lasciato al suo paese, sarebbe di considerare, o cercar di

considerare per un momento il quadro del pensiero britannico, il risultato d'insieme degli ultimi cinquant'anni, così

come si presenta oggi, ma lasciando fuori Carlyle. Sarebbe come un esercito senza artiglieria. La parata rimarrebbe

sempre vivace e ricca - Byron, Scott, Tennyson e molti altri - cavalleria, fanteria veloce, sventolio di bandiere - ma il

gran rombo finale, così caro all'orecchio del veterano, e che determina la vittoria e le sorti, quello mancherebbe.

Negli ultimi tre anni qui in America ci sono arrivate sparse immagini di un uomo vecchissimo, assottigliato nel

corpo, solitario, senza moglie né figli, steso su un divano, che solo una indomita forza di volontà teneva lontano dal

letto, ma non più in grado, negli ultimi tempi, di uscire all'aria aperta. Ho trovato queste notizie di tanto in tanto in brevi

descrizioni sui giornali. Non più di una settimana fa ho letto un articolo del genere, proprio prima di uscire per la mia

solita passeggiatina serale tra le otto e le nove. Nella bella notte fresca, insolitamente limpida (5 feb. '81) mentre

camminavo su uno spiazzo aperto vicino casa, le condizioni di Carlyle, la sua morte imminente - o forse già accaduta -

mi riempirono di pensieri che eludevano ogni espressione, e si fondevano curiosamente con la scena. Il pianeta Venere,

alto da un'ora ad occidente, di nuovo in tutta la sua pienezza e fulgore (dopo essersi mostrato scarno e languido per

quasi un anno), con in più un sentimento che non avevo mai notato prima - non meramente voluttuosa, la Venere di

Pafo, inondante, affascinante - ma ora con una calma gravità, un'alterigia imperiosa - la Venere di Milo, adesso. Più in

alto verso lo Zenit, Giove, Saturno, e la luna poco oltre il primo quarto sfilavano in processione seguiti dalle Pleiadi,

dalla costellazione del Toro e dalla rossa Aldebaran. Non una nube in cielo. Orione marciava a gran passi a sud-est con

la sua cintura scintillante - appena più sotto era sospeso Sirio, sole della notte. Ogni singola stella dilatata, più vitrea,

più vicina di sempre. Non come in certe notti terse quando le stelle più grandi offuscano completamente le altre. Ogni

stellina o grappolo di stelle, tutti nitidamente visibili, e egualmente vicini. Ogni singola gemma in mostra sulla chioma

di Berenice, qualcuna mai vista. A nord-est e a nord, il Falcetto, la Capra con i suoi capretti, Cassiopea, Castore e

Polluce, e le due Orse. E intanto, questa silente indescrivibile visione, che assorbiva e impregnava totalmente di sé la

mia ricettività, era tutta percorsa dal pensiero di Carlyle che moriva. (Per rasserenare, spiritualizzare e, nell'ambito del

possibile, sciogliere il mistero della morte e del genio, considerateli sotto le stelle, a mezzanotte).

E ora che si è partito di qui sarà possibile che Thomas Carlyle, che la chimica della natura subito dissolverà in

cenere e i venti disperderanno, rimanga ancora una identità? In guise che eludono forse tutti gli argomenti, il sapere e le

speculazioni di diecimila anni - e ogni definizione concepibile da senso mortale - esiste egli ancora, essere definito e

vitale, spirito, individuo - che forse adesso vaga nello spazio tra quei sistemi stellari che, pur nella loro suggestiva

assenza di confini, non sono che il semplice orlo di più illimitati e suggestivi sistemi? Io non ho dubbi. In una bella.94

notte, a domande come queste l'anima riceve risposte nel silenzio, le migliori che possano darsi. Per me è la stessa cosa

- quando mi sento depresso da qualche evento particolarmente triste o da un problema angoscioso, attendo di poter

uscire sotto le stelle a cercare quella spiegazione estrema senza parole.

ALTRI PENSIERI E NOTE

Carlyle da un punto di vista americano.

Esiste certamente oggi un inesplicabile rapporto (più stuzzicante proprio per la sua intima contradditorietà) tra

lo scrittore scomparso e gli Stati Uniti d'America - quanto duraturo, non ha importanza.* Mentre il nostro mondo

occidentale assume forme sempre più definite, esprimendosi in strutture e frutti sconosciuti prima d'oggi, è straordinario

con che nuovi sensi noi volgiamo lo sguardo ai prodotti più rappresentativi delle crisi e delle figure eminenti del

Vecchio Mondo. È fuor di questione che con la morte di Carlyle e la pubblicazione delle memorie di Froude, l'interesse

non solo per i libri del famoso scozzese, ma per qualsiasi inezia che lo riguardi - la sua dispepsia, le sue furie la

famiglia, la moglie modello, la carriera a Edimburgo, in quel solitario nido nella brughiera di Cralgenputtock, e i tanti

anni a Londra - è oggi probabilmente più vasto e vivace da noi che non nella sua terra d'origine. Io poi (riuscita o meno)

se dovessi attraversare l'Atlantico e considerare le oscure predizioni di quest'uomo sui destini dell'umanità e della

politica, vi opporrei decisamente (è questa l'idea che mi viene) un altro e assai più profondo oroscopo sui medesimi temi

- quello di G. F. Hegel.*

Anzitutto un'idea, un mai realizzato vagheggiamento di questa «pallida ombra del pensiero» - questo britannico

Amleto di Cheyne Row, più sconcertante di quello danese, con tutti i suoi stratagemmi per riacconciare le giunture rotte

e spaventose del governo del mondo, e in special modo le sue slogature democratiche. Carlyle ebbe in sorte il triste

destino di vivere e trovarsi al centro ed essere in larga misura l'incarnazione dei tormenti e delle angosce di parto

dell'ordine antico nel momento in cui, tra fitti cumuli di morbosi orrori, stava dando alla luce il nuovo. Ma provate a

immaginarvelo (lui o i suoi genitori prima di lui) venire in America e farsi conquistare dalle incoraggianti realtà e

dall'attività del nostro popolo, del nostro paese - crescere e lavorare qui, risolutamente, faccia a faccia con noi, e

possibilmente nel West - respirando la nostra aria e le nostre possibilità sconfinate - dedicando il suo pensiero alle teorie

e agli sviluppi di questa Repubblica nella realtà dei suoi fatti, quasi sono esemplificati nel Kansas, Missouri, Illinois,

Tennessee o Louisiana. Dico fatti, e un guardare in faccia le cose - così diverso dai libri, e da tutti quei cavilli e elenchi

di dati di biblioteca di cui il nostro uomo (si diceva arguta mente di lui, quando aveva trent'anni, che non esisteva un

altro in tutta la Scozia che avesse spigolato tanto e visto tanto poco) si è quasi esclusivamente nutrito, e che anche la sua

mente robusta e vitale nel miglior dei casi non faceva che riflettere.

Poco mancò che qualcosa del genere non si verificasse. Nel 1835, dopo più di una dozzina d'anni di tentativi e

di oscurità, l'autore di Sartor Resartus si trasferiva a Londra, poverissimo, già ipocondriaco senza scampo, il suo Sartor

universalmente dileggiato, nessuna prospettiva letteraria, e fermamente deciso a un ultimo lancio di dadi nella partita

delle lettere, risolveva di comporre e dare alle stampe un libro sul tema de La Rivoluzione Francese - e di abbandonare

per sempre il mestiere di scrittore qualora non ne traesse premio o guiderdone più alto di quanto ottenuto sino allora, e

di emigrare in America. Ma l'avventura ebbe un esito fortunato, e non ci fu emigrazione.

L'opera di Carlyle nella sfera della letteratura, così com'egli l'iniziò e la svolse, è simile, per uno o due aspetti

fondamentali, a quella di Emanuele Kant nella filosofia speculativa. Ma mancavano allo scozzese la stomatica flemma e

l'imperturbata placidità del saggio di Konigsberg né, al contrario dell'altro, egli seppe mai capire i propri limiti o

fermarsi quando l'ultimo era stato toccato. Egli spazza via giungla e viti velenose e sterpaglia - o se non altro mena loro

fieri e ripetuti colpi, picchiando di santa ragione. Kant fece la medesima cosa nell'ambito suo, ed era quanto poteva fare,

niente di più; le sue fatiche hanno lasciato un terreno perfettamente preparato - e mai forse servizio più grande fu reso

da essere mortale. Ma lo spasmo, lo iato di Carlyle sembra a me consistere (e lo si legge ovunque nei suoi scritti) in quel

suo credere fermamente, tra un turbine di nebbie e furie e contraddizioni, di possedere una chiave per la cura dei mali

del mondo e che usarla fosse la sua sacra missione.*

V'erano tuttavia due ancore, ancore di tonneggio, per stabilizzare come ultima risorsa la nave carlyliana. Di una

si dirà subito. L'altra, la più importante forse, era da vedersi solo in una qualche spiccata forma di energia personale,

una misura estrema della volontà e un impeto adeguato - un uomo, o degli uomini, «nati per comandare». Correva

probabilmente in ogni vena e flusso del sangue dello scozzese) qualcosa che questo tipo di elemento o carattere riusciva

a scaldare più di ogni altra cosa al mondo, e che a mio avviso ne fa il primo celebratore e propugnatore in letteratura -

più di Plutarco, più di Shakspere. Le grandi masse non significano nulla per lui - o almeno null'altro che materia

nebulosa e rozza; per lui, solo i grandi pianeti e i soli fulgenti. Mentre le idee lo lasciavano quasi invariabilmente

tiepido o freddo, era immancabile che una personalità possente, di prima grandezza, risvegliasse in lui la passione del

panegirico e una gioia selvaggia. Nel qual caso anche l'ideale del dovere, di cui si tratterà immediatamente, si trovava

all'istante sminuito e degradato. Tutto ciò che viene compreso sotto i termini "repubblicanesimo" e "democrazia" gli

riuscì sgradito sin dal primo momento, e con l'avanzar degli anni gli divenne anzi odioso e disprezzabile. Per le capacità

di franchezza e di penetrazione che egli indubbiamente possedeva, era meravigliosa la pertinacia con cui ignorava i

nuovi orientamenti. Per esempio la promessa, la certezza anzi del principio democratico di offrire a ciascuno e tutti gli.95

stati del mondo attuale, non solo un corpo legislativo ed esecutivo perfetto, ma l'unico metodo efficace per educare su

larga scala con sicurezza, seppur lentamente, la gente a governarsi e organizzarsi volontariamente da sé (meta ultima di

ogni sviluppo politico e di tutti gli altri) - di ridurre gradualmente al minimo il fattore governo in quanto tale,

sottoponendo i vari organi e il loro operato ai telescopi e microscopi di commissioni e partiti - e, cosa tra tutte la più

grande, di offrire, non il ristagno o un ligio contento, che han fatto il loro tempo con il feudalesimo e il clericalismo del

mondo antico e di quello medioevale, bensì una vasta e sana e ricorrente azione di flusso e riflusso per quelle profonde

correnti sotterranee che hanno ormai in modo visibile travolto gli antichi impedimenti - tutto ciò sembra non essere mai

entrato nel pensiero di Carlyle. È stata una cosa splendida come abbia rifiutato sempre, fino all'ultimo, qualsiasi

compromesso. Era stranamente antiquato. Al suono di quella voce, di fronte a quella figura aspra, pittoresca e

imponente, si ha l'impressione di venire trasportati dalle Isole Britanniche di oggi a più di duemila anni fa, nel territorio

tra Gerusalemme e Tarso. Il suo biografo più completo, e il migliore, dice giustamente di lui:

«Era un maestro e un profeta, nel senso ebraico della parola. Le profezie di Isaia e Geremia sono divenute parte

della eterna eredità spirituale del mondo, dacché gli eventi hanno provato che essi avevano rettamente interpretato i

segni dei tempi, e le loro profezie si sono avverate. Come loro, Carlyle credeva di avere uno speciale messaggio da

consegnare alla nostra epoca. Resta da vedere se la sua fede fosse esatta e il suo messaggio veto. Egli ci ha detto che

tutte le idee di libertà politica a noi più care, non i corollari connessi, sono mere illusioni, e che il progresso che finora è

parso accompagnarle non è altro che un progresso verso l'anarchia e la dissoluzione sociale. Se aveva torto, vuol dire

che ha fatto un cattivo uso delle sue facoltà. I principi del suo insegnamento allora sono falsi. Si è offerto come guida su

una strada di cui non aveva conoscenza alcuna; suo stesso desiderio sarebbe stato, in quel caso, il più rapido oblio della

sua persona e della sua opera. Se, d'altra parte, ha avuto ragione, e se, come i suoi grandi predecessori, ha saputo

veramente leggere nelle tendenze di questa nostra epoca moderna e il suo insegnamento verrà autenticato dai fatti,

allora anche Carlyle si collocherà tra i veggenti ispirati».

Come rettifica aggiungerò che in nessuna circostanza, e comunque il tempo e gli eventi abbiano a provar falsi i

suoi foschi vaticini, il mondo di lingua inglese dovrebbe dimenticare quest'uomo, o mancare di rendere omaggio alla

sua insuperata coscienza, al suo metodo singolare e alla sua fama di onestà. Mai convincimenti furono più seri e

genuini. Mai vi fu uomo meno fatuo e meno opportunista. Mai il progressismo politico ebbe un nemico più degno di

sincero rispetto.

L'altro punto fondamentale della dottrina di Carlyle era l'idea del compimento del dovere (che è solo un nuovo

codicillo - ammesso e non concesso che sia particolarmente nuovo - agli ingialliti lasciti del principio dinastico, gli

ammuffiti commi della legittimità e della regalità). Sembra che la sua intolleranza arrivasse talora alla follia se persone

il cui pensiero non era peraltro men profondo del suo, gli rammentavano che codesta formula, per quanto preziosa, era

in fondo piuttosto vaga, e che esistono molte altre considerazioni valide per una valutazione filosofica di ciascuno e di

tutti i settori della storia generale, o delle questioni individuali.

Insomma, io non conosco nulla di più sorprendente di questa mente (forse la più ponderosa, la più acuta ed

erudita del tempo) che per tutto il secolo XIX fino a oggi ha continuato a far balzi e singulti in atteggiamento di sfida e

scontento per ogni cosa, sdegnosamente ignorando (sia per costituzionale incapacità sia perché, più probabilmente, egli

voleva una ben precisa panacea, qui e subito) l'unico conforto e l'unica soluzione possibile.

Indipendentemente dal mero intelletto, esiste nella formazione di ogni superiore identità umana (nella sua

completezza morale, considerata come un insieme, e non per il lato morale soltanto ma per la totalità dell'essere, incluso

il fisico) un meraviglioso "qualcosa" che senza processi logici e spesso senza l'aiuto della cultura (benché a mio avviso

mèta e culmine di ogni cultura degna di tal nome) perviene a un'intuizione dell'assoluto equilibrio nel tempo e nello

spazio di tutto questo multiforme, folle caos di frodi, frivolezze e sporca avidità - questa quadriglia di idioti e finzione

incredibile e precarietà universale che chiamiamo mondo; cioè una visione spirituale di quel nesso divino, il filo che

tiene insieme l'intera congerie delle cose, tutta la storia e il tempo, e tutti gli eventi, per quanto meschini, per quanto

importanti, come un cane al guinzaglio nella mano del cacciatore. Di codesta visione spirituale, radice e centro della

mente umana - di cui il semplice ottimismo non spiega che la superficie, le zone periferiche - Carlyle era privo, forse in

gran parte, ma forse del tutto. Al contrario egli sembra essere stato perseguitato, nel dramma della sua azione mentale,

da uno spettro mai esorcizzato dall'inizio alla fine (gli studiosi di greco, mi pare, trovano che questa stessa fantastica,

beffarda apparizione non abbandona mai Aristofane nelle sue commedie) - lo spettro della distruzione del mondo.

Quanti trionfi o fallimenti della vita umana, in guerra e in pace, i più grandi anche, possono dipendere da un

piccolo nucleo segreto, poco più di una goccia di sangue, una pulsazione, un respiro! È indubbio che tutte queste gravi

questioni, la democrazia in America, il carlyleismo, il temperamento necessario per una analisi veramente profonda

della politica o della letteratura s'imperniano intorno a un solo semplice punto di filosofia teoretica.

Il tema più profondo che possa occupare la mente dell'uomo - il problema dalla cui soluzione dipendono in

modo sottile e definitivo, per una adeguata esposizione e disamina, la scienza, l'arte, le fondamenta e gli scopi delle

nazioni e ogni altra cosa, inclusa una intelligente felicità umana (qui, oggi, 1882, New York, Texas, California, o

qualsiasi altra epoca o paese), è senza dubbio implicito nel quesito: Qual è il nesso che fonde e spiega - quale il rapporto

tra il Me (radicale, democratico), l'identità umana fatta di intelligenza, emozioni, spirito etc. da una parte, e il Non Me

(conservatore) dall'altra, la totalità oggettiva dell'universo materiale con le sue leggi, con tutto ciò che esse sottendono

nello spazio e nel tempo? Emanuele Kant, benché abbia spiegato o parzialmente spiegato, potrebbe dirsi, le leggi

dell'intelletto umano, ha lasciato la questione aperta. La risposta, o accenno di risposta di Schelling (e assai valida e

importante nei suoi limiti) è che la medesima intelligenza e passione, sia generale che particolare, e persino gli ideali di.96

bene e di male esistenti in un individuo allo stato di formulazione cosciente, esistono allo stato inconscio o in intuibili

analogie nell'intero universo della Natura esteriore, in tutti i suoi oggetti grandi e piccoli, in tutti i suoi movimenti e

processi - rendendo in tal modo convertibili, identificandole anzi in nucleo ed essenza, l'impalpabile mente dell'uomo e

la Natura concreta, nonostante il dualismo che le separa. Ma la definizione più completa della questione ci è stata data

da G. F. Hegel, e rimane a tutt'oggi la parola più autorevole sull'argomento. Adottando in sostanza lo schema che si è or

ora compendiato, egli lo sviluppa e fortifica, e vi immerge ogni cosa, colmando così per la prima volta certe serie

lacune, sì che il tutto diviene un coerente sistema metafisico, e una risposta sostanziale ( se mai risposta possa darsi) -

un sistema che, pur dovendo io ammettere chiaramente che l'intelletto del futuro potrà fare aggiunte, revisioni, se non

addirittura ricostruirlo del tutto, sfolgora comunque oggi nella sua interezza illuminando il pensiero dell'universo e

spiegandone il mistero alla mente umana, con una consolante sicurezza scientifica finora ignota.

Secondo Hegel la terra intera (antico fulcro di pensiero, questo, già nei Veda, e senza dubbio anche prima, ma

mai finora portato in primo piano con tanta assolutezza, con la scorta anche eccessiva dei fatti e dello scientismo

moderni, e presentato come unico accesso al singolo e al tutto) nella sua infinita varietà, il passato, l'ambiente di oggi e

tutto ciò che potrà accadere in futuro, i contrasti tra lo spirituale e il materiale, il naturale e l'artificiale, tutte queste cose

insomma agli occhi di colui che vede per ensemble non sono che lati, pieghe inevitabili, gradini e nessi diversi

nell'infinito processo del pensiero Creativo: il quale, tra un numero sterminato di contraddizioni e fallimenti apparenti, è

tenuto insieme da una unità centrale e mai infranta - non contraddizioni e fallimenti, quindi, bensì irradiazioni di

un'unica finalità logica e eterna; l'intera massa delle cose che perennemente e senza mai deviare tende e fluisce verso

1'utile e la morale, essenze permanenti, come i fiumi agli oceani. Come la vita costituisce l'unica legge e lo sforzo

incessante dell'universo visibile, e la morte l'altro lato, quello invisibile, allo stesso modo 1'utile, e la verità, e la salute,

sono leggi continue e immutabili dell'universo morale, mentre il vizio e la malattia, malgrado tutte le loro perturbazioni,

non ne sono che espressioni transeunti, anche se infinitamente più diffuse.

Alla politica in ogni sua parte, Hegel applica un principio e una fede simili, universali. Nessun partito

particolare, né alcuna forma di governo sono veri in modo assoluto o esclusivo. La verità consiste in giusti rapporti di

oggetti tra loro. Una maggioranza o una democrazia potrebbero governare in modo altrettanto eccessivo, e avere effetti

altrettanto malefici, quanto un'oligarchia o il regime di un despota - anche se molto meno probabile. Ma il gran male è

sempre una violazione, sia dei rapporti cui si è appena fatto cenno, sia della legge morale. Ciò che è capzioso, ingiusto,

crudele, e ciò che vien detto innaturale, seppure non solo permessi ma anzi in certo senso inevitabili (come l'ombra alla

luce) nello schema divino, per l'intrinseca costituzione di quello stesso schema sono cose parziali, incongrue,

momentanee, e seppur abbiano in superficie una supremazia schiacciante, sono per certo destinate al fallimento dopo

aver causato molto soffrire.

La teologia, Hegel la traduce in scienza.* Tutte le apparenti contraddizioni della natura Deifica secondo le

definizioni che ne han dato le varie epoche, nazioni, chiese e punti di vista, non sono che espressioni frazionarie e

imperfette di una unità essenziale, da cui esse procedono tutte - rozzi tentativi, parti difformi, da esser considerati a un

tempo distinti e uniti. In breve (per metter la cosa a modo nostro, e tirar le somme) quel pensatore o analizzatore o

spettatore il quale per una inscrutabile combinazione di saggezza acquisita e naturale intuizione accetti più pienamente,

in perfetta fede, l'unità morale e la sanità dello schema creativo nella storia e nella scienza, in tutta la vita e in ogni

tempo, presente e futuro, costui è sia il più vero adoratore e sacerdote cosmico, che il più profondo filosofo. Mentre

colui che, sopraffatto dalla sua persona e dalle circostanze, vede solo tenebre e disperazione nella somma delle opere

della provvidenza divina, e perciò diniega e prevarica, per quanta pietà aleggi sulle sue labbra è il più radicale dei

miscredenti e peccatori.

Esporre qui Hegel un poco liberamente ** mi dà una maggior sicurezza - non solo per aver trovato un buon

contrappeso alla lettera e allo spirito di Carlyle - recidendoli separatamente e in fascio fin dalle radici, e da sotto le

radici - ma anche per controbilanciare le dottrine degli evoluzionisti, dal momento della recente morte di Darwin e della

sua meritata apoteosi. Per quanto indicibilmente preziose per la biologia, e quindi indispensabili a una giusta

valutazione e direzione negli studi, queste infatti non possono comprendere ne spiegare ogni cosa - e anche dopo che

tali grida han toccato il diapason, dovrà ancora essere alitata l'ultima parola o sussurro che fluttui per sempre alto al di

sopra di esse e di ogni metafisica schematica. Seppure i contributi che i tedeschi Kant e Fichte e Schelling hanno

lasciato in eredità al genere umano (come anche l'inglese Darwin nel suo campo) sono indispensabili alla cultura

americana del futuro, io direi che in tutti, anche i migliori, se paragonati alle folgoranti e alate visioni degli antichi

profeti e exaltés, dei poeti e della poesia spirituale di tutti i paesi (la Bibbia ad esempio), sembra esservi, e anzi

certamente v'è, qualcosa di manchevole - un che di freddo, una incapacità di gratificare le più profonde emozioni

dell'anima - un'assenza di quella luce viva: trasporto, calore, che sanno darvi gli antichi poeti e exaltés, ma non i

moderni filosofi, anche i più acuti, almeno fino ad oggi.

Nel complesso, e per ciò che c'interessa, il nome di Carlyle si colloca certamente nella lista insieme a quei

nobilissimi medici morali dell'epoca attuale or ora menzionati - e insieme a Emerson e altri due o tre - per drastica e

forse distruttiva che sia la sua ricetta, mentre la loro è assimilativa, normale e tonica Feudali come sono nel profondo, e

invero proliferazione e irradiazione mentale del feudalesimo, i suoi libri presentano tuttavia alcune affinità e lezioni

sempre valide per l'America democratica. Nazione o individuo, noi riceviamo certamente le più profonde lezioni dalla

dissimiglianza, da un'opposizione sincera, dalla luce proiettata anche con disprezzo su punti pericolosi e responsabilità.

(Michelangelo invocava la speciale protezione del cielo contro gli amici e gli adulatori più affezionati; coi nemici

scoperti poteva cavarsela da solo). Per molti aspetti particolari Carlyle era in verità, come lo definisce il Froude, uno di.97

quegli antichi profeti ebraici, un novello Micah o Abacuc. Le sue parole talora traboccano come sospinte da una

ispirazione abissale. Preziosi sempre, uomini siffatti; e oggigiorno più preziosi che mai. I suoi toni crudi, irritanti,

ingiuriosi, contraddittori - che cosa v'è di più desiderabile, in mezzo alle voci leziose e forbite dell'America d'oggi,

adoratrice di Mammona, livellatrice di Gesù e Giuda, col suo strepito di sovranità e suffragi? Egli ha rischiarato il

nostro secolo diciannovesimo con la luce di un intelletto di prim'ordine, possente, penetrante e perfettamente onesto,

rivolto alla vita politica e sociale, alla letteratura e alle figure più rappresentative d'Inghilterra e d'Europa - seppur

perennemente insoddisfatto e pronto a denudare senza pietà ogni piaga. Ma mentre denuncia la malattia e va tuonando e

infuriando, egli stesso, nato e cresciuto nella medesima atmosfera, ne è una cospicua illustrazione.

* A giudicare dai suoi libri, dalle sue antipatie personali, ecc., il futuro troverà difficile spiegare la presa

profonda di questo scrittore sulla nostra epoca, e il modo in cui egli ne ha colorito i metodi e il pensiero. Quanto alla sua

influenza su di me, sono certamente in imbarazzo a spiegarla. Ma ormai non può esistere panorama o anche visione

parziale del secolo decimonono che non includa, e vistosamente, Carlyle. Nel suo caso (come in tanti altri, opere

letterarie o artistiche, personalità umane, eventi) v'è un qualcosa di impalpabile che ha avuto più peso di ogni aspetto

palpabile. Inoltre io non trovo testo migliore (è sempre importante avere come punto di partenza un contemporaneo con

idee precise e sue, anche se contrarie alle nostre) per mettere in circolazione, ad uso domestico, certe speculazioni e

certi confronti. Vediamo dunque a che cosa assommano, queste dottrine reazionarie, queste paure e sprezzanti analisi

della democrazia - anche se vengono dalla mente più erudita e sincera d'Europa. (N.d.A.).

* Parte non minima né trascurabile del caso (un tocco, forse di quell'umorismo con cui la storia e il fato amano

controbilanciare la loro serietà) è il fatto che sebbene nessuno dei miei due pensatori durante la sua vita considerò gli

Stati Uniti degni di seria attenzione, le principali opere di ambedue avrebbero potuto non inappropriatamente essere

raccolte oggi e rilegate in volume sotto il cospicuo titolo «Speculazioni ad uso del Nordamerica e della Democrazia

colà, con riferimenti alla Metafisica, incluse Lezioni e Avvertimenti (Incoraggiamenti, anche e dei più grandi) da parte

del Vecchio Mondo al Nuovo» (N.d.A.).

* Spero di non cadere io stesso nell'errore che imputo a lui, di prescrivere cioè uno specifico per mali

inevitabili. La mia massima aspirazione probabilmente non è altro che di confutare la vecchia, esclusiva pretesa del

potere curativo degli individui di prima categoria, come leader e governanti, proponendo invece la forza delle idee, con

i loro movimenti e risultati generali. Una di queste potrebbe essere la tipica teoria americana della democrazia e della

modernità - ma dovrei dire piuttosto è la democrazia, ed è la modernità. (N.d.A.).

* Devo molto all'estratto di J. Gostick. (N.d.A.).

** L'ho ripetuto deliberatamente, non solo in opposizione al pessimismo e all'idea della decadenza del mondo

che è sempre latente in Carlyle, ma in quanto rappresenta il punto di vista più decisamente americano che io conosca. A

mio avviso le formule di Hegel sopra citate costituiscono una giustificazione essenziale, conclusiva, della democrazia

del Nuovo Mondo nei domini creativi del tempo e dello spazio. V'è in esse qualcosa che solo la vastità, la molteplicità e

la vitalità dell'America sembrerebbero poter comprendere, mettere in prospettiva e illustrare, persino originare, o per cui

sarebbe adatta. Mi sembra strano che siano nate in Germania, e nel vecchio mondo. Mentre un Carlyle, direi, è proprio

il legittimo prodotto che ci si aspetterebbe dall'Europa. (N.d.A.).

DUE VECCHIE CONOSCENZE. UN PASSO DI COLERIDGE

Fine aprile. Me ne sono scappato al mio rifugio agreste per un paio di giorni, che sto trascorrendo presso lo

stagno. Ho già riscoperto i miei martin-pescatori (ma uno solo - la compagna non c'è ancora). In questa bella mattinata

luminosa, giù al ruscello, è venuto fuori a un tratto a far baldoria descrivendo anelli, dandosi arie trillando a tutto

spiano. Mentre scrivo queste righe si dà buon tempo con svolazzi e cerchi sopra le parti più larghe dello stagno, contro

la cui superficie si tuffa, una, due volte, con un sonoro splaff - la schiuma che vola nel sole - bello! Si è degnato di

venirmi vicinissimo, e ne distinguo chiaramente il manto bianco e grigio-scuro, e la forma singolare. Nobile, grazioso

uccello! Ora sta appollaiato sul ramo di un vecchio albero, molto in alto, e si sporge sull'acqua - sembra che mi stia

osservando mentre prendo note. Mi sfiora l'idea che mi riconosca. Tre giorni dopo. Il mio secondo martin-pescatore è

qui, con il suo, o la sua, compagna. Ho visto i due insieme, volare in cerchi vorticosi. Avevo udito in distanza quel che

molte altre volte pensai fosse il distinto e stridulo staccato degli uccelli - ma non fui sicuro che le note venissero da loro

due finché non li vidi insieme. Oggi a mezzogiorno sono ricomparsi, ma apparentemente solo per faccende, o per fare

un po' di ginnastica, ma poco. Non più quei giuochi folli, pieni di libera gioia e movimento, su e giù per un'ora. Certo in

questo momento hanno preoccupazioni, doveri, responsabilità di covata. I giuochi sono rimandati alla fine dell'estate.

Non credo che potrei completare meglio l'appunto odierno che con questi versi di Coleridge, curiosamente

appropriati, e in più di un senso:.98

Tutta la natura sembra al lavoro - le chiocciole lasciano la tana, Si svegliano le api, - gli uccelli spiccano il

volo,

E l'inverno che sonnecchia nell'aria

Ha sul volto ridente un sogno di primavera;

E intanto io, unica cosa oziosa

Non ho miele né amore, né casa, né canto.

UNA SETTIMANA A BOSTON

1 maggio '81. È come se ormai in America tutti i sistemi e i mezzi di viaggio fossero stati messi a punto, non

solo per quanto riguarda la velocità e le comunicazioni dirette, ma per la comodità di donne, bambini, invalidi e

vecchioni come me. Sono venuto, senza cambiare, con un diretto che percorre quotidianamente la distanza tra

Washington e la metropoli Yankee. Basta montare su un vagone-letto a Filadelfia, appena fa buio, e dopo un'ora o due

passate a rimuginare, vi fate preparare il letto, se vi piace, tirate le tendine, e vi c'infilate - attraversate volando il Jersey

fino a New York - nel dormiveglia vi arriverà il suono smorzato di uno sbalzo, uno scossone o due - vi trasportano

nell'incoscienza da Jersey City con il battello di mezzanotte tutt'intorno alla Battery e sotto il gran ponte fino al binario

della linea di New Haven - qui riprendete il vostro volo verso est e la mattina dopo, di buon'ora, vi svegliate a Boston.

Tutte cose sperimentate di persona. Volevo andare alla Revere House. Un signore alto, che non conoscevo (mio

compagno di viaggio, diretto a Newport, avevamo chiacchierato un poco qualche momento prima), mi aiutò a

attraversare la folla della stazione, mi procurò una vettura, mi ci mise sopra con la mia valigia, e dicendo piano, con un

sorriso «Ora vorrei che lasciaste a me la corsa», pagò il fiaccheraio e prima che io potessi rimostrare, con un inchino

sparì.

Occasione della mia gita, suppongo sia meglio dirlo qui, era una lettura pubblica del saggio «Morte di Abramo

Lincoln», nel sedicesimo anniversario di quella tragedia: conferenza che ebbe luogo puntualmente la sera del 15 aprile.

Poi indugiai a Boston per una settimana - mi sentivo abbastanza bene (umore propizio, la malattia stazionaria) - girai

dappertutto, vidi tutto quel che c'era da vedere, specialmente gli esseri umani. L'immenso sviluppo materiale di Boston -

il commercio, la finanza, magazzini all'ingrosso, la pletora di merci, le strade e i marciapiedi gremiti di folla -

costituivano naturalmente il primo, sorprendente spettacolo. Durante il mio viaggio nel West, lo scorso anno, pensai che

senza dubbio l'insegna della futura prosperità sarebbe stata ben presto brandita da St. Louis o Chicago o dalla bella

Denver o magari da San Francisco; ma questa insegna la vedo ora piantata altrettanto risolutamente qui a Boston, e con

la stessa certezza di restarvi; prove di abbondanza di capitale - e invero non v'è altro centro del Nuovo Mondo che la

superi in questo (metà delle grandi ferrovie del West sono costruite con il denaro degli Yankee, che ne incassano i

dividendi). La vecchia Boston con le sue strade a zig-zag e una moltitudine di angoletti (stringete in pugno un foglio di

carta da lettere, lasciatelo cadere, spianatelo, e eccovi una mappa della vecchia Boston) - la nuova Boston con le sue

case grandi e costose, per miglia e miglia - Beacon Street, Commonwealth Avenue e un centinaio di altre. Ma il meglio,

nei nuovi orientamenti ed espansioni di Boston come di tutte le città della Nuova Inghilterra, è in altra direzione.

LA BOSTON DI OGGI

Nelle lettere (interessanti ma dubbie) che riceviamo dal Dr. Schliemann circa i suoi scavi laggiù nella remota

regione omerica, noto che le città, le rovine, etc., man mano ch'egli le tira fuori dalle loro sepolture, si mostrano

disposte a strati - cioè a dire che sulle fondamenta di un nucleo più antico, di solito assai profondo, esiste sempre

un'altra città, o altro blocco di rovine, e su questo, sovrimposto, un altro ancora - e talvolta anche più - ciascuno dei

quali rappresenta uno stadio di crescita o sviluppo, ora lento ora rapido, diverso sempre dal precedente, ma, senz'ombra

di dubbio, nato da quello e su di esso poggiato. Nell'ambito degli sviluppi morali, emotivi, eroici ed umani (il fulcro di

una razza, a mio avviso) qualcosa del genere deve essersi verificato qui a Boston. La metropoli del New England oggi

potrebbe descriversi come una città piena di sole (c'è qualche altra cosa che causa questo calore, più determinante dei

venti e delle condizioni metereologiche, benché queste non siano da disprezzarsi), gaia, accogliente, piena di ardore,

vivacità, con un certo languore, una magnanima tolleranza, ma non disposta a farsi menar pel naso; amante della buona

tavola e del bere, preziosa negli abiti quanto la sua borsa le permette; e ovunque, nella media delle case, delle strade e

della sua gente migliore, quell'inafferrabile qualcosa (ritenuto in genere il clima, ma non è così - è un che di indefinibile

nella razza, il pernio appunto del suo sviluppo) che da dietro il vortice di animazione, studi e affari emana una

disposizione generale alla felicità e alla gioia, ben distinta dalla disposizione saturnina all'indolenza. Mi fa pensare alle

immagini che ci arrivano (dai libri del Symonds per esempio) delle gaie città della Grecia antica. E infatti v'è parecchio

di ellenico a Boston, persino la gente sta diventando più bella - bene in carne, movimenti più sciolti, facce colorite. Non

ho mai visto (benché questo non sia "greco") tante belle donne dai capelli grigi. Durante la conferenza mi sono

sorpreso più di una volta a interrompermi per osservarle, tante, sparse ovunque nell'uditorio - facce sane di mogli e di.99

madri, straordinariamente attraenti e belle - tanto che credo che nessun'altra epoca o terra al di fuori della nostra

potrebbe esibirne di simili.

IL MIO TRIBUTO A QUATTRO POETI

16 aprile. Visita breve ma piacevole a Longfellow. Io non sono di quelli che vanno a cercar la gente a casa, ma

dacché l'autore di Evangeline, molto gentilmente, si era preso il disturbo di venirmi a trovare a Camden tre anni fa,

quando ero malato, ho sentito non solo l'impulso di rinnovare il piacere già provato in quella occasione, ma il dovere di

farlo. È stata l'unica personalità che io abbia cercato di vedere a Boston, e non dimenticherò facilmente quel suo viso

luminoso e il raggiante calore della sua cortesia, quelle maniere che si suol definire "di vecchia scuola".

E ora proprio qui sento l'impulso di interpolare qualcosa circa quei quattro grandi che hanno impresso su

questo primo secolo di America il marchio di nascita della letteratura poetica. Recentemente, in una rivista, uno dei miei

recensori - che dovrebbe informarsi meglio - ha parlato del mio «atteggiamento di spregio, disdegno e intolleranza»

verso i nostri maggiori poeti, - del mio «deriderli» e delle mie «prediche» sulla loro «inutilità». Se v'è nessuno che

desidera conoscere quel che penso - e che ho pensato e professato per lungo tempo - su di loro, sono più che disposto a

dirlo. Io non riesco a immaginare sorte migliore per l'iniziazione e l'avvio poetico di questi Stati di quella toccata loro

con Emerson, Longfellow, Bryant e Whittier. Per me, Emerson sta sicuramente in testa al gruppo, ma quanto alla

precedenza da assegnare agli altri sono in forse. Ognuno è illustre, ognuno completo, ognuno inconfondibile. Emerson

per la dolcezza, il sapore vitale della sua melodia, per le sue rime filosofiche e le sue poesie di una limpidezza d'ambra,

come il miele delle api selvatiche che egli ama cantare. Longfellow per la ricchezza del colore, le forme aggraziate e gli

episodi che narra - tutto ciò che rende bella la vita e raffinato l'amore - per cui egli può ben competere con i cantori

d'Europa sul loro stesso terreno, con un'opera che nel complesso appare altrettanto rifinita se non migliore delle loro

(con una sola eccezione). Bryant, che suscita le prime intime pulsazioni poetiche di un mondo possente - bardo del

fiume e del bosco, che sa evocare il sapore dell'aria aperta, con profumi come di campi di fieno, di uve e filari di betulle

- sempre sotterraneamente amante delle trenodie - l'inizio e la conclusione della sua lunga carriera contrassegnati da

canti di morte, tra cui, qua e là, poesie o brani di poesie ove vengono toccate le più alte verità, entusiasmi, doveri

universali - e una morale altrettanto perenne e cupa, se non ugualmente tempestosa e fatidica, di quella di Eschilo.

Mentre in Whittier, con quei suoi tempi particolari - la passione traboccante per l'eroismo e la guerra a dispetto del suo

quacquerismo, e quei versi simili a volte al passo cadenzato dei veterani di Cromwell - in Whittier vivono lo zelo e

l'energia morale che fondarono la Nuova Inghilterra - la splendida rettitudine e l'ardore di Lutero, Milton, George Fox -

non vorrei né oserei dire la loro caparbietà e ristrettezza - seppure certamente il mondo oggi ha bisogno, e ne avrà

sempre, proprio di questa ristrettezza e caparbietà.

I QUADRI DI MILLET. ALTRE NOTE RECENTI

18 aprile. Percorse tre o quattro miglia fino alla casa di Quincy Shaw, per vedere una collezione di quadri di J.

F. Millet. Due ore di rapimento. Mai dianzi ero stato penetrato così a fondo da questo tipo di espressione. Sono rimasto

per un lungo, lunghissimo tempo dinanzi al Seminatore. Credo sia quello che la gente del mestiere designa come Primo

Seminatore, poiché l'artista ne eseguì una seconda e poi una terza copia, secondo alcuni migliorando continuamente. Ma

io ne dubito. V'è in questo qualcosa che sarebbe assai difficile riprodurre - una sublime cupezza, e una genuina furia

rattenuta. Oltre a questo capolavoro ve n'erano molti altri (non dimenticherò mai la semplice scena vespertina de

L'abbeveratoio), tutti inimitabili, tutti perfetti come quadri, opere di pura arte; e in più, mi parve, con quell'estrema,

impalpabile finalità etica da parte dell'artista (molto probabilmente inconscia) che io cerco sempre. A me tutti questi

quadri narravano l'intera storia di quanto precedette e necessitò la grande rivoluzione francese - il soffocamento

protratto delle masse di un popolo eroico, ricacciate nella terra, in povertà abietta, nella fame - ogni diritto negato -

un'umanità che per generazioni si tentò di conculcare - e malgrado tutto la forza della Natura, titanica qui, resa più

violenta e audace dalla stessa repressione - terribile nell'attesa di erompere, pronta alla vendetta - la pressione sulle

dighe, e finalmente il crollo - l'assalto alla Bastiglia - l'esecuzione del re e della regina - l'uragano di massacri e di

sangue. Ma chi può meravigliarsene?

Potremmo augurarci l'umanità diversa?

Potremmo augurarci gente di legno o di pietra?

O che non vi sia giustizia nel destino o nel tempo?

La vera Francia, base di tutto il resto, si trova certamente in questi quadri. Comprendo in questa valutazione Il

riposo nei campi, Gli zappatori, L'Angelus. C'è gente che immagina sempre i francesi come una razza minuta, alta

cinque piedi o cinque e mezzo, e invariabilmente frivola e leziosa. Niente del genere. La gran massa della popolazione

francese, prima della rivoluzione, era di alta statura e, come adesso, industriosa e semplice. La rivoluzione e le guerre.100

napoleoniche abbassarono la statura media, ma si rialzerà. Se non per altro, dovrei comunque serbare il ricordo della

mia breve visita a Boston per avermi schiuso il mondo nuovo dei quadri di Millet. L'America avrà mai un simile artista,

cresciuto in lei, nato dal suo corpo e dalla sua anima?

Domenica 17 aprile. Un'ora e mezzo trascorsa oggi, nel tardo pomeriggio, in silenzio e penombra, nella grande

navata della Memorial Hall di Cambridge, le pareti fittamente ricoperte da piccole lapidi con il nome di studenti e

laureati di questa università caduti nella guerra di secessione.

23 aprile. Ho fatto bene a ritirarmi in buon ordine, poiché se fossi rimasto un'altra settimana sarei stato

soffocato di gentilezze, pranzi e bevute.

UCCELLI. UN AVVERTIMENTO

14 maggio. Di nuovo a casa; una scappata tra i boschi del Jersey. Tra le 8 e le 9 del mattino, concerto grosso

d'uccelli, da angoli diversi, in armonia con il fresco aroma, la pace e la naturalezza che mi circondano. Sto notando, in

questi ultimi tempi, il tordo rossiccio, grande come un pettirosso o forse un tantino meno, petto e dorso chiari, striati

irregolarmente di scuro - coda lunga - se ne sta appollaiato per ore, in questi giorni, ingobbito in cima a un grosso

cespuglio o a un grosso albero, cantando allegramente. Poiché sembra piuttosto domestico, mi avvicino spesso per

ascoltarlo; mi piace osservare i movimenti del becco e della gola, la strana inclinazione del corpo, il flettersi della lunga

coda. Odo il picchio, e alla sera e al mattino presto la musicale spola del caprimulgo - a mezzodì il gorgheggio delizioso

del tordo, e il mìu-u-u della dumetella. Di molti non conosco il nome; ma non vado particolarmente a caccia di

informazioni (non dovete mai saper troppo, né esser mai troppo precisi o scientifici con uccelli e alberi e fiori e barche -

un certo qual margine e persino vaghezza, magari ignoranza e superstizione, vi aiutano a godere di queste cose, e del

sentimento della Natura in generale, sia essa pennuta, boscosa, fluviale o marina. Non cercate, ripeto, di sapere con

troppa esattezza il perché e il percome. Le mie note sono state scritte estemporaneamente, nella spaziosità del New

Jersey centrale. Per quanto esse descrivano ciò che ho visto - ciò che ho avuto sotto gli occhi - sono sicuro che l'esperto

di ornitologia, il botanico o l'entomologo vi troveranno ben più di una svista).

DAL MIO TACCUINO DI CITAZIONI

Nel resoconto di questi giorni, interessi, momenti di ritrovata salute, non dovrei dimenticare di includere un

certo taccuino vecchio e consunto, con tutti i miei brani preferiti, che mi sono portato in tasca per tre anni e ho riletto e

assorbito ripetutamente, ogni volta che il mio stato d'animo mi ci portava. Predisposto da queste influenze naturali, da

questa salubre libertà, io lascio che una poesia o un bel suggerimento penetrino in me profondamente (anche un

nonnulla allora vuol dire molto):

Stralci dal mio taccuino di citazioni giù al ruscello:

Nella mia faretra - dice il vecchio Pindaro - ho molte frecce veloci, che parlano al saggio, ma che abbisognano

di un interprete per le teste vuote.

Un uomo che ci vogliono secoli a creare e secoli a comprendere. (H. D. Thereau)

Se odiate un uomo non uccidetelo, lasciate piuttosto che viva. (detto buddista)

Le spade famose son fatte di scheggiame di scarto ritenuto inservibile.

La poesia è l'unica verità - l'espressione di una mente solida che parla secondo l'ideale, e non le apparenze.

(Emerson)

Formula di giuramento presso gli Indiani Shoshone: «La terra mi ascolta. Il sole mi ascolta. Posso mentire?».

Prova suprema di una civiltà non è né il censo né l'ampiezza delle città o dei raccolti - bensì il tipo di uomo che

il paese esprime. (Emerson)

Il vasto etere non è che il volo di un'aquila,

Tutta la terra, la patria di un uomo coraggioso.

(Euripide).101

Le spezie tritate liberano il pungente aroma,

I profumi calpestati emanano le loro dolcezze

Vuoi che la loro forza sia tutta svelata?

Getta l'incenso nel fuoco.

Matthew Arnold parla de «l'immenso Mississippi della falsità chiamato Storia».

Il vento spira a nord, il vento spira a sud,

Il vento spira a ovest e ad est

Comunque spiri il libero vento

Per qualche nave sarà sempre il migliore.

Non andar predicando agli altri che cosa dovrebbero mangiare, mangia piuttosto come a te si conviene e taci.

(Epitteto )

Victor Hugo fa ragionare e parlare un asinello a questo modo:

Uomo, fratello mio, se vuoi sapere il vero,

Ambedue dalle stesse cieche mura siamo chiusi;

Massiccio è il cancello e la cella robusta.

Pure guarda dal buco della chiave, e di'

Che questa è conoscenza; ma non cercare

La chiave che apra il fatale lucchetto.

«William Cullen Bryant - scrive il critico di un giornale newyorkese - mi sorprese una volta dicendo che la

prosa è il linguaggio naturale del comporre, e che egli si chiedeva come potesse venire in mente a qualcuno di scrivere

poesia».

Addio! non conobbi il tuo merito;

Ma ora che non sei più qui, vieni stimato;

Così in terra viaggiarono ignoti gli angeli:

Volarono via, e furono riconosciuti.

(Hood)

John Burroughs, parlando di Thoreau, scrive: «Egli migliora con l'età; e infatti ci vuole l'età per togliergli un

poco della sua asprezza, e maturarlo completamente. Al mondo piace chi sa odiare e rifiutare quasi quanto chi sa amare

e accettare - solo che gli piace molto più tardi».

Louise Michel al funerale di Blanqui (1881):

Blanqui esercitò il proprio corpo a sottomettersi alla sua alta coscienza e alle sue nobili passioni, e sin da

giovane ruppe con tutto ciò che v'è di sibaritico nella civiltà moderna. Senza la forza di sacrificare l'io, le grandi idee

non daranno mai frutti.

Dall'alta fiamma della fornace

Balzò una massa d'argento fuso,

Che poi, temperato in tre pezzi,

Uscì ad affrontare il destino.

Dal primo fu tratto un crocefisso,

Finì nella bisaccia di un soldato;

Dal secondo un fine medaglione

Per le ciocche di un figlio perduto;

Dal terzo, un bracciale caldo e lucente

Per il braccio di una donna infedele.

Pena possente è quella d'amore,

Ed è dolore quel dolor lasciare;

Ma di tutti il più grande dolore

È quello di amare senza amore.

Maurice F. Egan su De Guérin:.102

Ebbe cuor di pagano ma anima cristiana

Seguiva Cristo e sospirava per Pan,

Finché cielo e terra non si fusero in lui:

Come se Teocrito in Sicilia

Imbattendosi nella Figura crocefissa

Avesse perso i suoi dèi nella pace profonda di Cristo.

E se prego, la sola preghiera

Che muove per me le mie labbra

È, lasciami se vuoi questa mente,

E dammi la libertà.

(Emily Brontè)

Viaggio sul non-conoscere,

Lo eviterei se potessi;

Preferirei camminare nel buio con Dio,

Che andare da solo nella luce;

Preferirei camminare per fede con Lui

Che scegliere con i miei occhi la via.

Da una recente conferenza del Prof. Huxley:

Personalmente, condivido il sentimento di Thomas Hobbes di Malmesbury, che «scopo di ogni speculazione è

una azione o cosa da compiersi». Non ho infatti né grande rispetto né particolare interesse per il «conoscere» in sé.

Principe di Metternich:

Napoleone era l'uomo al mondo che più profondamente disprezzava la razza. Aveva una mirabile intuizione

dei lati più deboli della natura umana (e tutte le nostre passioni non sono che debolezze o cause di debolezze). Era un

piccolo uomo con un carattere straordinario. Era ignorante quanto può esserlo un sottotenente: ma un notevolissimo

istinto suppliva alla deficienza di cultura. A causa della sua scarsa opinione degli uomini, non conosceva altra paura che

quella di mettere un piede in fallo. Rischiò tutto, e fece quindi passi immensi verso il successo. Gettandosi in un agone

prodigioso, riuscì a stupire il mondo e a farsene padrone, quando gli altri in genere non arrivano nemmeno a

padroneggiare il proprio cuore. Poi volle andare sempre più in là; finché non si ruppe il collo.

DI NUOVO LA SABBIA E IL SALE DEI LUOGHI NATII.

25 luglio '81. Punta Rochaway, Long Island. Bella giornata passata in gita quaggiù tra la sabbia e il mare, con

una brezza costante dall'oceano, il sole, l'odore di carici, lo scroscio dei cavalloni, un misto di rombi e di sibili, ricciute

creste lattiginose. Ho fatto un bagno delizioso, ho passeggiato nudo come ai bei tempi sulle sabbie grige e tiepide della

riva - i miei compagni fuori in barca, dove l'acqua è più fonda - (e io a gridar loro gli anatemi di Giove contro gli dèi,

dall'Omero di Pope).

28 luglio. A Long Branch. 8,30 del mattino, a bordo del Plymouth Rock, di fronte alla 23ma, New York, in

partenza per Long Branch. Un'altra bella giornata, bei panorami, le coste, le imbarcazioni, la baia - tutto è ristoro per il

mio corpo, lo spirito mio (io trovo l'atmosfera umana e oggettiva di New York City e di Brooklyn più affine a me di

qualsiasi altra). Un'ora dopo. Sempre sul vapore, ora si gusta bene l'odore della salsedine - il lungo e pulsante scroscio

dell'acqua come il battello si muove verso il mare - le alture di Navesink e i molti vascelli che passano - ma l'aria è la

cosa più bella. Trascorsa a Long Branch la più gran parte del giorno, sceso a un buon albergo, preso tutto con comodo -

fatto un pranzo eccellente e quindi un giro di più di due ore per la località, specialmente Ocean Avenue, la più bella

corsa che si possa immaginare, sette o otto miglia tutte lungo le spiaggie. In ogni direzione ville costose, palazzi,

milionari (ma, tra questi ultimi, pochi che io stimi paragonabili al mio amico George W. Childs, la cui integrità e

generosità e genuina semplicità di carattere sono al di sopra di qualsiasi ricchezza mondana).

NEW YORK SOTTO LA CANICOLA.103

Agosto. Per un poco nella grande città. Anche nel cuore della canicola c'è sempre di che divertirsi a New York,

se solo non perdete la testa e sapete prendere tutta la sana allegria ch'essa vi offre. E non ci si sta peggio di quel che

pensi molta gente. Un uomo di mezza età, con molto denaro in tasca, mi racconta di aver passato un mese in tutte le

località alla moda e di avervi sperperato una piccola fortuna, soffocando tuttavia dal caldo e sentendosi ovunque a

disagio, finché se n'è tornato a casa, a New York, e vi ha passato queste due settimane ben contento e di buon umore. La

gente dimentica che se qui fa caldo, altrove fa ancora più caldo. New York ha una tale posizione tra quei due fantastici

bracci di mare ricchi di ozono, da offrirvi anche le condizioni più favorevoli del mondo per la salute (se solo si potesse

dimezzare il sovraffollamento di certi suoi caseggiati). Scopro ora di non aver mai apprezzato a sufficienza la bellezza

dei due terzi superiori dell'isola di Manhattan. Sono alloggiato a Mott Haven, e in questi dieci giorni ho acquistato una

certa familiarità con la zona sopra la Centesima strada, e lungo il fiume Harlem e Washington Heights. Rimarrò per

alcuni giorni con i miei amici, il signore e la signora J.H.J., e la loro festosa brigata di ragazze. Sto dando gli ultimi

ritocchi alla nuova edizione di Foglie d'Erba - il libro definitivo finalmente. Vi lavoro per due o tre ore, poi vado a

oziare sulle rive del fiume Harlem; proprio ora mi sono concesso una lunga ricreazione di questo tipo. Il sole velato

quanto basta, una molle brezza da sud, il fiume rigurgitante di schifi grandi e piccoli (canotti leggerissimi) che

sfrecciano su e giù, taluni con un solo uomo, e a tratti uno più lungo con sei o otto giovani che fanno pratica - visioni

elettrizzanti. Al largo sono ancorati due bei panfili. Mi attardo a godermi il tramonto, il riverbero della luce, il cielo

striato, alture, distanze, ombre.

10 ag. Gironzolando con varie soste per un'ora o due questo pomeriggio pei tratti più appartati della riva, o

seduto a mezzavia del colle sotto un vecchio cedro, col centro della città bene in vista, vedo radunarsi parecchie

comitive di giovani, gruppetti in genere di due o tre ragazzi, qualcuno più numeroso, che vanno a bagnarsi o a nuotare

lungo la battigia, o da un vecchio molo qui vicino. Uno strano e simpatico carnevale - che arriva a riunire un centinaio

di ragazzetti e di giovani, dal comportamento assai democratico ma sempre composto. Le risate, le voci, chi chiama e

chi risponde - il balzo e quindi il tuffo dei bagnanti dalla lunga impalcatura del molo abbandonato, dov'essi si

arrampicano e restano ritti in lunghe file, nudi e rosati, con movimenti e pose che eccellono qualsiasi scultura.

Aggiungete a tutto questo il sole, così fulgido, l'ombra verde-cupo delle colline dall'altro lato, l'ambrato rollio delle

onde, che al sopraggiungere della marea trascolorano in una trasparenza di tè - i tonfi frequenti dei ragazzi che

scherzano tra loro, allegri - le gocce scintillanti degli spruzzi e la bella brezza che spira da ovest.

«L ULTIMA CARICA DI CUSTER»

Sono stato oggi a vedere questo quadro, appena terminato, di John Mulvany, che si è recato sul luogo nel

lontano Dakota, tra i forti e la gente di frontiera, soldati e indiani, e vi è rimasto questi ultimi due anni, con l'intenzione

di ritrarre la realtà o per lo meno quanto gli riusciva di cogliere. Rimasi per più di un'ora seduto dinanzi al quadro,

completamente assorbito dalla visione d'insieme. Una gran tela, direi venti o ventidue piedi per dodici, gremitissima ma

non confusa, e animata da un tale fervido giuoco di colori che vi ci vuole un poco per abituarvici. Non vi sono artifizi;

non pesanti giuochi di ombre; tutto, a prima vista, vi è penosamente reale, da schiacciarvi; v'occorrono nervi buoni per

osservarla. Quaranta o cinquanta figure, forse più, perfettamente finite in ogni dettaglio, al centro; e un numero tre volte

più grande, se non più, in tutto il resto - torme di Sioux selvaggi coi loro copricapi di guerra, frenetici, i più montati su

pony, che passano a sciami come un uragano di dèmoni nello sfondo, tra il fumo. Vi sono una dozzina di figure

meravigliose. Decisamente una fase autoctona e western dell'America, quella delle frontiere - colta al suo culmine,

tipica, mortale, straordinariamente eroica - niente di simile nei libri, non in Omero, non in Shakspere; più fosca e

sublime di ambedue, tutta originale e nostra, e tutta dato di fatto. Un numero enorme di giovani muscolosi e abbronzati

che circostanze terribili hanno ridotto agli estremi - la morte aleggia su di loro e tuttavia non uno che mostri timore o

perda la testa, ognuno spreme la sua paga fino all'ultimo centesimo prima di vendere la vita. Custer (i capelli tagliati

corti) sta ritto al centro, il braccio teso e gli occhi dilatati, impugnando una pesante pistola da cavalleggere. C'è anche il

capitano Cook, parzialmente ferito, sangue sul fazzoletto bianco che gli fascia la testa, che punta freddamente la

carabina, ginocchio a terra (il suo corpo fu poi trovato accanto a quello di Custer). I cavalli uccisi o semivivi che

servono da trincea danno un tocco particolare alla scena. In primo piano giacciono i corpi di due erculei indiani, che

stringono ancora i loro Winchester, molto caratteristici. Tutti quei soldati, i loro visi e atteggiamenti, le carabine, i tipici

cappelli del West con le larghe tese, i nugoli di fumo delle armi da fuoco, i cavalli morenti che nell'agonia roteano occhi

quasi umani, le torme di Sioux sullo sfondo coi copricapo di guerra, le figure di Custer e Cook - e invero tutta la scena,

terribile, ma con una sua bellezza, un suo fascino che si imprimono nella memoria. Nonostante il forte colore e la

crudezza dell'azione, una sobrietà greca sembra pervaderla. Un cielo luminoso e una limpida luce avvolgono ogni cosa.

Mancano quasi completamente i tratti tradizionali dei quadri di guerra europei. La fisionomia dell'opera è realistica e

western. Io l'ho osservata soltanto per circa un'ora - ma bisognerebbe vederla molte volte, studiarla e ristudiarla. Potrei

guardare un'opera simile a piccoli intervalli per tutta la vita, senza mai stancarmi; per me è un vero tonico; e sottintende

poi quel proposito etico che tutta la grande arte deve avere. L'artista mi diceva che si era parlato di mandare l'opera

all'estero, forse a Londra. Io gli consigliai, se doveva farlo, di portarla a Parigi; penso che lì saprebbero forse.104

apprezzarla, anzi ne sono certo. E poi mi piacerebbe mostrare a Messieur Crapeau che anche in America si sanno fare

certe cose.

VECCHIE CONOSCENZE RICORDI

16 ag. «Segna questo giorno con un gesso bianco», soleva dire un mio vecchio amico cacciatore quando la

fortuna era stata insolitamente buona con lui, e tornava a casa stanco morto ma con un bel paniere colmo di pesci e

uccelli. Ebbene, la mia giornata, oggi, giustificherebbe un segno del genere. Tutto propizio fin dal primo momento.

Un'ora di fresca eccitazione, percorrendo dieci miglia sull'isola di Manhattan prima in ferrovia e poi con l'omnibus delle

8. Poi, ottima colazione al ristorante Pfaff, 24ma strada. Il padron di casa in persona, mio vecchio amico, comparve

immediatamente sulla scena a darmi il benvenuto insieme alle ultime notizie e, non senza aver prima sturato una

panciuta bottiglia del miglior vino della sua cantina, a chiacchierare dei bei tempi di prima della guerra, tra il '59 e il '60,

e delle allegre cene nel suo locale, allora a Broadway presso Bleecker Street. Ah gli amici, e i bei nomi, e gli habitués,

quei tempi, quel luogo! I più sono morti - Ada Clare, Wilkins, Daisy Sheppard, O'Brien, Henry Clapp, Stanley, Mullin,

Wood, Brougham Arnold - andati, tutti. Eccoci dunque Pfaff e io al tavolino, uno di fronte all'altro, a commemorarli in

uno stile che avrebbe avuto la loro completa approvazione, e precisamente con gran bicchieri di champagne pieni fino

all'orlo, traboccanti, centellinati lentissimamente, in astratto silenzio, fino all'ultima goccia. (Pfaff è un generoso

restaurateur tedesco, silenzioso, massiccio, gioviale e, direi, il miglior conoscitore di champagne d'America).

UNA SCOPERTA DELLA VECCHIAIA

Il meglio, forse, è sempre cumulativo. Il mangiare e il bere uno li vuole freschi per l'occasione, e subito, da non

pensarci più - ma io non darei un centesimo per quella persona, o poesia, per quell'amico o città, o opera d'arte che non

risultasse più gradita la seconda volta della prima - e più ancora la terza. Anzi, io credo che nessuna delle qualità più

grandi si riveli mai a prima vista. Nella mia esperienza personale (di persone, poesie, luoghi, caratteri) è molto raro che

il meglio mi si discopra subito (non v'è norma assoluta peraltro) - talora erompe improvvisamente, talaltra mi si

dischiude in modo furtivo, magari dopo anni di involontaria familiarità e di acritica consuetudine.

UNA VISITA, INFINE, AR.W. EMERSON

Concord, Mass. Sono qui in visita - tempo elastico, dolce, da estate di San Martino. Arrivato oggi da Boston

(un piacevole viaggio di 40 minuti in treno, attraverso Somerville, Belmont, Waltham, Stony Brook, e altre cittadine

vivaci), scortato dal mio amico F.B. Sanborn fino alla sua ampia casa, e qui accolto dalla gentilezza e ospitalità della

signora S. e della loro bella famiglia. Sto scrivendo all'ombra di alcuni vecchi noci e olmi' poco dopo le quattro del

pomeriggio, sul portico di casa, a un tiro di pietra dal fiume Concord. Di fronte a me, dall'altra parte del fiume, su un

campo e sul fianco di una collina, uomini che raccolgono e abbarcano fieno, probabilmente la seconda o terza

fienagione. La distesa color verde smeraldo e bruciato, i poggi, quei venti o quaranta piccoli covoni che punteggiano il

terreno, i carri stipati, i cavalli pazienti, l'azione lenta e forte degli uomini coi loro forconi - tutto questo nel meriggio

che si va spegnendo tra chiazze gialle di sole screziate da lunghe ombre - lo strido acuto del grillo, araldo del crepuscolo

- una barca con due figure che scivola senza rumore sul fiumicello e passa sotto l'arco del ponte di pietra - il velo

d'umidità dell'aria che si abbassa lieve, il cielo e il senso di pace che s'espandono in ogni direzione e sopra di me - tutto

ciò mi pervade e conforta.

Stessa sera. Una fortuna migliore non mi era mai toccata; una lunga e felice serata in compagnia di Emerson, e

in un modo che non avrei potuto augurarmi migliore o diverso. Per circa due ore egli è rimasto tranquillamente seduto,

accanto a me, dove potevo osservarne il viso nella luce migliore. Il salottino della signora S. era pieno di gente del

vicinato, molti visi freschi e attraenti, donne, per lo più giovani, ma anche anziane. Il mio amico A.B. Alcott e sua figlia

Louisa erano arrivati per tempo. Un gran conversare - tema, Henry Thoreau - nuovi spiragli sulla sua vita e le sue

vicende, lettere sue e dirette a lui - una delle più belle da Margaret Fuller, altre da Horace Greeley, Channing, etc. - e

una dello stesso Thoreau, quanto mai strana e interessante. (Io senza dubbio devo esser sembrato ben balordo alla

compagnia che assiepava la stanza, dal momento che non presi pressocché parte alla conversazione; ma, come dice il

proverbio svizzero, avevo «la mia mucca da mungere»). Il posto in cui sedevo e la mia posizione rispetto agli altri erano

tali che, senza essere offensivo o alcunché del genere, potevo guardare direttamente in viso Emerson, il che feci per

buona parte di quelle due ore. Entrando, egli si era rivolto con parole brevi e compite a varie persone della compagnia,

ma poi si era sistemato nella sua poltrona, tirata un tantino indietro, e per quanto sembrasse ascoltare, e con interesse,

rimase in silenzio per tutta la conversazione e la discussione. Un'amica andò a sederglisi accanto, semplicemente, in.105

segno di speciale attenzione. Egli aveva un bel colore in viso, gli occhi limpidi, e quella sua ben nota espressione di

dolcezza e, immutato, l'antico sguardo penetrante.

L'indomani. Parecchie ore a casa di Emerson, e pranzo con lui. Vecchia dimora familiare (vi abita da

trentacinque anni) di cui la posizione, l'arredamento, la spaziosità, l'abbondanza unita ad una eleganza spoglia,

suggeriscono un benessere democratico, una moderata opulenza e un'ammirevole semplicità d'altri tempi - il lusso

moderno, con la sontuosità e l'affettazione che lo caratterizzano, vi è appena accennato, se non ignorato del tutto.

Parimenti il pranzo. Naturalmente il meglio della giornata (domenica 18 settembre '81) è stato osservare Emerson in

persona. Come già notato, le guance di un colorito sano, una bella luce negli occhi, un'espressione cordiale, e quel tanto

di conversazione che meglio si conveniva, vale a dire non più di una parola o una breve frase quando era indispensabile,

e quasi sempre accompagnata da un sorriso. Oltre a Emerson, la signora Emerson con la figlia Ellen, il figlio Edward

con la moglie, i miei amici F.S. e la signora S., e altri, parenti o intimi. La signora Emerson, riprendendo il tema della

sera precedente (io ero seduto accanto a lei) mi fornì ulteriori e più ricche informazioni su Thoreau, il quale, durante il

viaggio di Emerson in Europa, aveva vissuto per qualche tempo con la famiglia, dietro loro invito.

POSTILLE DA CONCORD

Sebbene la serata dai Sanborn e il memorabile pranzo di famiglia dagli Emerson mi abbiano piacevolmente - e

indelebilmente - occupato la memoria, non voglio tralasciare altre impressioni di concord. Mi recai al Vecchio

Presbiterio, attraversai l'antico giardino e penetrai nelle stanze, notando la strana atmosfera, l'erba e i cespugli mal

tenuti, i piccoli vetri alle finestre, i soffitti bassi, l'odore aspro, i rampicanti che ingraticciavano la luce. Mi recai al

campo di battaglia di Concord, che si trova lì vicino, osservai la statua di French, il Minuteman, lessi la poetica epigrafe

di Emerson alla base, m'attardai sul ponte, sostai infine presso la tomba degli ignoti soldati inglesi sepolti qui il giorno

dopo la battaglia dell'aprile '75. Poi, continuando l'escursione (grazie alla mia amica Miss M. e ai suoi focosi pony

bianchi, che ella stessa guidava), una mezz'ora alla tomba di Hawthorne e di Thoreau. Scesi dal calesse proseguendo

naturalmente a piedi, e sostai a lungo a meditare. Riposano uno accanto all'altro in un angolo piacevole e boscoso della

collina del cimitero, la Valletta del sonno. La superficie piatta della tomba del primo era fittamente rivestita di mirti,

con una siepe di tuia; l'altra aveva una pietra scurita, poco elaborata, con iscrizioni. A fianco di Henry Thoreau giace

suo fratello John, in cui sembravano riposte molte speranze, ma che morì giovane. Proseguimmo quindi per lo stagno di

Walden, quello specchio d'acqua splendidamente incastonato nel verde, dove trascorsi più di un'ora. Nello spazio tra i

boschi dove Thoreau aveva la sua dimora solitaria c'è adesso, a contrassegno, un grosso tumulo di pietre; ne volli

portare una anch'io, e deporla sul mucchio. Sulla via del ritorno vidi la Scuola di filosofia, ma era chiusa, e certo non

l'avrei fatta aprire solo per me. Non lontano, mi fermai alla casa di W.T. Harris, l'hegeliano, che uscì di casa e si

trattenne piacevolmente a chiacchierare con me che ero rimasto seduto in carrozza. Non dimenticherò facilmente questi

giri per Concord, e soprattutto quell'incantevole mattinata domenicale con la mia amica Miss M. e i suoi pony bianchi.

IL PARCO DI BOSTON. ANCORA EMERSON

10-13 ott. Passo buona parte del mio tempo nel Parco, in queste giornate e sere deliziose - ogni mattina dalle

11,30 fino all'1 circa - e quasi sempre un'altra ora al tramonto. Conosco ormai tutti i grandi alberi, specialmente i vecchi

olmi lungo Tremont e Beacon Street; sono arrivato anzi, con la maggior parte di loro, a una comprensione socievole e

silenziosa, mentre passeggio nell'aria piena di sole (ma abbastanza fresca e frizzante) per i grandi viali non asfaltati.

Proprio tra questi vecchi olmi, su e giù per questo medesimo tratto nei pressi di Beacon Street, un luminoso e pungente

meriggio di febbraio di ventun anni fa, ho passeggiato per due ore in compagnia di Emerson, allora nel fiore degli anni,

vivo, dotato di magnetismo fisico e morale, agguerrito in tutto, e capace di controllare a suo piacimento le emozioni

come l'intelletto. Per tutte quelle due ore, egli parlò e io ascoltai. Fu una disamina, un passare in rassegna, una rivista,

un attacco e inseguimento (come un reggimento ben schierato, artiglieria, cavalleria, fanteria) di tutto quanto potrebbe

dirsi contro quella parte (peraltro fondamentale) della costruzione della mia poesia rappresentata da Figli d'Adamo. Più

preziosa dell'oro, per me, quella dissertazione - da cui scaturì, e per sempre, questa lezione strana, paradossale: ogni

punto della diatriba di Emerson era inconfutabile, mai requisitoria di giudice fu più completa e convincente, o i singoli

capi meglio esposti - ma poi, nel fondo dell'anima, io sentii chiara e inequivocabile la convinzione che avrei dovuto

disobbedire a tutto e seguitare per la mia strada. «Allora? - disse Emerson alla fine, fermandosi - che avete da

rispondere a tutte queste cose?». «Solo che - fu la mia franca risposta - mentre non saprei come controbattere, mi sento

più che mai deciso a aderire alla mia teoria, e a esemplificarla». Dopo di che ci recammo alla «American House» dove

facemmo un buon pranzo. E da allora non titubai più né fui mai sfiorato da scrupoli (come invece, devo confessare, era

accaduto prima due o tre volte).

UNA NOTTE OSSIANICA. GLI AMICI MIGLIORI.106

Nov. '81. Di nuovo a Camden. Attraversando stanotte il Delaware in lunghe tappe, tra le 9 e le 11, lo scenario

in alto è assai singolare - cortine di vapori, come di garza, volano via veloci, incalzate da nuvole pesanti che gettano una

coltre d'inchiostro sulle cose. Poi uno squarcio di cielo, di quella trasparenza tra il nero e il grigio-acciaio che ho già

notato in simili circostanze, e contro il quale la luna raggia per pochi istanti in calmo fulgore, proiettando giù sulle

acque una larga strada barbagliante di luce; poi di nuovo le masse di vapori in corsa - in assoluto silenzio, ma

galoppando come sospinti dalle furie, ora sottili, ora più densi - veramente una notte ossianica - e nel mezzo del turbine,

per una qualche tenera suggestione, ecco gli amici assenti o morti, del tempo antico, del passato - mentre dalle nebbie si

spandono le note dei canti gaelici («Benedetto il tuo spirito, o Carril, nel cuore dei tuoi vènti vorticosi! O potessi venire

nella mia casa quando sono solo, la notte! Ma tu veramente vieni, amico mio. Tante volte sento la tua mano leggera

sulla mia arpa appesa al muro laggiù, l'orecchio ne coglie il flebile suono. Perché non mi parli nell'ora del dolore, e non

mi dici quando potrò vedere i miei amici? Ma tu passi, svanisci tra il brontolio delle raffiche: il vento fischia nei capelli

grigi di Ossian»),

Ma più che altro sono quei subiti mutamenti di luna, quelle cortine di vapori in corsa e di nuvole nere, con

quell'azione rapida nel soprannaturale silenzio, a richiamare alla mente l'antichissima credenza irlandese che fenomeni

siffatti fossero i preparativi per accogliere gli spiriti dei guerrieri appena caduti («Eravamo quella notte a Selma, intorno

alla forza della conchiglia. Il vento si sentiva fuori tra le querce. Lo spirito della montagna ruggiva. Il soffio del vento

venne frusciando per la sala, sfiorò piano la mia arpa. Era un suono funebre e fioco, come la canzone della tomba.

Fingal fu il primo a udirlo. Dal suo petto s'alzarono affollati sospiri. Alcuni dei miei eroi sono tristi, disse il grigio re di

Morven. Sull'arpa sento suono di morte. Ossian, tocca la tremula corda. Fa che si parta il dolore, sì che i loro spiriti

possano volare con gioia alle boscose colline di Morven. Toccai l'arpa al cospetto del re; il suono era funebre e fioco.

Sporgetevi dalle vostre nubi, dissi, spettri dei miei padri! piegatevi. Abbandonate il rosso terrore della vostra condotta.

Ricevete il condottiero che cade, sia che venga da terra lontana o sorga dal mare ondoso. Si prepari il suo abito di

nebbia, la sua lancia fatta di nuvola. Ponetegli al fianco una meteora semispenta, nella forma della spada dell'eroe. E,

oh! sia dolce il suo aspetto, che gli amici si possano deliziare della sua presenza. Sporgetevi dalle vostre nubi, dissi,

spettri dei miei padri, piegatevi. Tale fu il mio canto a Selma, al tremulo suono leggero dell'arpa»).

Non so come né perché proprio adesso, ma anch'io vado sognando e pensando ai miei amici migliori nelle loro

case lontane - William O'Connor, Maurice Bucke, John Burroughs, la signora Gilchrist - amici dell'anima mia - amici

fedeli dell'altra mia anima, la mia poesia.

SOLO UN NUOVO FERRY

12 genn. '82. Uno spettacolo come quello che il Delaware presentava iersera un'ora prima del tramonto, nel

lungo tratto tra Filadelfia e Camden, merita l'inserimento di uno speciale paragrafo. Era alta marea, con una dolce

brezza da sud-ovest, l'acqua d'un color fulvo pallido, e quel tanto di movimento che bastava a rendere le cose gaie e

vivaci. A questo aggiungete l'approssimarsi di un tramonto di inusitato splendore, un vasto tumulto di nubi tra molti

vapori dorati e una profusione di raggi e bagliori accecanti. Nel mezzo di tutto ciò, nel luminoso pallore della luce

pomeridiana, ecco venire sul fiume il nuovo grande battello, il Wenonah, un oggetto quanto mai grazioso a guardarsi,

mentre sfiora la corrente leggero e veloce, tutto bianco e lindo, ricoperto di bandiere trasparenti rosse e blu che volano

nella brezza. Solo un nuovo ferry, e tuttavia paragonabile, nella sua perfezione, ai piú aggraziati prodotti della sapiente

Natura, e capace di competere con essi. Alti nell'etere trasparente, quattro o cinque immensi falchi marini si libravano

con grazia o descrivevano cerchi, mentre quaggiù, tra lo sfarzo pittoresco del cielo e del fiume, nuotava questa creatura

artificiale di bellezza, movimento e potenza, a suo modo non meno perfetta.

MORTE DI LONGFELLOW

Camden, 3 aprile '82. Sono appena tornato da una escursione in un'antica foresta dove amo di tanto in tanto

rifugiarmi, lontano da salotti, strade asfaltate, giornali e riviste - e dove un limpido mattino, nel fitto dell'ombra di pini e

cedri e grovigli di antichi allori e viti selvatiche, mi colse di sorpresa la notizia della morte di Longfellow. In mancanza

di meglio, lasciate che io intrecci delicatamente un virgulto della dolce edera che si snoda così copiosa qui tra le foglie

morte ai miei piedi, con i pensieri di quella mezz'ora trascorsa là in solitudine e silenzio, e la deponga come mio tributo

sulla tomba del bardo morto.

Sembra a me che Longfellow, nella sua voluminosa opera, non solo eccella per lo stile e le forme di

espressione poetica che contrassegnano l'età attuale (una idiosincrasia, quasi una malattia di melodia verbale), ma che

offra quanto in poesia v'è di più caro al cuore e al gusto degli uomini in genere (e dovrebbe esserlo, nell'ordine naturale

delle cose). Egli è certamente il tipo di bardo e di antidoto più necessario a queste nostre razze anglo-sassoni,.107

materialistiche, prepotenti, adoratrici del danaro - e soprattutto all'epoca attuale, in America - un'epoca tirannicamente

regolata sulle esigenze dell'industriale, il mercante, il finanziere, il politico e l'operaio a giornata - per i quali e tra i quali

egli giunge come il poeta della melodia, della cortesia e del rispetto - poeta del dorato crepuscolo del passato, in Italia,

Germania, Spagna e Nord Europa - poeta di ogni umana gentilezza - e poeta universale delle donne e dei giovani.

Dovrei certo pensare a lungo prima di rispondere se mi venisse chiesto di indicare l'uomo che ha fatto di più, e in più

valide direzioni, per l'America.

Dubito che sia mai esistito giudice o conoscitore di poesia più fine e intuitivo. Di molte delle sue traduzioni dal

tedesco o dallo scandinavo si dice che siano migliori degli originali. Egli non stimola né sferza. L'effetto che viene da

lui è simile a un buon bicchiere, o a una bella boccata d'aria. Non per questo è tiepido, anzi sempre vitale, e ha un

sapore suo, e movimento e grazia. Si muove a uno splendido livello medio: non canta passioni eccezionali, né le

contorte avventure dell'umanità. Non è un rivoluzionario, non vi porta niente di offensivo o di nuovo, non mena colpi

forti. Al contrario, i suoi canti guariscono e placano, e se eccitano, si tratta di una eccitazione salutare e piacevole.

Perfino la sua ira è gentile, di seconda mano (in The Quadroon Girl per esempio, e in The Witnesses).

Nei canti di Longfellow l'elemento della pensosità non è mai superfluo. Persino nella sua traduzione giovanile,

il Manrique, il movimento è quello di un vento, o marea, robusto e costante, che anima e sostiene. Non che tra i suoi

molti temi venga evitata la morte; ma v'è sempre un che di trionfante, quasi, in quei suoi versi e modi originali di

trattare il pauroso argomento - come nella chiusa alla disputa di The Happiest Land:

Allora la figlia del padrone

Al cielo alzò la mano

Dicendo: «Non disputate più,

Là è la terra più felice».

Alla poco cortese accusa, o lagnanza, che manchi in lui sia ogni genuinità autoctona come ogni specifica

originalità, risponderò solo che l'America e il mondo possono ben dirsi reverentemente grati - e mai forse abbastanza -

per questo uccello canoro elargitoci dai secoli, senza chiedere che le sue note siano diverse da quelle degli altri cantori;

aggiungendo a ciò quel che ho sentito dire dallo stesso Longfellow, e cioè che prima che il Nuovo Mondo abbia una sua

degna originalità e possa proclamare se stesso e i suoi eroi, dovrà saturarsi a fondo di originalità altrui, e imparare a

considerare con rispetto gli eroi vissuti prima di Agamennone.

ATTIVITÀ GIORNALISTICA

Reminiscenze (dal «Camden Courier»). Ero seduto a bordo del grosso ferry Beverly una o due sere fa, durante

la mia solita traversata serotina del Delaware, quando fui avvicinato da due giovani reporter miei amici. «Ho un

messaggio per voi, - disse uno - quelli del C. mi hanno incaricato di dirvi che gradirebbero un pezzo con la vostra firma

per il primo numero. Potreste far questo per loro?». «Mi sa di sì», dissi; «e su che potrebbe essere?». «Mah, qualsiasi

cosa sui giornali, magari su quel che avete fatto voi stesso, quelli che avete fondato voi». E se ne andarono, perché

avevamo toccato la costa di Filadelfia. L'ora era bella e dolce, con una lucente mezzaluna; Venere che tramontava a

ovest in un eccesso di fulgore, e il grande Scorpione spiegato per più di metà della sua lunghezza a sud-est. La

traversata continuò tranquilla per un'ora nella bella scena notturna, mentre le parole dei miei giovani amici

risvegliavano una lunga catena di reminiscenze.

Cominciai quando non ero che un ragazzino di undici o dodici anni, scrivendo pezzetti sentimentali per il

vecchio Long Island Patriot di Brooklyn; questo accadeva pressappoco nel 1832. Subito dopo mi pubblicarono uno o

due articoletti nell'allora decantato e alla moda Mirror di New York City. Ricordo con quale malcelata eccitazione

aspettavo ogni giorno il grosso, grasso, rosso, lento e vecchissimo fattorino inglese che distribuiva il Mirror a Brooklyn,

finché, avutone uno, lo sfogliavo e tagliavo le pagine con le dita tremanti; e con che ritmo raddoppiato mi battesse il

cuore a vedere il mio pezzo sulla bella carta bianca, in caratteri nitidi.

Ma la mia prima vera impresa fu il Long Islander, a Huntington, la mia bella cittadina natale, nel 1839. Avevo

allora circa venti anni. Per due o tre anni avevo insegnato in scuole di campagna in varie parti della contea di Suffolk e

Queens, ma quel che mi piaceva era la stampa; ci avevo lavorato un poco da ragazzo, appresa l'arte del compositore, e

mi sentivo incoraggiato a iniziare un giornale nella regione dove ero nato. Andai a New York, comprai pressa e arnesi,

pagai un assistente ma finii per fare quasi tutto il lavoro da solo, compresa la stampa. Tutto sembrava andare per il

meglio (fu solo la mia irrequietezza a impedire di costituirmi poco a poco una proprietà duratura). Comperai un buon

cavallo, e ogni settimana facevo il giro della regione distribuendo il mio giornale, dedicando a questo compito un giorno

e una notte. Non ho mai fatto gite più felici - scendere dalla parte meridionale, a Babylon, seguire la strada sud fino a

Smithtown e Comac, poi via a casa. L'esperienza di quei giri, quei campagnoli con le loro mogli, così cari e all'antica, le

soste lungo i campi di fieno, l'ospitalità, i bei pranzi, una seratina ogni tanto, le ragazze, le corse per la brughiera, tutto

ciò ha continuato a tornarmi alla memoria fino a oggi.

Fui poi all'Aurora il quotidiano di New York City - una sorta di «collaboratore indipendente». Scrivevo anche

regolarmente per il Tattler, un giornale della sera. Lavorai più o meno regolarmente a questi, con qualche lavoretto.108

esterno, finché non cominciai a dirigere il Brooklyn Eagle, dove ricoprii per due anni uno dei posti migliori della mia

vita - paga buona, il proprietario una brava persona, comodi il lavoro e l'orario. La crisi del partito democratico scoppiò

pressapoco in quel periodo (1848-49): io ruppi insieme ai radicali, e questo portò a litigi sia con il «capo» sia con il

partito, cosicché persi il posto.

Ero adesso senza lavoro, quando inaspettatamente mi fu offerta l'occasione (accadde una sera durante

l'intervallo nel foyer del vecchio teatro di Broadway, vicino a Pearl Street, a New York City) di andare a New Orleans

alla redazione del Crescent, un quotidiano che si sarebbe dovuto lanciare in quella città, e dietro il quale c'era un grosso

capitale. Uno dei proprietari, che si trovava al nord a caccia di materiale, mi incontrò mentre passeggiavo nel foyer, e

sebbene non ci fossimo mai visti prima, dopo quindici minuti di conversazione (e un bicchierino) raggiungemmo un

accordo formale, per cui mi pagò subito duecento dollari per vincolarmi al contratto e sostenere le spese fino a New

Orleans. Partii due giorni dopo; me la presi comoda dal momento che il giornale non sarebbe dovuto uscire prima di tre

settimane. Il viaggio e la vita nella Louisiana mi piacquero molto. Tornato a Brooklyn uno o due anni dopo, fondai il

Freeman, dapprima settimanale, poi quotidiano. Ben presto scoppiò la guerra di secessione, e fui travolto anch'io dalla

corrente che si dirigeva a sud, dove trascorsi i tre anni che seguirono (come dagli appunti precedenti).

Oltre a principiarne, come già detto, ho avuto a che fare nella mia vita con una lunga lista di giornali, a più

riprese e in luoghi diversi, talora nelle circostanze più strane. Durante la guerra, gli ospedali di Washington avevano, tra

gli altri strumenti di ricreazione, un giornaletto che stampavano lì, in quell'ambiente di ferite e di morte, la Armory

Square Gazette, cui collaborai anch'io. La stessa cosa accadde, casualmente, parecchio tempo dopo con un giornale -

credo si chiamasse The Jimplecute - del Colorado, dove mi trovavo momentaneamente. Nel 1880, trovandomi nella

provincia di Quebec, in Canadà, entrai in una stranissima, piccola e antica tipografia francese, presso Tadousac. Era di

gran lunga più primitiva e arcaica di quella del mio amico di Camden, William Kurtz, in Federal Street. Ricordo, da

ragazzo molti tipi caratteristici di vecchi stampatori, una razza rara a trovarsi ai giorni d'oggi.

IL GRAN FERMENTO DI CUI SIAMO PARTE

Seduto oggi in solitudine nella penombra del ruscello, i miei pensieri presero a fluttuare su vaste correnti

mistiche - convergendo principalmente su due punti o centri. Uno dei temi da me vagheggiati per un poema mai

compiuto, è sempre stato il duplice impulso dell'uomo e dell'universo - e in quest'ultimo, il fermento incessante,*la

desquamazione della natura (il concetto darwiniano di evoluzione, suppongo). E in verità, che cos'è la Natura se non

mutamento, in tutti i suoi processi visibili, e ancor piú in quelli invisibili? O che cos'è l'umanità con la sua fede, il suo

amore, il suo eroismo, la sua poesia, persino la sua morale, se non emozione?

*«Cinquantamila anni fa la costellazione dell'Orsa Maggiore o Gran Carro era una croce di stelle; tra centomila

anni l'immaginario carro sarà capovolto, e le stelle che formano la cassa e il timone avranno mutato posto. E in moto

sono le caliginose galassie, le quali turbinano inoltre in grandi spirali, quali in un senso quali nell'altro. Ogni singola

molecola di materia nell'intero universo oscilla avanti e indietro; ogni particella dell'etere che riempie lo spazio è in

vibrazione, come un corpo gelatinoso. La luce stessa è un tipo di movimento, il calore un altro, l'elettricità un altro

ancora, e così il magnetismo, il suono. Tutti i sensi dell'uomo sono risultato del movimento; ogni percezione, ogni

pensiero, non altro che movimento di molecole cerebrali tradotto da quella indefinibile sostanza che chiamiamo mente.

I processi di crescita, di esistenza e decadimento, sia di interi mondi che di organismi microscopici, non sono che

movimento». (N.d.A.).

ALLA TOMBA DI EMERSON

6 maggio '82. Sostiamo senza tristezza presso la recente tomba di Emerson - con una gioia anzi e una fede

solenne, orgoglio quasi - la benedizione della nostra anima non ridotta a un semplice:

«Riposa guerriero, il tuo compito è finito»,

poiché è certamente al di sopra dei guerrieri del mondo colui che giace qui simboleggiato. Un uomo giusto,

equilibrato in se stesso, pieno d'amore, comprensivo, e sano e limpido come il sole. Né sembra tanto la persona di

Emerson che siamo qui oggi a onorare - quanto piuttosto la coscienza, la semplicità, la cultura, gli attributi migliori

dell'umanità, applicabili tuttavia se necessario alle cose di ogni giorno, e alla portata di tutti. Siamo così abituati a

pensare che una morte eroica possa scaturire solamente da battaglie o tempeste, o da possenti duelli, o da occasioni

drammatiche e rischi (non ce lo hanno forse insegnato per secoli in tutti i poemi, in tutti i drammi?), che ben pochi,

anche tra coloro che più sinceramente piangono la recente dipartita di Emerson, sapranno apprezzare in pieno la matura

grandezza di questo evento in cui pace e giustezza s'incontrano, come nella luce vespertina sul mare.

Quante volte in futuro ritornerò sulle ore felici in cui, non molto tempo fa, ho contemplato quel volto buono,

quegli occhi limpidi, la bocca che sorrideva in silenzio, la persona eretta malgrado l'età avanzata - fino all'ultimo capace.109

di tanta vivacità e cordialità, e con una tale assenza di decrepitezza, che persino il termine venerabile non pareva adatto

per lui.

Forse questa vita, giunta adesso alla perfezione del suo sviluppo mortale, e a cui più nulla potrà apportare

mutamento o danno, trova la sua aureola più luminosa non nei suoi splendidi risultati intellettuali o estetici, bensì nel

fatto di costituire, nella sua interezza, una delle poche (ahimé quanto poche!) perfette e inconfutabili giustificazioni

dell'intera classe dei letterati.

Potremmo ben dire, come Abramo Lincoln a Gettysburg, «Non siamo noi che veniamo a benedire un morto -

noi veniamo colmi di reverenza a ricevere da lui, se è possibile, una qualche benedizione per noi stessi e per il nostro

lavoro quotidiano».

MENTRE SCRIVO - PERSONALE

(da una lettera a un amico tedesco).

31 maggio '82. «Da oggi sono entrato nel mio sessantaquattresimo anno. La paralisi che mi colpì circa dieci

anni fa ha persistito, se pur con alterno corso - sembra ora essersi a poco a poco stabilizzata, e probabilmente continuerà

a questo modo. Mi stanco con facilità, sono molto impacciato nei movimenti e non posso camminare a lungo; ma il

morale è eccellente. Esco in pubblico quasi ogni giorno - ogni tanto faccio una lunga gita, in treno o in battello,

centinaia di miglia - vivo per lo più all'aria aperta - sono abbronzato e robusto (peso 190 libbre) - continuo la mia

attività e mantengo vivo il mio interesse per la vita, la gente, il progresso e le questioni del giorno. Mi sento piuttosto

bene per circa due terzi del tempo. La mentalità che ho sempre avuto, quale che fosse, è rimasta affatto inalterata,

benché nel fisico io sia semi-paralizzato e verosimilmente destinato a rimanerlo finché vivo. Ma lo scopo principale

della mia vita sembra raggiunto - ho gli amici più devoti e appassionati, dei parenti affettuosi - e quanto ai nemici, per la

verità non me ne curo»,

DOPO AVER SFOGLIATO UN CERTO LIBRO

Ho tentato di leggere un dotto volume, stampato splendidamente, sulla «teoria della poesia», che ho ricevuto

stamane per posta dall'Inghilterra - ma alla fine vi ho rinunziato. Ecco qui alcune note buttate giú d'estro subito dopo,

così come le trovo tra le mie carte:

Nella giovinezza e nella maturità la Poesia è ricca di luce e della variegata pompa del giorno; ma come a poco

a poco l'anima prende il sopravvento (senza tuttavia escludere i sensi) il Crepuscolo diviene la vera atmosfera del poeta.

Anch'io ho cercato e cerco ancora il sole più luminoso, e compongo i miei canti in conformità. Ma avanzando gli anni,

le mezze-luci della sera significano per me molto di più.

Il giuoco della Fantasia, con gli oggetti della natura sensibile come simboli, e la Fede - e con Amore e

Orgoglio come invisibile impulso e forza motrice del tutto, creano quel curioso giuoco di scacchi che è una poesia.

Professori e critici di poco conto non fanno che chiedere «Che cosa significa?». Ma la sinfonia di un buon

musicista, un tramonto, le onde che rotolano sulla spiaggia - che cosa significano? Non v'è dubbio che nel senso più

sottile e elusivo significhino qualcosa - a quel modo che l'amore, e la religione, e una grande poesia significano

qualcosa; - ma chi potrà scandagliare e definire quei significati? (Non intendo qui fornire un alibi alla mancanza di

controllo e ai voli frenetici - ma piuttosto giustificare l'anima che spesso si delizia di ciò che rimane indefinibile per

l'intelletto e il calcolo).

Il meglio della tradizione poetica potrebbe assomigliarsi a una conversazione al crepuscolo tra interlocutori

distanti e nascosti, di cui ci giungano solamente pochi e spezzati mormorìi. Quel che non riusciamo a cogliere è molto

di più - e forse l'essenziale.

I più grandi brani di poesia vanno accostati solamente a una certa distanza, a quel modo che talvolta cerchiamo

di notte le stelle, non fissandole direttamente, ma spostando lo sguardo da una parte.

(A un amico e studente di poesia). Desidero soltanto metterti in rapporto. Il tuo cervello, il tuo cuore, la tua

stessa evoluzione, devono non solo capire la materia, ma in gran parte fornirla.

CONFESSIONI FINALI - CRITERI LETTERARI

Queste garrule note si approssimano dunque alla fine. Saranno certo occorse ripetizioni, errori tecnici

nell'ordine delle date, nella precisazione di dettagli botanici, astronomici, ecc., e forse anche altrove; - perché tra

raccogliere, scrivere, spedire il materiale seduta stante, con questo caldo (fine luglio e tutto agosto '82), e non tener

sospesi gli stampatori, ho dovuto andar di fretta, non un minuto da perdere. Ma per quanto riguarda la più profonda.110

veracità dell'insieme - i riflessi di oggetti, scene, effusioni della Natura, sui miei sensi e sulla mia ricettività, quali essi

m'apparvero - lo sforzo di offrire, a dai l'avesse a cuore, qualche squarcio autentico, i giorni rappresentativi della mia

vita - e infine lo spirito e i rapporti di buona fede tra autore e lettore su tutti gli argomenti delineati, entro i loro limiti -

su tutto ciò sento di poter avanzare aperte pretese.

La sinossi della mia vita giovanile, Long Island, New York City e così via, e le note di diario della guerra di

secessione, narrano da sole la loro storia. Il mio piano, nell'iniziare ciò che costituisce ampiamente la parte centrale del

libro, era all'origine di raccogliere suggerimenti e dati per un poema sulla Natura, che avrebbe dovuto sviluppare le

esperienze di una persona durante poche ore, con inizio in pieno mezzogiorno e continuando poi per tutto il resto della

giornata - spinto a questa idea, credo, dal tardo pomeriggio della mia vita, ormai sopraggiunto. Ma subito scoprii che

avrei potuto muovermi più a mio agio offrendo la narrazione di prima mano. (V'è poi quella lezione umiliante che si

apprende nelle ore serene di una bella notte o una bella giornata: quando la natura sembra riguardare tutte le forme

ricercate di poesia e d'arte come qualcosa di quasi impertinente).

Così continuai, negli anni che seguirono, in varie stagioni e località diverse, a dipanare il filo del mio pensiero

sotto la notte e le stelle (o nella mia stanza, quando vi ero confinato dai postumi della malattia), o a mezzogiorno

spaziando con lo sguardo sul mare, o in battello su al Nord, quando solcavo il nero grembo del Saguenay - di tutto

prendendo nota nell'ordine cronologico più assurdo, per poi cominciare a stampare qui direttamente da quegli appunti

estemporanei, con le stagioni a malapena raggruppate, e senza nemmeno una correzione - con un tale timore di far

svanire quella fragranza di aria libera di sole o di stelle che poteva essere rimasta attaccata a quelle righe, che non ho

più avuto il coraggio di ficcarci il naso o di limarle. Ogni tanto (non spesso, e più che altro per contrasto) mi portavo in

tasca un libro, o magari un gruppetto di pagine strappate da un volume mal ridotto o da un'edizione da pochi soldi;

avevo quasi sempre qualcosa del genere a portata di mano, ma non lo prendevo se non quando lo stato d'animo lo

richiedeva. In tal modo, completamente al di fuori di ogni convenzione letteraria, ho riletto molti autori.

Di una certa fame di lettura io non riesco a spogliarmi, ma poi alla fine mi sorprendo a vagliarla alla luce della

Natura - premessa essenziale, la definiscono molti; in realtà risultato culminante di ogni cosa, leggi, rapporti e prove.

(Non è mai venuto in mente a nessuno che i criteri decisivi applicabili a un libro esulano totalmente dall'ambito tecnico

e grammaticale, e che ogni opera veramente di prim'ordine ha ben poco o nulla a che fare con le regole e i metri dei

critici ordinari? o con lo stucco esangue del dizionario di Allibone? Io ho immaginato che l'oceano e la luce del giorno,

la montagna e la foresta, immettessero il loro spirito in un giudizio sui-nostri libri. Ho immaginato che una qualche

disincarnata anima umana pronunciasse il suo verdetto).

NATURA E DEMOCRAZIA - MORALE

Più di ogni altra cosa la Democrazia si accorda con l'aria aperta: solo a contatto con la Natura è solare, robusta,

sana - proprio come l'Arte. V'è bisogno di qualcosa che temperi l'una e l'altra - che le controlli trattenendole dagli

eccessi, dalla morbosità. Prima di andarmene ho voluto rendere una testimonianza speciale a un criterio, un

insegnamento antichissimo. La Democrazia americana con le sue miriadi di personalità, fabbriche, laboratori, magazzini

ed uffici - le sue strade e case di città gremite di gente con la loro vita multiforme e sofisticata - se non trarrà vita e fibra

da un regolare contatto con la luce e l'aria e i prodotti della natura, i paesaggi agricoli, gli animali, i campi, gli alberi, gli

uccelli, il calore del sole e il libero cielo, è certamente destinata a vacillare e impallidire. A condizioni diverse da

queste, noi non avremo mai grandi razze di artigiani, operai e gente comune (unica mèta specifica dell'America). Io non

so concepire uno stadio fiorente ed eroico della Democrazia negli Stati Uniti, né possibilità per essa di sopravvivere,

senza l'elemento della Natura come parte essenziale - il suo elemento cioè di salute e di bellezza - che stia veramente

alla base di tutta la politica, la sanità, la religione e l'arte del Nuovo Mondo.

E infine, la morale: «La virtù - diceva Marco Aurelio - cos'è mai se non un sentimento entusiastico e vivo di

armonia con la Natura?». Forse veramente gli sforzi dei veri poeti e dei fondatori delle religioni e delle letterature di

ogni epoca, sono stati e saranno sempre, nel nostro tempo come in quello a venire, essenzialmente gli stessi - richiamare

cioè gli uomini dalle loro deviazioni testarde e dalle loro malsane astrazioni alla divina media, senza prezzo, originale e

concreta.